5.
All’improvviso sentirono tutti una spossatezza densa e pastosa nelle ossa, nessuno aveva piú tanta voglia di vedere il grassone mangiare il fuoco. E pazienza se aveva ricevuto tutto quel liquore per niente, senza contraccambiare con l’esibizione a cui prima tenevano tanto. Si fecero taciturni, quasi pensosi; dai loro gesti scomparve ogni traccia di spavalderia. Dalle facce si sarebbe detto che soffrissero tutti della stessa malattia, invisibile ma non per questo meno dolorosa, una malattia indefinibile che li portava a elevarsi e a maturare la convinzione che ogni lagna a voce alta, ogni parola inutile, ogni stramaledetta frase fatta sarebbe stata soltanto ridicola e che era bene – forse era la cosa migliore – restare zitti, abbandonarsi alla stanchezza e lasciarsi pervadere dall’infinita imperturbabilità del paesaggio circostante. Era una sorta di anelito verso il nulla quella malattia, uno struggente, macabro desiderio di sprofondare nelle paludi remote dell’oblio, di non esserci piú; ciò che i soldati provavano era un tedio plumbeo, l’assennato sprezzo della morte.
Willi si avvicinò al letto di Proska e disse con voce spenta: «Si prepari per la pattuglia. Ce l’ha una carabina?».
«Ho un fucile da combattimento» rispose Proska e saltò giú dalla branda.
«Molto bene» approvò il caporale. «Le armi automatiche qui tornano ancora piú utili. Andrà con il Pandilatte. Il ragazzo è fuori. Ricordi: chi si addormenta va dritto davanti alla corte marziale. Non devo stare a spiegarglielo. Si muova».
Proska si mosse. Avvolse le pezze da piedi intorno alle caviglie, indossò stivali e giaccone, afferrò il fucile e uscí dal forte.
Pandilatte era seduto fuori sulla panca.
«Eccoti» disse l’assistente.
«Wolfgang Kürschner» si presentò il ragazzo.
«Proska. Walter. Tu conosci i sentieri, vero?».
«Sentieri è dir troppo. Però so come arrivare là e tornare indietro. Vedrai, non ci perderemo».
«Se lo dici tu mi fido. Per me possiamo anche andare».
Due soldati si infilarono nel bosco, in un paradiso di fertilità, groviglio e intrico brulicante di sfrenatezza. Gli ontani li schiaffeggiavano e li schiaffeggiavano le betulle e il sottobosco cercava di afferrargli le gambe con mani spettrali. Li circondava una tenebra satura, una tenebra satolla come un arabo dopo il banchetto che gli spetta alla fine del digiuno; una tenebra che da un momento all’altro avrebbe potuto emettere un rutto; tutt’altra tenebra da quella che si immagina sotto le grame gonne di una monaca: era viscosa e calda, l’oscurità nella boscaglia della palude era palpabile, uno avrebbe potuto sbatterci contro la testa o uno stinco.
Pandilatte camminava davanti, stanco e taciturno. Aveva alle spalle un turno di guardia ma riteneva ozioso meravigliarsi di essere già di nuovo in marcia.
A Proska venne in mente che non aveva mangiato nulla, e mentre rifletteva se non fosse il caso di tornare indietro a prendere almeno una fetta di pane andò a sbattere contro il ragazzo.
«C’è qualcosa?» sussurrò.
«Non lo so. Per andare alla ferrovia dobbiamo tenerci sulla destra. Qui brucia».
«Che vuol dire?».
«Tu non vedi niente ma loro vedono te».
«Allora andiamo a destra».
Due soldati si aprirono un varco fra le tenebre. Inciampavano, imprecavano, sbattevano contro gli alberi ma riuscirono ad andare avanti. Non c’era nessuno che li controllasse, niente avrebbe potuto impedirgli di sdraiarsi a dormire e nel sonno di dimenticare e superare la paura che entrambi avevano nel cuore, anche se non lo volevano ammettere. Invece andarono avanti, spinti dall’abitudine, trascinati dagli ordini di Willi.
Raggiunsero i margini del bosco fradici di sudore. Si trovavano su un’altura. Davanti a loro si stendeva un pantano, in fondo riconobbero la massicciata della ferrovia. I binari erano lucidi come vermi metallici morti. Proska si mise a sedere su un tronco caduto. Disse: «Tu non ti riposi?».
Pandilatte andò a sedergli accanto. Presero i fucili in grembo come bambini.
