11.
Nel pagliaio c’era silenzio, a volte quando un soldato si rigirava nel sonno si sentiva un fruscio nel fieno, ma era l’unico rumore. Proska si era sistemato accanto alla porta grande. Stava riposando dopo la sua prima missione. Non riusciva a prendere sonno. Nel punto che aveva scelto la paglia era bagnata, perciò aveva allargato a terra il telo impermeabile in cui intendeva avvolgersi. Da una fessura poco piú in là, sopra di lui, entrava l’aria nebbiosa della notte. Se sporgeva la testa distingueva chiaramente la fessura; ma anche senza sporgere la testa, poteva sentirla allungando una mano finché incontrava lo spiffero freddo. Dentro il pagliaio non faceva molto piú caldo che fuori nei campi. Se non altro però si era in qualche modo al riparo dalla pioggia.
Era dunque quella la vita che dovevano sopportare dall’altra parte della barricata. Altrettanto grigia, per nulla migliore. Naturalmente un po’ meglio lo era, questo Proska l’aveva notato subito. I feriti che aveva incontrato, per esempio, erano trionfanti pur nelle loro sofferenze. Sapevano, per averlo visto, che si andava avanti verso la vittoria. E quelli dei rinforzi gridavano loro parole scherzose. L’orizzonte era grigio, le facce erano grigie, la distruzione era grigia e la terra era grigia, ma il livello del morale era alto.
Dagli alberi rimasti in piedi cadevano le foglie. I rami spogli si protendevano al cielo nudi e assurdamente lindi. Autunno. Autunno di principi e di coscienza.
Dallo sportello di un carrarmato squarciato che se ne stava nel campo dietro al pagliaio pendeva una mano: segnale nell’autunno.
La porta si aprí piano e apparve la lingua di luce di una torcia elettrica. Il chiarore si insinuò un poco a fianco rispetto a Proska, restò a frugare nelle vicinanze e quando lo ebbe trovato si spense. Proska sentí dei passi avvicinarsi. Un soldato si chinò su di lui, era quello di guardia, Proska lo riconobbe dal dialetto svevo.
«Sei te il Proska?» chiese.
«Sí. Che vuoi?».
«Mi mandano a dirti una cosa. Vieni fuori, va’».
Proska si alzò e seguí la guardia all’esterno del pagliaio.
Il vento lo investí bruscamente; Proska alzò il bavero, infilò le mani nelle tasche e fece qualche passo sul posto.
«Allora» disse la guardia, e gli avvicinò la bocca all’orecchio. Parlò in modo incalzante, a lungo e sottovoce; piú parlava con Proska, piú gli sembrava breve il tempo che doveva trascorrere lí, fuori dal pagliaio. Quando sono di guardia, persino ai muti viene una gran voglia di chiacchierare. Proska invece si stava facendo sempre piú impaziente. Continuava a guardare dalla parte del parco solitario del sanatorio, prestando sempre meno attenzione a chi gli stava parlando. A un certo punto se ne andò. Lasciò lí la guardia e si avviò a fianco del campo. Camminava chino, con la testa sempre un pezzetto piú avanti delle gambe e le gambe che faticavano a starle dietro. Un viottolo lo condusse a una strada, e quella strada percorse di fretta fino al parco. Gli alberi del parco avevano dismesso il loro portamento fiero. Davano l’impressione, tanto erano stati scossi e strappati dall’artiglieria, di non potersi piú riprendere. Le chiome spelacchiate si sporgevano come enormi scope di saggina sui vialetti trascurati, e i colombi selvatici che vi avevano sempre dimorato volentieri non osavano piú farvi ritorno. Il rudere del sanatorio puzzava ancora di fumo. Il tetto e due muri perimetrali erano crollati coprendo di macerie la grande pista da ballo e tutto quello che ci stava sopra, o sotto. Solo in una piccola veranda c’erano ancora come un tempo alcune sedie ribaltabili con la vernice bianca saltata. Era un pezzo che nessuno veniva piú a sederci sopra.
Proska girò intorno al rudere e lambí la piccola veranda con la coda dell’occhio. Per la sorpresa gli affiorò sulla fronte la vena corta: sopra una delle sedie ribaltabili sedeva qualcuno, con le spalle rivolte verso di lui.
Entrò deciso nella veranda e disse: «Ehi!».
La figura si alzò e andò verso di lui come se con quella parola l’avesse presa all’amo.
«Walter!».
Il suo nome si era levato sommesso, incerto, tenero. Proska trasalí.
«Wanda!» esclamò sgomento, «mio Dio, sei proprio tu?».
Le si avvicinò e la strinse forte a sé, le prese la nuca tra le mani larghe e se la premette contro. Continuava a baciarle i capelli inumiditi dall’aria.
