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Il generale Kelly
Il 4 agosto il presidente e alcuni membri chiave della West Wing partirono per il golf club di Trump a Bedminster. Il nuovo capo di gabinetto, il generale Kelly, era al seguito, ma il capo stratega, Steve Bannon, era stato escluso dalla compagnia.
Trump si accingeva di malumore alla programmata trasferta di diciassette giorni, irritato dal fatto che i media smascherassero puntualmente le sue partite di golf. Perciò la spedizione era stata ribattezzata «viaggio di lavoro»: un altro esempio della vanità del presidente che suscita alzate di spalle, occhi al cielo e scuotimenti del capo da parte del suo staff, incaricato di pianificare eventi che devono sembrare lavorativi, stando però ben attento a lasciare ampi spazi liberi per il golf.
In assenza del presidente, la West Wing sarebbe stata rinnovata: il Trump albergatore ed esperto di interior design era «disgustato» per le condizioni in cui versava e non voleva trasferirsi nel vicino Eisenhower Executive Office Building, dove si sarebbero svolte provvisoriamente le attività della West Wing. E dove Steve Bannon stava aspettando la chiamata per andare a Bedminster.
Sarebbe partito da un momento all’altro, continuava a dire a tutti, ma l’invito non arrivava. Bannon, che si attribuiva il merito di aver portato Kelly nell’amministrazione, non avrebbe saputo dire di preciso in che rapporti fosse con il nuovo capo di gabinetto. In realtà nemmeno il presidente era certo di riscuotere le simpatie di Kelly, e anzi non faceva che chiedere di continuo a chiunque se, a parer loro, lui a Kelly piacesse o no. Più in generale, Bannon non aveva ancora del tutto chiaro cosa facesse Kelly, a parte il proprio lavoro. Come si posizionava esattamente il nuovo capo di gabinetto nell’universo di Trump?
Se nello spettro politico si situava da qualche parte nel centro-destra e se alla Sicurezza interna era stato un convinto fautore di una linea dura sull’immigrazione, certamente non era di destra quanto Bannon o Trump. «Non è un duro e puro» fu la sua rammaricata valutazione. Al tempo stesso, Kelly non era in alcun modo vicino ai liberal di matrice newyorkese della Casa Bianca. La politica, tuttavia, non era il suo campo. Come ministro della Sicurezza interna aveva osservato il caos della Casa Bianca con disgusto, pensando alle dimissioni. Ora aveva accettato di tentare di domarlo, quel caos. Aveva sessantasette anni ed era risoluto, severo, truce. «Sorride mai?» chiedeva Trump, che cominciava già a pensare di essere stato in qualche modo raggirato quando gli era stata caldeggiata la sua nomina.
Ad alcuni trumpisti, soprattutto quelli con un accesso più diretto al presidente, pareva che fosse stato indotto a una certa sottomissione assai poco trumpiana. Roger Stone, una delle persone che Kelly stava cercando di allontanare dal presidente, diffuse l’inquietante notizia di un accordo tra Mattis, McMaster e Kelly, in base al quale nessuna azione militare sarebbe mai stata avviata se tutti e tre non fossero stati favorevoli, e che prevedeva che almeno uno di loro rimanesse a Washington quando gli altri erano via.
Liquidato Scaramucci, i due problemi più immediati di Kelly, ora sul suo tavolo a Bedminster, erano i familiari del presidente e Steve Bannon. Era evidente che l’una o l’altra parte dovesse sparire. O magari tutte e due.
Nessuno avrebbe potuto prevedere se un capo di gabinetto che considerava suo compito stabilire una procedura di comando e rafforzare la gerarchia organizzativa – convogliando le decisioni verso il comandante in capo – potesse operare in maniera efficace, o anche solo sopravvivere, in una Casa Bianca in cui i figli del comandante in capo erano così influenti. Per quanto la figlia e il genero del presidente stessero mostrando al momento un servile riguardo nei confronti dei nuovi incaricati dell’esecutivo, alla lunga probabilmente avrebbero interferito, per abitudine e temperamento, con l’autorità di Kelly nella West Wing. Non solo esercitavano un’ovvia influenza sul presidente, ma importanti membri dello staff li vedevano come detentori di un ascendente tale da ritenerli il vero centro del potere, quello da cui poteva dipendere la loro carriera.