«Qui non è troppo buio» disse Proska, «chissà se ci si può azzardare ad accendere una sigaretta».
«Io non lo farei. Appena vedono una scintilla sparano».
«A quanto pare sono molto intraprendenti, qui».
«E imprevedibili. A volte credo che ci lascino vivi solo per tormentarci».
«Che cosa te lo fa pensare?» chiese Proska. Cercò di distinguere la faccia di Pandilatte.
«Noi siamo sette. Loro saranno piú di cento. Non dovrebbe riuscirgli difficile stanarci dal forte con il fumo. Prima o poi lo faranno. Vorrei solo sapere che cosa li trattenga».
Proska restò zitto per un po’ e poi disse: «Mi sembri rassegnato al fatto che di qua non ne uscirai piú vivo. Allora perché resti in questo posto maledetto?».
Pandilatte rispose: «Mio padre è caduto a Varsavia. Mia madre ha paura per me, ma se sapesse che ho tagliato la corda ne morirebbe. Forse resto per lei. Tu eri sul fronte, quando si è là davanti le occasioni per pensare alla fuga sono poche, se non nessuna. Qui è diverso».
Proska disse: «Dobbiamo resistere. Quando vedo quel Willi però mi passa la voglia. Mi è già capitato di essere sul punto di non rientrare al campo. Ma poi qualcosa mi ha sempre spinto a tornare».
«Lo chiamano senso del dovere» disse con disprezzo Pandilatte. «Ce l’hanno iniettato nel sangue. E con quello ci hanno squinternato, levato l’indipendenza. Hanno cercato di sbronzarci con una raffinata iniezione di siero del dovere. Da noi appena uno soffia nel piffero dell’orgoglio nazionale, in cento si sentono all’istante la gola riarsa e reclamano l’acquavite del patriottismo! Ecco come stanno le cose. A quel punto si brinda alla patria, volano i giuramenti e sei fregato».
«Tu studiavi all’università?» chiese Proska.
«Sí. E poi quest’ubbidienza. Guarda solo lo Stehauf, quell’idiota cattivo. Può fare di te ciò che vuole. Io non resisto piú, Walter. Se continua a tormentarmi come nell’ultima settimana sparisco».
«Che ti ha fatto?».
«Aveva bevuto e quando sono tornato dalla pattuglia mi ha costretto a guadare la latrina, non una volta, ma quattro. Grazie a Dio c’era Gamba nei paraggi. Ha preso il mitra e si è messo a sparare come un matto in alto sopra le nostre teste. Willi si è preso paura ed è corso dentro il forte».
«È una carogna» disse Proska. «Se ci prova con me lo stendo. C’eri quando ha ammazzato il prete alle spalle?».
«Ero fuori, l’ho visto cadere nel fosso».
«Stehauf ha detto che aveva dei candelotti di dinamite nella tasca della giacca».
«Questo non lo so. Può anche darsi».
Proska si alzò lento, staccò il didietro fradicio dei calzoni che era rimasto attaccato alla pelle e disse: «Se resto qui, tra un mese non sono piú normale. Allora possiamo darci alla macchia insieme. Non so nemmeno piú perché sono qui. Per chi devo prendermi il colpo di grazia? Per mia sorella Maria? Lei sta benone. Magari in questo momento è coricata sotto il piumino d’oca con mio cognato e si lascia strizzare le cosce a piene mani. Per Rogalski, mio cognato? Quello starebbe benissimo anche se io non fossi qui. Per Hilde? È la donna con cui ogni tanto... mi hai capito. Chissà per chi si spoglia oggi. Per la Germania? Cos’è la Germania, chi è?».
«Esatto» si scaldò Pandilatte, «chi è questa Germania con cui ci gonfiano le orecchie? Danton strepitava che la sua patria non si portava attaccata alla suola delle scarpe. Io lo faccio! Mi capisci? La Germania non è un filo di fumo d’incenso, è qualcosa che si può addentare, palpare, tagliare. La mia patria io posso portarla sotto la camicia, e se mi sparano via la vita con un colpo in testa vuol dire che per me la Germania non c’è piú. Non fraintendermi: certo che esiste un paese in cui sono nato e che amo piú degli altri. Lo amo perché ne conosco ogni sasso, perché ho racchiuso questo paese nel mio cuore. Io però non mi farei accoppare per un sasso come ha fatto mio padre. Lui parlava di «dovere», di «ardimento», e tutto il resto di quel liquame retorico. Lo capisci, Walter: siamo Germania anche noi, non solo quegli altri, e sarebbe un’idiozia totale se noi che siamo la Germania ci immolassimo per la Germania, cioè per noi stessi. Sarebbe come se un orso si tagliasse una chiappa e si mettesse a mangiarla in preda al dolore cercando di convincersi che deve sacrificarsi».