Il vento sembrava cercare qualcosa in mezzo alle rovine del sanatorio, correva a perdifiato tra le fessure, buttò giú una lattina da un cumulo di mattoni. Si arrampicava senza sosta con ululati stizziti su per un muro laterale rimasto in piedi.
L’uomo cinse i fianchi della ragazza con un braccio facendole aderire al corpo la stoffa grezza del cappotto.
«Vieni» le disse, «fa freddo, mettiamoci dietro al muro, non stai gelando?».
«No» rispose lei lasciandosi condurre via.
Si sedettero su due lastre di pietra asciutte al riparo dal vento. Wanda si portò le ginocchia contro il petto e infilò l’orlo del cappotto sotto la punta dei piedi.
«Adesso posso resistere fino a domani» disse.
«Come hai fatto a trovarmi?» le chiese lui.
«Non è stato facile».
«E come sei arrivata fin qui?».
«Tornerai indietro?» gli chiese.
«Indietro dove?».
«Da me. A Tamaschgrod. Ho parlato molto di te agli altri. Sono brava gente. Gente povera. Una volta hai detto che noi... Lo pensi ancora?».
«Sí, Wanda, e lo faremo. Ma non posso ancora tornare».
«Perché no?».
«Ho preso un impegno, scoiattolino, ho firmato delle carte. Lo stesso ha fatto Wolfgang. Adesso sono dalla vostra parte. La guerra non è ancora finita. Ogni ora muore qualcuno, ragazzi in gamba, poveretti. Credimi, preferirebbero vivere, se potessero. Invece non possono, solo perché c’è una cricca infame che...».
«Cos’è una “cricca”?» lo interruppe Wanda.
«Quando una canaglia è troppo debole si mette in combutta con altre canaglie. Tra canaglie se la intendono meglio di chiunque altro al mondo, perché la malvagità non lascia spazio ai malintesi. Sulla verità si può discutere, Wanda, e perfino sulla morte, come ha detto una volta Wolfgang, ma il male è solo male e non può essere altro. Ecco perché questa cricca se l’intende cosí bene, ecco perché nessuno di loro ha pietà per quelli che devono crepare per loro».
«Quando torni a Tamaschgrod?».
«Quando quelle canaglie saranno sottoterra».
«Quanto tempo ci vorrà?».
«Non si può prevedere. Ma piú noi siamo forti, prima ce le leveremo di torno».
«E se le canaglie sono piú forti dei vostri?».
«Le canaglie sono forti solo verso l’esterno. Se le vuoi uccidere devi colpirle dentro».
«Non capisco».
«Lo capirai presto».
Tacquero, lui lanciò via il mozzicone di sigaretta, le prese la mano e la scaldò fregandola tra le proprie. La luna fece capolino un momento e guardò giú di malumore verso di loro. Poteva mostrarsi solo quando glielo permettevano le nubi basse e grevi che correvano svelte nel cielo.
Dopo un po’ Proska disse: «È tutto dimenticato?».
«Cosa?».
«La disgrazia di tuo fratello. L’ho visto come piangevi quando sono andato via dal forte».
Lei non rispose.
«Per caso sai che fine hanno fatto Poppek e il caporale?» chiese allora Proska.
Wanda scosse la testa.
«Non voglio tormentarti, scoiattolino. Non devi avertene a male se te lo chiedo».
Lei chiuse gli occhi, gli passò la mano nei capelli scompigliati. Le tremavano gli angoli della bocca.
«Non stai piangendo, Wanda, vero?».
«No».
«Mi aspetti? Un giorno ritornerò».
«Sí. Ti aspetto. Ti penserò ogni giorno».
«Scoiattolino».
«Sí».
«Magari quando torno ti trovo addormentata. Però io non ti sveglio, mi metto vicino al letto e ti guardo il viso; tu a un certo punto hai la sensazione che qualcuno ti sta osservando, apri gli occhi e all’inizio sei sorpresa di vedermi. Poi sorridi, tiri le braccia fuori dalle coperte e mi abbracci».
«È cosí che andrà?».
«Sí» disse lui, «andrà cosí. E se quando torno non stai dormendo, magari è perché mi stai aspettando in stazione a Prowursk. Sei contenta e ti sbracci per farti vedere e io ti chiedo: Mi darebbe un passaggio, signorina? Devo andare solo fino alle paludi. Posso pagarla, se vuole. E tu allora cosa dirai, scoiattolino?».
«Io ti metterò in guardia!».
«Sai cosa? Vorrei alzarmi da qui adesso e partire con te per Tamaschgrod».
«Potremmo andarci a piedi» disse lei.
«Non mi importerebbe di dover fare a piedi tutta quella strada».
«Le strade sono un pantano...».
«E allora? Vuol dire che arriviamo a casa in scivolata».
Si tennero stretti per mano come se niente potesse piú dividerli e per loro non ci fossero piú addii.
