3.
Proska pensò: “Basta, non me ne importa piú niente, non ce la faccio a restare ancora in questo vagone capovolto. Anche se magari quelli si sono fermati a guardare l’esplosione, devono aver deciso che è inutile venire a verificare la morte di chi è saltato in aria insieme al treno. Probabilmente si sono ritirati da un pezzo. Vai a sapere, con quella gente. Mi fa male la spina dorsale, come se qualcuno la stesse usando al posto della corda per il suo arco. Se solo potessi tirarmi su e sgranchirmi. Il fucile sembra in ordine. Riesco a caricarlo. Devo uscire al piú presto da questa scatola orrenda. Se si mettono a sparare, almeno ho pur sempre una buona copertura. Presto dovrebbe anche alzarsi il sole. Chissà cosa sarebbe successo se non mi fossi addormentato. Ai suoi amici il Signore ne dona anche se dormono. E se fosse tutta un’illusione? Non è che alla fine mi sto solo immaginando di essere qua? È proprio da ridere. Riesco a dubitare di me stesso nonostante la spina dorsale che mi fa male e la vescica che preme per vuotarsi. Non mi ritroverò mica a fare come quelli che si buttano in testa la terra quando gli sembra di dubitare di essere vivi? Basta, fuori adesso!”.
L’assistente guardò il finestrino sfondato che si trovava subito sopra di lui, allungò tutte e due le mani e si tirò in alto issandosi alla cornice di ferro. Per un istante non riuscí a vedere altro che il cielo, la cui immensa innocenza lo incoraggiò a infilare la testa nell’apertura e arrischiare un’occhiata nelle immediate vicinanze. Per prime scorse le cime di alcuni abeti, poi i tronchi e infine, man mano che gli occhi scivolavano verso il basso, gli eserciti delle betulle che rabbrividivano nella nebbia del primo mattino e la sterpaglia tenace dei solitari rovi selvatici. Lo squasso dell’esplosione aveva divelto i binari dalle traversine e li aveva piegati come sottili candele di cera.
A un tratto Proska sentí una voce: «Pjerunje, lí c’è uno vivo».
Si voltò di scatto e dietro un giovane salice riconobbe un soldato smilzo che gli veniva incontro piano, con il fucile sul fianco.
«E tu da dove vieni?» chiese Proska stupito.
«Da Gleiwitz» disse lo spilungone, e sorrise.
«Voglio dire, che ci fai qui? Siete dislocati da queste parti?».
«Ma sei vivo da vero! Hai vinto loteria! Quello che ha seduto davanti è schiaciato come cimice fra scatole di conserva. E guidatore di locomotiva ha preso ali e volato con testa contro albero. Ma cosa mai sucesso? E bene, sucesso grande patapum!».
«Sono tutti morti?» chiese Proska. Dal tono della domanda sembrava non fosse sicuro di essere vivo neanche lui.
Lo spilungone annuí. Aveva grandi orecchie un po’ a sventola, un naso cosiddetto a uncino e gli occhi marroni. Mostrava evidenti difficoltà a guardare da sotto quell’elmetto di acciaio che era almeno due taglie di troppo. Davanti al vagone rovesciato si fermò e disse: «Dobbiamo fare svelto, adesso. Scapare via veloce! Tutto resto è schwistko jedno. Vieni fuori, presto. Hai fucile?».
«Sí».
«Allora prendi e vieni».
Mentre Proska usciva a fatica dal finestrino l’altro scrutò le cime degli alberi. A un tratto emise un fischio tra i denti.
«Che c’è?».
«Là» disse lo spilungone indicando due abeti con la canna del fucile, «hanno seduto là a guardare treno che vola in aria».
«Come lo sai?».
«Fai veloce, Pjerunje».
«Dove vuoi che andiamo?» chiese Proska. «Non è piú sicuro restare qui?».
«Sí, ma solo a pomeriggio. Da due a otto».
«E tu che ci fai qua adesso?».
«Reparto guardia di strada ferata».
«Da solo?».
«Altri cinque soldati e un sottuficiale, che lui ha responsabilità. Ma non di strada ferata, di noi».