Strano a dirsi, malgrado la loro inesperienza, Jared e Ivanka erano diventati una presenza non poco inquietante, e da alcuni erano temuti quanto loro due temevano Bannon. Inoltre i due avevano acquisito una notevole abilità nelle lotte interne e nella fuga di informazioni – detenevano un certo controllo del mondo ufficiale e delle vie ufficiose –, sebbene insistessero, mostrandosi costernati, di non aver mai fatto trapelare indiscrezioni fuori dalla Casa Bianca. «Se sentono qualcuno parlare di loro, visto che sono così attenti alla loro immagine e si sono accuratamente costruiti un personaggio… è come se chiunque tenti di scavare sul loro conto o di criticarli diventi un grosso problema» ha dichiarato un membro dello staff dirigente. «Ne restano sconvolti e ti danno contro.»
D’altra parte, se «i ragazzi» rischiavano di rendere il lavoro di Kelly praticamente impossibile, anche tenere Bannon a bordo non pareva molto sensato. Quali che fossero le sue doti, era un irriducibile cospiratore ed eterno scontento, propenso a scavalcare qualunque tipo di organizzazione. Senza contare che, mentre cominciava la parentesi di Bedminster – di lavoro o d’altro che fosse –, Bannon era ancora una volta sulla lista delle grane del presidente.
Trump, infatti, non aveva sbollito l’irritazione per la pubblicazione di Devil’s Bargain, il libro di Joshua Green che attribuiva a Bannon il merito della sua elezione. Inoltre, se da un lato il presidente tendeva a schierarsi con Bannon contro McMaster, la campagna in difesa del generale condotta da Jared e Ivanka stava sortendo un certo effetto. Murdoch, reclutato da Kushner per aiutare a difendere McMaster, aveva fatto personalmente pressioni sul presidente per avere la testa di Bannon. I bannonisti sentivano di doverlo difendere da una mossa impulsiva di Trump, così non solo avevano accusato McMaster di essersi dimostrato un debole sulla questione di Israele, ma avevano anche persuaso Sheldon Adelson a far leva su Trump (Bannon, gli disse Adelson, era la sola persona alla Casa Bianca di cui si fidava in merito a Israele). I miliardi di Adelson e il suo carattere implacabile avevano sempre esercitato un’enorme presa su Trump e il suo sostegno, riteneva Bannon, gli avrebbe dato manforte.
Ma, al di là della gestione di un organismo disfunzionale come la West Wing, il successo di Kelly – o anche solo il segno del suo passaggio alla Casa Bianca, come si premurò di informarlo pressoché chiunque fosse nella posizione di dargli un parere – dipendeva dal fatto che raccogliesse la sfida centrale del suo incarico: gestire Trump. O meglio, sopravvivere senza gestirlo. I suoi desideri, bisogni e impulsi non avrebbero dovuto inficiare la struttura organizzativa. Trump era l’unica variabile che non poteva essere controllata. Era come un recalcitrante bambino di due anni. Se si tentava di controllarlo, si otteneva l’effetto contrario. Su questo presupposto Kelly avrebbe dovuto calibrare le sue stesse aspettative.
In una delle sue prime riunioni con il presidente, il generale aveva, tra i punti all’ordine del giorno, Jared e Ivanka. Come vedeva il presidente il loro ruolo? Quali riteneva fossero le loro eventuali mancanze? Come li immaginava per il futuro? Voleva essere un modo diplomatico per aprire una discussione che arrivasse a estrometterli, ma, come Kelly appurò presto, Trump era entusiasta in tutto e per tutto di come i due si stessero muovendo nella West Wing. Forse a un certo punto Jared sarebbe diventato segretario di Stato: quello era l’unico cambiamento che il presidente pareva prevedere. Il massimo che Kelly poté fare fu indurlo ad ammettere che la coppia doveva adeguarsi a una maggiore disciplina organizzativa e non saltare la fila con tanta disinvoltura.
Almeno su quello il generale poteva tentare di fare qualcosa. Durante una cena del presidente con la figlia e il genero, a Bedminster, la First Family rimase spiazzata quando Kelly apparve e si unì alla compagnia. Come avrebbero appreso di lì a poco, non era né un tentativo di socializzazione, né un malaccorto eccesso di confidenza. Era un’imposizione: Jared e Ivanka dovevano passare da lui per parlare con il presidente.