«Hai ragione, Wolfgang. Dov’è che ti sono venute in mente queste cose?».
«Di certo non nel giardino di casa, e nemmeno in un’aula d’università. Solo qui possono venire in mente. Sono sempre stato un cane sciolto, contento di bastare a me stesso. Non ho mai avuto una ragazza curata e profumata ad aspettarmi. Avevo solo me stesso e basta. Ma chi prende il bisturi in mano una volta ed effettua qualche taglio ben assestato su di sé, capisce di non poterlo piú posare. Deve continuare a operare per il resto della vita. E lo sai chi sono i migliori chirurghi di se stessi? Quelli che fanno una diagnosi in silenzio e si rintanano nella propria solitudine interiore ad ascoltarsi il cuore con sincerità brutale».
«Non ti capisco fino in fondo, Wolfgang. Hai studiato medicina?».
«Guarda, Walter: noi nel mondo dobbiamo orientarci verso il bene. Suona banale, lo so. Ma siccome il male si mostra sotto varie spoglie, è necessario riconsiderare i propositi infetti, individuare i punti guasti e suturare i buchi nei risultati dei ragionamenti. E ciò richiede una capacità analitica mostruosamente grande e una sincerità radicale nei propri confronti. Bisogna avere la forza di dare un calcio a una cosa a cui si è corso dietro per vent’anni quando si arriva a riconoscere che questa non è solo sbagliata, ma anche cattiva, subdola, pericolosa e assassina. Hai capito cosa intendo. Dobbiamo guardarci dai pifferai nazionalisti. Distogliere le orecchie, metterle sott’acqua, chiuderle con dei tappi di cera! Io insieme alla libertà tengo in massimo conto lo scetticismo. Dobbiamo scarriolare nei cuori il letame della libertà e piantarci sopra lo scetticismo. Mi capisci? Ti sembro un po’ sopra le righe, eh? Ci credo. Sei il primo di cui mi fido, Walter. Considera che devo buttar fuori parecchia roba. A mia madre scrivo lettere piene di consolazione. Lei ne ha bisogno, ma a ogni parola consolatoria a me viene ribrezzo; mi pare un tradimento. Non ci credi, eh?».
Proska si batté con la mano aperta la nuca. Dietro alla fronte bassa giravano gli ingranaggi dei suoi pensieri, il lavorio sembrava allentare qualcosa che fino ad allora era rimasto timorosamente incriccato. Si sentí sgombero, pronto ad affrontare nuove iniziative, vide un cammino. Lento, un po’ spaurito, allungò un braccio e lo posò sulla spalla di Pandilatte. Poi parlò: «Io non so esprimermi come te, Wolfgang. Però voglio dirti che su di me puoi sempre contare. Se qualcuno ti tormenta, vieni da me. In un posto come questo dobbiamo fare affidamento l’un sull’altro.
«No» ribatté Wolfgang accorato, «non è solo in un posto come questo che dobbiamo fare affidamento l’un sull’altro. Gli uomini che la pensano come noi devono stringersi insieme ovunque. La comunità degli assennati è piccola. Perché noi tutti...».
Ra-ta-ta, martellò a un tratto. Sentirono le pallottole arrivare stridenti e conficcarsi nel legno. Alcune passarono ronzando sopra di loro come insetti rabbiosi.
«Giú» esclamò Proska, «dietro al tronco».
Pandilatte si buttò per terra accanto a lui.
«Hai visto la vampa della canna?».
«Sí. Là dietro la ferrovia. Ma com’è possibile che... ah, ti sei acceso una sigaretta! Spegnila, Walter, svelto, non ha senso provocarli».
Proska gettò via la sigaretta accesa che andò a sbattere contro un albero sprigionando una pioggia di scintille. Nello stesso istante dall’altra parte crepitò di nuovo un mitragliatore e i due soldati premettero la faccia nel terreno umido. Sentirono l’odore aspro dell’erba penetrare nel naso e la rugiada bagnargli le mani.
«Rispondiamo?» chiese l’assistente.
«Non servirebbe» disse Wolfgang.
«E allora che facciamo? Se restiamo qui sdraiati tutta la notte, domani abbiamo la… polmonite».