Proska si mise il fucile sul fianco e fece due passi sul terreno molle. Poi disse: «In realtà io farei meglio a restare qua. Devo proseguire il viaggio, raggiungere la mia unità».
Lo slesiano si arrabbiò. Ribatté: «E bene o vieni o rimani! Prossimo treno arriva forse in tre ore. Prima puoi essere già cento volte...» si colpí ripetutamente l’indice contro l’elmetto e il busto.
«E dove mi porti?».
«Su, vieni».
Proska rientrò nel vagone e due minuti dopo ricomparve con il tascapane e il pacco per il capitano Kilian.
«Qui lasciamo tutto cosí?».
«Dopo viene pattuglia mobile di strada ferata e mette a posto. Li telefoniamo subito. Basta quello».
Lo spilungone partí. Trascinava leggermente la gamba sinistra, come se lo stivale gli andasse troppo stretto. Proska guardò il fondoschiena del soldato e pensò: “Non ha un briciolo di sedere. Chissà come fa a tenere su i calzoni. Gli uomini senza sedere sono quelli che stanno meglio vestiti con un completo. Gente di cui diffidare”.
Si aprirono in silenzio un varco nella sterpaglia fitta e presto giunsero su uno stretto sentiero battuto. Ai lati Proska notò giganteschi alberi sradicati, fiduciose sferze di nocciolo e malerbe tenaci. Natura selvaggia e incontaminata, un fazzoletto di terra che la mano dell’uomo non aveva mai cercato di addomesticare. Persino la morte faticava a insinuarsi fin lí; quando riusciva a bruciare una vita gliene spuntavano intorno mille nuove. Si vede che era giunto il momento di prestare soccorso alla morte in quella regione cosí rigogliosa di vita, poiché la grandezza di ogni cosa cui è dato il respiro sta nel suo anelito alla rovina. Mentre lí sembrava non esserci rovina alcuna.
Lo slesiano si fermò senza preavviso; l’uomo che lo seguiva gli pestò i calcagni.
«Cosa c’è?» domandò Proska.
«Aereo. Dobbiamo andare piú svelto. Là, ecco là!».
Lo spilungone indicò con la mano tesa un lembo di cielo visibile fra le chiome degli alberi.
«Vedi?».
«E quindi?».
«Atento, adesso buttano soffioni».
«Soffioni?».
Dall’aereo si staccarono due punti neri che precipitarono verso terra. All’improvviso si aprirono dei paracadute per rallentare la caduta. Nell’aria oscillarono due taniche oblunghe.
«Rifornimenti» disse Proska.
«Ma non per noi» replicò lo spilungone. Si rovesciò l’elmo d’acciaio sulla nuca e toccò la spalla del suo compagno.
«Andiamo. Resta poco tempo».
Ripresero a camminare con passo piú veloce.
«Cosa c’è nelle taniche?».
«Miccia» disse lo spilungone senza voltarsi, «munizioni e dinamite». Procedeva a grandi falcate. Con una mano reggeva il fucile e con l’altra spostava di lato i rami sporgenti che poi scattavano indietro colpendo Proska.
«È ancora lontano?».
«No, no».
«A proposito, come ti chiami?».
«Zwiczosbirski».
«Come?».
«E bene, zwiczos come zviscios e birski come birschi».
«È polacco?».
«Alta Slesia».
«E di nome?».
«Jan».
«Vedo che zoppichi. Ti hanno ferito?».
«E bene, hanno anche ferito. Mitra, ra-ta-ta».
«Quando è stato? Qui nelle paludi?».
«Vicino. A Tamaschgrod. Dovevamo prendere fienile. Davanti a fienile era mitra, nascosto bene dietro cespuglio».
«Di giorno?».
«E bene, erano forse sei di mattino. Io corro e salto sopra fosso. E quando sono in aria vedo mitra. Vedo anche tre soldati e piccolo buco nero di mitra». Lo spilungone si fermò, guardò Proska e proseguí: «Cosí ho pensato: speriamo che da piccolo buco nero non viene fuori niente prima che sei di nuovo giú con muso in terra. Invece qualcosa veniva fuori, e tre pallottole hanno morsicato gamba».
«Ti ha fatto molto male?».
«I wo! Adesso devo zoppicare, sono buono solo per guardia».
«Come hai detto che ti chiami?».