Trump, tuttavia, aveva chiarito di ritenere che il ruolo dei due ragazzi nell’amministrazione richiedesse al massimo qualche aggiustatina e questo poneva ora un problema significativo per Bannon. Aveva davvero creduto che Kelly avrebbe trovato un modo per sbarazzarsi di Jarvanka. Come poteva non riuscirci? Bannon era ormai convinto che i due rappresentassero l’insidia maggiore per Trump e che avrebbero finito per affossarlo. E proprio per questo, Bannon riteneva di non poter rimanere alla Casa Bianca, se ci restavano loro.
Tralasciando l’irritazione attuale di Trump nei confronti di Bannon, ai bannonisti pareva che il loro leader avesse, almeno politicamente, preso il sopravvento. Jared e Ivanka erano stati in qualche modo emarginati; la leadership repubblicana, dopo la questione dell’assistenza sanitaria, era stata screditata; il piano fiscale Cohn-Mnuchin era un pasticcio. Da quel punto di vista, dunque, il futuro all’orizzonte appariva quasi roseo per Bannon. Sam Nunberg, ex fedelissimo di Trump ora al cento per cento un fedelissimo di Bannon, riteneva che lo stratega sarebbe rimasto alla Casa Bianca per due anni e poi l’avrebbe lasciata per guidare la campagna di rielezione del presidente. «Se riesci a far eleggere quest’idiota per ben due volte…» considerava ammirato. Be’, sarebbe stato un po’ come conquistare l’immortalità politica.
Ma, se si osservavano le cose da un altro punto di vista, Bannon era certo di non poter rimanere al suo posto. Era come se avesse raggiunto una condizione più elevata, che gli permetteva di vedere dall’esterno quanto fosse diventata assurda la Casa Bianca. Stentava a tenere a freno la lingua, anzi, non ci riusciva proprio. Interpellato sull’argomento, non riusciva a intravedere il futuro dell’amministrazione Trump e, se molti bannonisti sostenevano l’inefficacia e irrilevanza di Jarvanka – Ignorali e basta, dicevano –, Bannon, con crescente ferocia e pubblico livore, li tollerava sempre meno ogni giorno.
Continuando ad attendere la chiamata che lo invitasse a raggiungere il presidente a Bedminster, decise di forzare la situazione e prospettò le sue dimissioni a Kelly. Ma era in realtà un braccio di ferro: lui voleva restare. Era Jarvanka a doversene andare. E il suo diventò un efficace ultimatum.
A pranzo, l’8 agosto, nella club house di Bedminster – tra lampadari di cristallo in stile Trump, trofei di golf e targhe di tornei – il presidente aveva accanto Tom Price, ministro della Salute e dei Servizi umani, e sua moglie Melania. Era presente anche Kellyanne Conway, come pure Kushner e molti altri. In qualche modo era un «pranzo di lavoro»: tra una portata e l’altra si discusse della crisi degli oppioidi, poi seguirono una dichiarazione del presidente e un breve giro di domande dei giornalisti. Leggendo la dichiarazione con voce monotona, Trump tenne la testa bassa, poggiandosi sui gomiti.
Dopo qualche domanda di rito sugli oppioidi, di punto in bianco fu interpellato sulla Corea del Nord e, quasi come in un’animazione in stop motion, sembrò tornare a muoversi di colpo.
La Corea del Nord era stata un problema dalle molte sfaccettature e dalle poche soluzioni che, a suo giudizio, era il risultato di menti inferiori e scarsa risolutezza, e a cui lui faticava a prestare attenzione. Inoltre aveva sempre più personalizzato il suo antagonismo con il leader nordcoreano Kim Jong-un, riferendosi a lui con epiteti offensivi.
Il suo staff non lo aveva preparato alla domanda, ma, deviando con evidente sollievo dalla questione degli oppioidi, d’improvviso compiaciuto per quell’opportunità di affrontare il fastidioso problema, si avventurò, con espressioni che in privato ripeteva spesso – in realtà ripeteva tutto spesso –, fin sull’orlo di una crisi internazionale.
«È meglio che la Corea del Nord eviti ulteriori minacce agli Stati Uniti. Altrimenti dovrà fare i conti con il fuoco e una furia che il mondo non ha mai visto prima. Le minacce del loro leader si sono spinte ben oltre i limiti consentiti, e come ho detto dovranno fare i conti con fuoco e furia e, francamente, una potenza che questo mondo non ha mai visto prima. Grazie.»