«Può darsi che oggi abbiano in mente qualcosa con il ponte».
«Dobbiamo andarci».
«Dobbiamo? È rischioso, Walter. Se ci sorprendono è finita. Di solito piazzano delle sentinelle a sorvegliare».
«E se fanno saltare il ponte?».
«Ce ne accorgeremo per tempo».
«Tu non vuoi venire?» chiese Proska.
«D’accordo, andiamo. Ma restiamo sul margine del bosco. E speriamo che la luna non esca a curiosare mentre strisciamo sul prato. Perché dobbiamo strisciare, Walter. Appena ti tiri su parte un colpo».
Si alzarono e seguirono a lunghi passi il bordo del bosco. I loro movimenti non avevano nulla di frettoloso o preoccupato. Si sentivano ben protetti dall’ombra grave delle fronde; sembrava che per loro la differenza tra la vita e la morte avesse smesso di esistere. Camminarono a quel modo fino a un punto in cui il bosco si interrompeva di colpo lasciando che il prato formasse una specie di golfo, come se lí l’erba avesse inferto agli alberi una sconfitta. E qui la luna si gettò sui due soldati. Li aggredí con la sua luce, rivelandone l’avvicinamento. Proska e Pandilatte però se l’aspettavano, tant’è che non camminavano piú tanto incauti da far credere a chi li vedesse che non esistevano piú minacce per l’umanità. Senza che nessuno dei due dicesse una parola, una parola d’intesa, di monito, una parolina minuscola, caddero entrambi a terra, posarono le canne dei fucili sul braccio sinistro, come gli era stato scolpito nel cervello, e attesero.
Pandilatte sibilò: «Pronti», e tutti e due si misero a strisciare sul prato: ginocchio, piede, gomito, ginocchio, piede, gomito. Le ghiandole sudoripare si diedero da fare. Avanti, figli della speranza, trascinatevi attraverso l’acquitrino! Che sarà mai se i calzoni si bagnano e i capezzoli devono sorbire l’acqua fetida e marcia della palude. Vi tremano le narici. Lasciatele tremare: quando mai cattureranno ancora per voi simili effluvi soavi, profumi di indolenza mortifera, vapore di terra contesa da vita e morte. Un siffatto pezzetto di palude possiede doppia sublimità e dignità: ossia quelle di un mondo altro, disfatto, e quelle del vostro. Non scordate, respirate, respirate. Disserrate i polmoni, chi ha il privilegio di stare tanto vicino alla terra deve assaporarlo. A volte si sente uno schiocco come quando la madre schiaccia con il pugno morbido i crauti che fermentano nel barile. Ma che sarà mai! E se sotto il ginocchio dovesse finirvi una rana che riposava dopo essersi esercitata a gonfiare la gola, non fermerà né devierà il vostro cammino. Che peccato, che rammarico non possiate prendervi il tempo per ascoltare il borborigmo primordiale della terra.
«Manca poco» ansimò Pandilatte, «tra un attimo dovremmo esserci».
Davanti a loro comparvero all’improvviso degli arbusti, fornendogli copertura. I due soldati si alzarono.
«Ecco il ponte. Vedi qualcuno?».
«Non li vedi mai».
«Vogliamo proseguire?» chiese Proska.
«E poi?».
«Magari li becchiamo».
«O loro beccano noi».
«Che dobbiamo fare?».
«Aspettare».
«Aspettare cosa?».
«Che succeda qualcosa».
«E cosa deve succedere?».
«Non si può sapere prima».
«Hai paura?».
«Figurati, e tu?».
«Io vado» disse Proska.
«Tu resti qui, Walter. Vado io».
«Allora andiamo tutti e due».
Si avvicinarono quatti al ponte badando a restare al coperto dietro i cespugli. Il ponte poggiava sul dorso robusto di quattro zoccoli di cemento davanti ai quali il fiume creava piccoli mulinelli. La parte che poggiava sulla sponda, inoltre, era rafforzata da controventature larghe come il petto di un uomo. Insomma, il ponte sembrava un notevole bastione contro il tempo.
I soldati tenevano le orecchie tese ma non sentirono alcun rumore. Non scorsero nessuno che cercasse di avvicinarsi al ponte.
«Sembra tutto morto» disse Proska secco.
«Nei cimiteri c’è un gran rigoglio di vita».
«Tu vedi uno di quei...».
«Sst» fece Wolfgang.