«Zwiczosbirski. Ma questo nome nessuno può usare. Dice che fa nodo a lingua. Tutti chiamano me Gamba».
«Perché zoppichi?».
«Adesso andiamo, fa tardi».
Proseguirono e giunsero a un pendio con pochi alberi. Il sentiero si interrompeva di colpo.
Lo slesiano guardò cauto da ogni parte.
«Hai visto qualcosa?».
«Qui passano spesso».
«Chi?».
«Cari amici. Devi parlare piano. Come ti chiami?».
«Proska, Walter Proska».
«Devi fare piano piano, Proska. Hanno orecchie buone e occhi buoni, e buona mira».
«Perché non li eliminate?».
«Atento!» esclamò sottovoce Gamba. «Sta’ giú, accidenti, non ti muovere. Muso a terra. Giú, giú».
Proska si buttò d’istinto dietro a un arbusto di ontano e guardò in alto verso lo spilungone.
«Che succede?» sussurrò.
«Là!».
Dal pendio scendeva una banda di uomini in abiti civili, ciascuno armato di un mitragliatore. Tra loro ce n’erano di piú anziani e di piú giovani, e quello che stava davanti a tutti era un bel ragazzo con gli occhi verdazzurri e il naso piccolo e affilato.
Proska infilò piano il fucile nell’arbusto di ontano e centrò il primo nel mirino. Risalí dal basso e mirò al punto in cui doveva trovarsi il cuore del ragazzo. Gli uomini si avvicinavano ignari ma non incauti. L’assistente cercò nel grilletto il punto di resistenza.
“Li lascio camminare ancora dieci metri” pensò.
“Ancora otto metri, ancora sei, ancora quattro...”.
Ricevette una botta nelle costole. All’improvviso lo spilungone era disteso accanto a lui e ansimava: «Non sparare, stupido. Per amor di Dio, non sparare o fanno noi a pezzi. Metti via quel schioppo». Lo spilungone spinse la canna verso il basso.
L’aeroplano virò sopra le loro teste. I partigiani sollevarono brevemente lo sguardo mentre camminavano. A metà del pendio si fermarono, parlottarono fra loro e si divisero in due squadre. Una squadra tornò sul cammino da cui erano venuti, l’altra partí in direzione della ferrovia, sfilando accanto a Proska e Gamba. Quando furono passati, Proska si alzò per primo e chiese: «Perché non abbiamo sparato?».
«Perché?» ripeté lo slesiano con un sorriso furbo.
«L’avremmo steso...».
«A che serviva? Eri già steso tu».
«Gli altri sarebbero scappati».
«No. Loro avrebbero sparato, e sparato bene. Sono bravi, loro. Noi invece spariamo poco».
«Perché?» domandò Proska e si diede una pacca sulla nuca muscolosa.
«Vuoi ucidere mosche con fucile? Loro saranno centocinquanta, noi sei piú sottuficiale, che lui ha responsabilità. A che serve? Loro sparano poco e noi spariamo poco. E bene, cosa ti serve di arrabiare elefante? Con proboscide lui molla uno e hai chiuso».
«Ma allora che ci state a fare, qui?».
«Guardia di strada ferata. Ti ho già detto. Vogliamo camminare piú svelto?».
«Strana guerra, la vostra».
«Guerra è sempre strana» disse lo spilungone. «Nessuno sa se vita è bene o male. Uno cerca palottola e non trova, altro non cerca palottola e trova lei ficcata in sua pelliccia. Guerra è loteria».
«Lo so, sono stato anche in prima linea. Ne ho viste tante».
«Qui è diverso. Puoi paragonare crauti e busto di Führer? Io dico no. In prima linea non riesci ad addormentarti, e quando morte ariva, ariva. Tu senti che viene. Qui non senti. Quando mi sveglio di mattina io piego alluce in giú. Se fa male, morte non è venuta. Fino a ora, sempre faceva male».
«Manca ancora molto? Come siete sistemati di preciso?».
«Abbiamo costruito piccolo forte di legno. Sottuficiale ha fatto supervisione, tra poco puoi dire lui buongiorno, se ancora vive».
«Perché? È cosí pericoloso, da voi?».