«Senti» disse lei timida.
«Dimmi».
«Ti ho portato delle sigarette, Walter. Non sono tantissime, ma tutte quelle che sono riuscita a trovare a Tamaschgrod. Da noi la gente è povera, fumano quasi tutti tabacco da pipa. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere avere qualche sigaretta, magari qui non se ne trovano».
«Scoiattolino» disse lui premendosi al petto la mano di Wanda.
«Tieni. Te le ho cucite dentro un pezzo di incerata. Stavo quasi per consegnarle alla guardia, poco fa».
Proska le posò la testa sul grembo e fissò nel buio.
«Scoiattolino?» chiese dopo un po’.
«Dimmi».
«Magari un bel giorno avremo anche un bambino o due?».
«L’avremo prestissimo, Walter».
Lui disse: «Non ci vorrà piú molto, prima che io torni a casa».
Lei lasciò la mano sopra la testa di Walter e disse: «Ma noi avremo un bambino prima ancora. Sono venuta fin qua proprio per dirtelo. Ho dovuto chiedere di te a molte persone, non è stato facile trovarti. Il bambino arriverà appena finisce l’inverno. A Tamaschgrod l’hanno saputo prima di te. Cos’è, sei triste che arrivi un figlio tanto presto? Perché non dici niente?».
Gli carezzò il collo con la punta delle dita.
Proska si tirò su e balbettò: «Lo sapevo, l’immaginavo che me l’avresti detto. Vorrei tanto tornare a casa con te subito. Se solo potessi! Adesso almeno per te non sarà troppo duro aspettare. Sarò con te anche se sono via. Se tu sapessi quanto sono felice. Ci rivediamo domani, Wanda? Può darsi che ci fermiamo qui nel pagliaio una settimana intera. Sei diversa, sai? Quasi non ti riconosco. Chi ti ha cambiata?».
«Tu» disse lei. «Non hai freddo? Sei senza cappotto».
«Non ho freddo» disse lui.
«E se ti prendi un raffreddore?».
«No. Non mi succede tanto facilmente, mi sono temprato. Non vuoi fermarti, Wanda? Anche un giorno solo, se puoi».
«Sí, Walter».
«Ci rivediamo domani?».
«Sí».
«Qui nel sanatorio?».
«Dove vuoi tu, Walter. Se dici che devo venire qua, vengo qua, e se vuoi che ci incontriamo da un’altra parte vado da un’altra parte».
«È stato faticoso il viaggio?».
«No. Mi hanno aiutato molti soldati».
«Un giorno» disse Proska, «faremo insieme un lungo viaggio, ma non a piedi».
«E dove?» chiese lei sottovoce.
«A Sybba. Scommetto che nemmeno sai dove si trova. Non è un villaggio molto grande, si trova fra un lago e un bosco di vecchi pini. Il lago si chiama Lyck, e il bosco si chiama foresta di Sybba. È là che andremo, Wanda, da mio cognato Kurt Rogalski. Fa il contadino e possiede un po’ di roba. Mia sorella Maria è sua moglie. Lei ti piacerà. E da Sybba prendiamo un treno per Magdeburgo. Lí abita uno zio, un fratello di mio padre. Lavora per la cassa di risparmio. Lo sai che cos’è una cassa di risparmio?».
Sedevano attaccati, cercando di scaldarsi in silenzio, e, nel silenzio, si bastavano. La presenza dell’altro saziava ogni desiderio; Walter e Wanda provavano un piacere profondo, semplice, e la contentezza, questo patrimonio privato, difficile da raggiungere, gettava radici nei loro cuori. In lontananza si udiva il rombo di un singolo aeroplano, uniforme, monotono, una ninnananna moderna.
«Non posso restare piú a lungo» disse Proska. Lei allungò le gambe e fece per alzarsi.
«Aspetta» la fermò lui, «il tempo per una sigaretta ce l’abbiamo ancora».
Fumò la sigaretta fino in fondo, quindi si alzarono e si abbracciarono, lui la prese per mano e la condusse attraverso le macerie del sanatorio, oltre la piccola veranda con le sedie dimenticate, nel parco solitario.
«Allora vieni anche domani, Wanda?».
«Sí».
«Alle otto?».
«Se vuoi».
«E adesso cerchi un posto dove dormire?».
«Ce l’ho già».
«Bene».
L’abbracciò e la baciò, la salutò con la mano e si allontanò.
Quando fu andato, lei tornò al rudere del sanatorio, sedette dove si erano messi poco prima, infilò il bordo del cappotto sotto la punta dei piedi e posò il mento sulle ginocchia.
Proska passò senza dire una parola davanti alla guardia, aprí piano la porta grande e si coricò sul telo impermeabile. Si addormentò in fretta. Due ore dopo lo svegliarono di nuovo. Un autocarro lo stava aspettando con il motore acceso.