«Mi sembri un po’ teso. Se ci fosse stato qualcuno lo avremmo già scoperto».
«Qui non è come al fronte».
«È esattamente la stessa cosa. E per dimostrartelo adesso mi accendo una sigaretta».
Proska si mise una sigaretta in bocca, l’accese e tirò avidamente.
«Visto? Nessuno ha niente in contrario. Penseranno che abbiamo rafforzato la guardia in questo punto. È qui che hai pizzicato il vecchio, no? La cosa ci avrà guadagnato di sicuro del rispetto».
«Quella è gente che non conosce rispetto. E tanto meno la paura. Puoi mettergli la mano su un ceppo e sollevare l’ascia: non ti riveleranno un segreto. E se la fai calare ti guardano pallidi e lacerati dal dolore, in silenzio. Puoi mozzargli anche l’altra mano: il male li fa ammattire; saltano, urlano, singhiozzano... ma quel che vuoi sapere non te lo dicono. Li puoi anche portare davanti ai figli e alle mogli e farli assistere mentre li fucili: non parlano. Chi non mostra rispetto davanti alla morte non ha paura nemmeno di noi. Perché uccidere è di per sé l’atto piú estremo che possiamo compiere».
«Restiamo al ponte fino al mattino?».
«No. Aspettiamo sul fiume. Un po’ piú avanti ci sono dei punti protetti, vogliamo andarci?».
«D’accordo».
Si staccarono esitanti dall’ombra del ponte e presero a guadare l’arena gialla del chiaro di luna. Niente spari, urla, cadute, rantoli, sangue.
Il fiume rosicchiava la riva, furtivo e accorto come un ratto. E la spuntava. Quando i soldati traversarono guardinghi la piatta scarpata ridacchiò sciabordando.
«Su vieni» disse Proska, «sediamoci lí. Tanto ormai i calzoni sono bagnati. Qui fra questi cespugli. Si vede ancora il fiume».
Sedettero per terra e si levarono gli elmetti di acciaio. La brezza notturna gli accarezzava la fronte e gliela rinfrescava. Restarono tutti e due a guardare il fiume.
“Fame della malora” pensava Proska.
“Aveva i capelli di una zingara” pensava Pandilatte.
«A cosa pensi?» domandò Proska.
«A Eva».
«Quella della mela?».
«No. Aveva i capelli corvini».
Proska disse: «Come una zingara?».
«Sí, proprio cosí. E la pelle scura come le ali di una coccinella».
«Ed è a casa che ti pensa?».
«No».
«Ne sei sicuro?».
«Sí. A otto anni giocavamo insieme a rialzo, e a quattordici andavamo a mangiare il gelato. Scendevamo insieme al porto a vedere i pescatori scaricare le ceste e quando suonava la sirena di una nave ci guardavamo. Aveva la mia stessa età; ci tenevamo sempre per mano; e quando andavamo dalla lattaia, quella diceva: un giorno diventerete una bella coppietta, e quando andavamo dall’ortolano ci dava una mela ciascuno e diceva anche lui: un giorno diventerete una bella coppietta; e quando mia madre da dietro la finestra ci vedeva risalire la strada mano nella mano diceva: sembrate proprio una bella coppietta. Quando ho compiuto diciassette anni mi ha dato in regalo un bacio. Il primo. Abbiamo piantato gli amici in asso e ci siamo incontrati di nascosto in giardino. Io le ho messo un braccio intorno alle spalle, ci siamo fermati di colpo e lei mi ha guardato. Sentivo che le scottava la pelle, mi è venuta piú vicina, abbiamo chiuso gli occhi».
«E non vi siete piú trovati» ridacchiò Proska.
«La sua bocca era un piccolo magnete rosso, era una lente focale, sai? E dopo – ci è voluto un bel po’ prima che ritrovassimo le parole – dopo abbiamo parlato di matrimonio. Rientrando camminammo piano, piano piano. Non ci sembrava piano abbastanza. Ogni tanto ci fermavamo e ci abbracciavamo e ci baciavamo. L’ultima volta l’abbiamo fatto sul portone di casa, e io mi sono accorto che mi premeva il corpo addosso: forte, decisa, appassionata. Lo capivo quel desiderio. L’ho baciata sul collo. Lei mi ha guardato come una complice ed è corsa dentro casa».
Pandilatte tacque, tamburellò le dita sulla canna del fucile. I capelli lunghi gli erano scivolati sopra un orecchio e lo coprivano.