Lo slesiano tacque. Stavano camminando nell’erba alta e umida. Le suole sguazzavano nella fanghiglia. Una libellula frullò accanto all’orecchio di Proska. C’era odore di acqua stagnante. Il vento carezzava con mano invisibile le canne che si piegavano obbedienti. Dietro i tronchi di alcune betulle luccicava lo specchio di uno stagno.
«È bello, qua» disse Proska a voce bassa.
«A chi piace» mormorò Zwiczosbirski. Si fermò a qualche metro dallo stagno, regolò l’alzo della carabina sulla distanza piú ravvicinata, fece segno a Proska di aspettarlo lí e si avviò piano verso l’acqua. Ma Proska lo seguí.
L’acqua dello stagno era limpida, si vedeva il fondo. Fra le piante c’era un pullulare di coleotteri e pulci d’acqua. Alcuni piccoli carassi cercavano di afferrarli con la bocca, e quando urtavano il fondo o lo sfioravano con la coda, risaliva a galla tra i mulinelli un fungo di fanghiglia, e sembrava che là sotto, nell’opprimente silenzio brulicante di vita, esplodessero delle granate.
All’improvviso lo spilungone sollevò il fucile e prese la mira, ma prima ancora che potesse premere il grilletto qualcosa si mosse nell’acqua, e Proska riconobbe il balenare del muso a becco d’anatra di un luccio gigantesco. L’animale guizzò per metà fuori dall’acqua e con un tonfo possente scomparve fra le alghe.
«Diavolo» gemette lo slesiano e abbassò il fucile.
«Volevi sparargli?».
«No, fare soletico» disse con rabbia lo spilungone. Aveva la fronte sudata.
«Era un luccio» osservò Proska ingenuamente.
«E bene, che altro? Culo con pinne? Conosco lui bene, siamo vecchi nemici. È già scapato quindici volte: strappato quattro lenze, rotto un cestino. Ma io lui prendo».
«I vecchi lucci sono furbi».
«Io piú furbo».
«Avrà almeno vent’anni».
«Io ho quarantaquattro» disse Zwiczosbirski con superiorità. «Otto mesi che padella aspetta lui».
«Credi che riuscirai a prenderlo?».
«Credo? E bene, io so. In quattro settimane, io lo prendo».
«L’acqua è molto limpida, qui».
«Non è strano. Fosso piccolo tiene tutto pulito. Fosso piccolo è figlio di fiume grande. A volte luccio è in fiume grande, a volte in fosso, e quando vuole digerire pranzo viene fino qui. A grande pesce serve grande casa, grande signore ha bisogno di molti servi. Quando tu vieni in mondo e vuoi sapere come vivono uomini, devi solo sdraiare vicino a acqua e aspettare. Non sentirai molto, quello no, ma però vedrai. I pesci sono...».
Nelle immediate vicinanze risuonò il crepitare nervoso di un mitragliatore. Un grido tremendo giunse alle orecchie dei due uomini, il grido di un uomo. Lo spilungone sollevò la testa, strizzò gli occhi, mormorò: «Stani» e partí di corsa verso una macchia di vegetazione. Proska riuscí a stargli dietro a stento.
«Cosa succede?» ansimò Proska quando furono al riparo degli alberi.
«Stanislaw gridava».
«E quindi?».
«Vieni» disse lo spilungone, «presto, lui ha bisogno di aiuto».
Trovarono Stanislaw in un cespuglio di more, giaceva a faccia in giú, le spalle scosse da un tremito, le mani conficcate nella terra molle. Vicino a lui c’era già qualcuno, stava cercando di voltarlo.
«È morto, Helmut?» chiese Zwiczosbirski.
L’altro, un soldato giovane con una faccia lunga e labbra impassibili, disse: «Non credo. Gli hanno rasato via il naso, però, e di sicuro avrà dei danni anche agli occhi».
Lo spilungone buttò il fucile a terra, cadde sulle ginocchia e gridò: «Stani! Zo ti tem srobjis! Ti nge bidsches sdäch! Pozekai lo! Stani! O moi bosä, moi Schwintuletzki. O moi Jesus!».
Helmut si alzò e andò di fianco a Proska. Tutti e due restarono a guardare lo spilungone che carezzava il corpo del soldato riverso, tra grida e singhiozzi.
«Sta parlando in polacco?» chiese Proska sottovoce.
«Piú o meno. Stani è il suo migliore amico. Sono tutti e due di Gleiwitz. Quando sono agitati parlano cosí. Eri sul treno?».
«Sí».
«Sei l’unico?».
«No, c’erano anche...».
«Intendo l’unico fortunato?».
«Sí. A quanto pare. È stato Stani a gridare, poco fa?».
«Sí, era andato in cerca di uova di pavoncella e...».
«Non è presto?».
«Devono averlo sorpreso mentre cercava. Comunque io mi chiamo Poppek, Helmut».
«Walter Proska».
«Dobbiamo portare Stani a casa. Tu sta’ attento a alberi. Spara subito! Qualcuno è ancora qua in giro».
Helmut diede una pacca sulla spalla dello spilungone. Era il segnale, insieme sollevarono il compagno disteso.
«Piano piano, Helmut» disse Zwiczosbirski.
«Sí».
Si misero in movimento con cautela. Una mano del ferito che ciondolava a terra si graffiò sui rovi. Non sentí alcun dolore; aveva perso i sensi.
«Alt» disse Helmut all’improvviso, «mettiamolo giú».
Posarono Stani di schiena; solo allora si accorsero che aveva la metà superiore della faccia completamente dilaniata. Mancava il naso, degli occhi non si riconosceva piú niente. Dovevano aver sparato i proiettili dall’alto, in diagonale.
«Ho le scarpe piene di sangue, Gamba. Non hai con te un pacchetto di primo soccorso? Dobbiamo bendarlo».
«Mio pachetto ho dimenticato in forte».
«E tu, Proska?».
«Non ce l’ho».
Helmut disse: «Vuol dire che dobbiamo andare avanti cosí».
Lo spilungone si ributtò a terra accanto a Stani e scoppiò di nuovo a piangere.
«Alzati, Gamba, è inutile che fai cosí. Se non lo portiamo subito al forte morirà».
Le spalle di Stanislaw non tremavano piú. Anche le dita si erano allentate. Nessuno dei tre, né Proska né Helmut né lo spilungone, era nemmeno sicuro che il ferito fosse ancora vivo. La calura e le punture delle zanzare li facevano penare; Poppek, se fosse dipeso da lui, avrebbe lasciato Stani lí e basta, cercando di rientrare almeno lui sano e salvo al forte. Invece si permise solo di registrare quel pensiero, vergognandosi di metterlo in pratica.
Mormorò soltanto con impazienza: «Dai, Gamba, dobbiamo sbrigarci. Però fai stare davanti me. A te importa meno se ti finisce il sangue di Stani sui calzoni. Uno, due, issa!».
Ripresero a camminare sul terreno molleggiato con il loro trasporto dondolante, Helmut davanti, dietro di lui lo spilungone e per ultimo Proska, che cercava di guardare nelle chiome degli alberi ma riusciva a distogliere a stento lo sguardo da Stani.
Quando guadarono un fosso il ferito emise un lamento.
«È segno che vive» gridò Zwiczosbirski felice, «non moriva».
«Urla un’altra volta cosí e ti ritrovi a gorgogliare nel fango» lo ammoní Helmut.
«Sparino pure» disse lo spilungone a denti stretti, «faccio vedere loro mio fucile magico».
«Sta’ un po’ zitto» lo minacciò Helmut, «o il tuo Stani lo butto in acqua».
Tacquero. A Proska si gonfiò e diventò rosso il dorso di una mano. Le punture di insetto bruciavano orribilmente. Infilò la mano nell’acqua che però non alleviò granché la sofferenza.
I soldati avevano le pezze per il sudore appiccicate alla nuca, faticavano a respirare.
«Manca ancora molto al vostro forte?» chiese Proska quando ebbero traversato il fosso.
«Arriva» disse lo spilungone, «dobiamo fare giro piú lungo».
Risalirono ansanti una scarpata trascinando e tirando il ferito. Il cielo sopra di loro si coprí.
Helmut gemette: «Mettiamolo giú, non ce la faccio piú».