«E aveva la pelle scura come le ali di una coccinella dappertutto? Immagino che tu lo abbia scoperto presto».
«Due giorni dopo il mio compleanno l’ho invitata a nuotare. Avevo studiato un piano, un bel piano promettente, sicuro. Volevo portarla su un braccio secondario dell’Oder dove arrivano in pochi, quasi nessuno. Lí proprio vicino all’acqua crescevano arbusti benevoli che nascondono chiunque non vuole farsi vedere. Capisci cosa intendo, Walter?».
Proska annuí.
«Bene. Insomma mi ero riproposto di non stare a dare lunghe spiegazioni su dove saremmo andati, e le ho detto: allora ci vediamo alle tre in stazione. Se riesci non farmi aspettare troppo. Io sono arrivato puntuale; lei non è venuta. Quando alle quattro ancora non c’era ho preso il treno da solo. All’inizio ero arrabbiato. Ma dopo, mentre me ne stavo sdraiato nel luogo solitario che avevo scelto per attuare il mio piano, l’ho perdonata. Mi sono convinto che l’avesse trattenuta un imprevisto. E cosí mi sono goduto il pomeriggio, non scontento, solo un po’ deluso. La sera, quando faceva già buio, piú o meno buio come adesso, mi sono messo a sedere fra i cespugli. Era una serata magnifica e ancora non avevo voglia di andarmene. Guardavo le luci delle barche che scendevano l’Oder, ascoltavo la fragile musica dei grilli ed ero contento. Conversavo con me stesso; avrei voluto darmi una pacca sulla spalla da solo, complimentarmi per quel che ancora non avevo conosciuto ma già pregustavo. Piú si rimanda un piacere, piú dolente e bramoso… sai cosa intendo».
«Lo so» disse Proska.
«Ma mentre sognavo cosí fra me e me, a un certo punto ho sentito due voci, una maschile e una femminile. Ho deciso di restare buono e non farmi scoprire. All’improvviso però la curiosità mi ha afferrato per il bavero e mi ha torto il collo dalla parte da cui mi erano giunte le voci.
Ho visto un uomo che si accendeva una sigaretta e una ragazza che si stava risistemando il vestito. Ho riconosciuto il suo profilo contro il cielo notturno. Era lei, lei! Rideva sottovoce, felice. Lui, grosso come un gorilla, l’ha presa fra le braccia e le ha premuto le labbra sulla lanugine della nuca. L’ho sentita sospirare, le mie orecchie non si sbagliavano. Be’, che vuoi che ti dica? Non potevo muovermi, non potevo strillare... era lei! I due si sono salutati; il gorilla è andato dall’altra parte, lei è passata accanto al cespuglio dietro cui mi trovavo. Non l’ho chiamata, non mi sono mosso. Adesso sapevo chi era davvero lei».
«L’hai piú rivista?».
«No».
«Hmm» fece Walter.
I soldati tacquero. Lo stomaco di Proska si faceva impaziente.
«Quanto dobbiamo restare ancora fuori?» chiese.
«Fino all’alba» disse Pandilatte.
Un uccello attraversò il fiume con un rapido frullare d’ali.
«Quanta fretta» disse Proska.
«Zitto!».
«Che c’è?».
«Credo che ci sia qualcuno».
«Al ponte?».
«Sst!».
Si distesero e strinsero i calci dei fucili, gli indici sul grilletto.
«Là, Walter, là!».
Trattennero il respiro, sentivano uno il battito del cuore dell’altro. Sul lieve declivio della scarpata si avvicinava lentamente qualcuno, e quel qualcuno era una ragazza. Lo capirono subito entrambi dalla sagoma della testa. Poi la ragazza si fermò tra i cespugli sulla riva.
Pandilatte puntò come poteva il mirino su di lei, deciso a piegare il ditino alla prima occasione utile. Ma in quella la mano larga e pesante di Proska si posò sulla canna e l’abbassò. La ragazza si avvicinò ancora, senza fretta. Eccola a due passi dai soldati, eccola alla loro altezza, eccola già oltre. Quando ormai era distinguibile a stento, Wolfgang chiese: «Perché non mi hai lasciato sparare? Qui le ragazze sono spesso piú pericolose degli uomini».
Proska rispose esitante: «Era lei, lei. Quella sul treno che mi ha mandato a monte i piani. Ho riconosciuto il suo profilo contro il cielo notturno. Si chiama Wanda, ha i capelli rossi come la pelliccia di uno scoiattolo».