Raddrizzarono la schiena e si godettero un po’ di sollievo. Quando un uomo caccia fuori la testa dalle spalle schiacciate dal piede del destino, ecco che è come Lui lo aveva pensato in origine: diritto, impavido e buono, un albero nell’incedere e acqua pura nel pensare.
Ra-ta-ta, crepitò all’improvviso. I soldati si gettarono a terra e caricarono i fucili. Ra-ta-ta latrò di nuovo, e sentirono i proiettili sibilare sopra di loro: qualcuno colpí il terreno poco piú avanti sollevando schizzi e spruzzi.
Lo spilungone rotolò di lato, abbassò l’elmetto sulla fronte e sollevò la testa. Il suo sguardo cadde su tre ontani, ed ebbe subito il sospetto che gli avessero sparato da lí. Il fogliame era cosí fitto che non riusciva a distinguere se il cecchino fosse seduto su uno dei rami. Ma Gamba aveva pazienza, aspettò la raffica successiva, che con ogni evidenza era diretta a lui, e prese la mira.
«State attenti» disse schiacciato a terra.
Proska e Poppek fissarono la manciata di alberi.
Lo slesiano sparò, e nel medesimo istante tutti e tre videro un uomo precipitare dall’albero al centro.
«Guarda un po’, tre palottole su comò. Che facevano l’amore con ciabatta di dottore. Ma dottore si ammalò. Pace anima sua» cantilenò lo spilungone e si alzò.
Quando capirono che non sarebbero piú arrivati proiettili si alzarono anche gli altri.
«Orso è diventato cativo. Perché hanno fatto lui rabiare? Animale rabiato morde piú svelto di animale buono. Avanti, andiamo».
«È inutile» disse Helmut.
«Come sarebbe?» chiese Proska sgomento.
«Credo che Stani sia morto».
«Ma prima ha lamentato!» gridò lo spilungone inorridito, «cosa dici?!».
«È meglio se lo lasciamo qui».
Proska disse: «Ma sei matto? Non possiamo mollare qui un uomo come niente».
Poppek sputò di lato. Disse: «E se per colpa sua crepiamo tutti e tre? Io non ci tengo».
Sollevò il piede destro e batté lo stivale contro la mano di Stani.
«Lo vedete? Non si muove. Se la caverà meglio di noi, in questa maledetta foresta. Per ficcarlo in una bara possiamo tornare anche dopo».
Proska si mise il fucile al collo senza dire una parola, spostò Poppek da parte con il gomito e disse allo spilungone: «Tiralo su. Riportiamo Stani a casa».
Ripresero a camminare a passi pesanti, Zwiczos con la testa a ciondoloni, poi il ferito e dietro di lui Proska, a bocca aperta. Helmut camminava dietro tutti e li copriva.
All’improvviso Proska si ritrovò un insetto sulla lingua, un ragno di palude, un moscone o un maggiolino. Non sapeva neanche lui che bestia fosse. Fece per sputarlo di sbieco, a fianco del soldato che stavano trasportando, ma non gli riuscí. Prima che potesse fare qualcosa l’affare gli finí sotto i denti, e lui senza volere li strinse. Quando capí che cosa aveva addentato ebbe un violento urto di vomito e sentí risalirgli piano in bocca un rigurgito acido. Proska fece un grandissimo sforzo per dominarsi, e cosí riuscí a evitare che dovessero mettere Stani a terra un’altra volta. Se avessero posato il soldato con la faccia strappata sul suolo acquitrinoso, quel suolo che adesso aveva l’odore degli abiti muffi di un becchino, i tre si sarebbero accorti che Stani era morto. Invece usavano gli occhi per trovare il cammino migliore fra le lingue di rampicanti che penzolavano dalle piante scheletriche, simili a ragni. Erano come strani vecchi dalle barbe lunghe fino a terra, gli alberi, e quando il vento gli spirava fra le chiome sembravano rabbrividire. La natura selvaggia guardava con innocente voluttà quei soldati che, a osservarli da buona distanza, non avresti detto in preda ad ansimi, a gemiti, e vicini alla disperazione; da lontano apparivano anzi piú simili alle figure che si trovano talvolta rappresentate al mercato nelle vecchie incisioni, e si muovono allegre, senza meta, libere da ogni gravità.