La Corea del Nord, una questione che al presidente era stato costantemente consigliato di minimizzare, diventò il tema centrale per il resto della settimana, con gran parte dello staff occupata non tanto dal problema in sé, quanto a tenere a bada un Trump che minacciava di «colpire» ancora.
In un simile contesto, quasi nessuno prestò attenzione all’annuncio di Richard Spencer, neonazista e suo sostenitore, che avrebbe organizzato una protesta alla University of Virginia, a Charlottesville, contro la rimozione della statua del generale statunitense Robert E. Lee. Il titolo del raduno indetto per sabato 12 agosto, Unite the Right (Unite la destra), era espressamente inteso a collegare la politica di Trump al nazionalismo bianco.
L’11 agosto, con il presidente che continuava a minacciare la Corea del Nord e, spiazzando pressoché chiunque nel suo staff, un intervento militare in Venezuela, Spencer indisse una protesta serale.
Alle 20:45 – il presidente era ancora a Bedminster – circa duecentocinquanta giovani in pantaloni cachi e polo (un abbigliamento piuttosto trumpiano) diedero inizio a una parata nel campus dell’università, reggendo torce al cherosene. Organizzatori con tanto di auricolari coordinavano l’azione. A un segnale, i manifestanti cominciarono a scandire gli slogan ufficiali del movimento. «Sangue e suolo!» «Non ci rimpiazzerete!» «Gli ebrei non prenderanno il nostro posto!» Ben presto, al centro del campus, vicino alla statua del fondatore dell’ateneo, Thomas Jefferson, il gruppo di Spencer si imbatté in una contromanifestazione. Con la polizia pressoché assente, ne seguì la prima delle risse della settimana.
Il mattino dopo, alle otto, il parco vicino alla statua di Lee diventò il campo di battaglia di un movimento bianco razzista armato di bastoni, scudi, mazze, pistole e fucili automatici (la Virginia è uno Stato in cui vige l’open carry, la facoltà di girare con armi in vista); un movimento che, con orrore dei liberal, appariva scaturito dalla campagna elettorale e dalla vittoria di Trump, come proprio Richard Spencer aveva lasciato intendere. A opporsi ai dimostranti c’era una sinistra incallita e militante chiamata sulle barricate. Sembrava il set ideale di una scena apocalittica, malgrado il numero limitato dei dimostranti. Per gran parte della mattinata si assistette a una serie di cariche e controcariche: una battaglia con lancio di pietre e bottiglie, sotto gli occhi di una polizia apparentemente decisa a non intervenire.
A Bedminster si sapeva ancora poco degli eventi in corso a Charlottesville, fin quando, all’una del pomeriggio, James Alex Fields Jr., un aspirante nazista di ventun anni, investì un gruppo di contromanifestanti con la sua Dodge Charger, uccidendo la trentunenne Heather Heyer e ferendo numerosi altri.
In un tweet composto in fretta e furia dal suo staff, il presidente dichiarò: «Dobbiamo unirci TUTTI nella condanna di ogni forma di odio. Non c’è posto per questo tipo di violenza in America. Restiamo uniti!».
A parte questo, comunque, la tabella di marcia presidenziale procedette senza variazioni: Charlottesville era stata una mera distrazione e, in effetti, l’obiettivo dello staff era distogliere l’attenzione di Trump dalla Corea del Nord.
Quel giorno, l’evento principale a Bedminster fu la cerimonia per la firma di una legge che avrebbe aumentato i finanziamenti di un programma di assistenza medica per i veterani di guerra. La cerimonia ebbe luogo in una vasta sala da ballo, nella club house, due ore dopo l’omicidio di Charlottesville.
Durante la firma, Trump si soffermò un momento per esprimere una condanna dell’«odio, del fanatismo e della violenza da più parti» in atto in Virginia. Quasi immediatamente si ritrovò sotto attacco per la distinzione che sembrava rifiutarsi di fare tra i razzisti dichiarati e i loro oppositori. Come Richard Spencer aveva correttamente compreso, le simpatie del presidente non avevano un orientamento chiaro. Per quanto fosse facile e intuitivo condannare dei suprematisti bianchi, che oltretutto si proclamavano neonazisti, Trump mostrava un’istintiva resistenza.
Solo il mattino dopo la Casa Bianca tentò di chiarire la posizione di Trump con un comunicato ufficiale: «Il presidente ha affermato con grande nettezza, nella sua dichiarazione di ieri, che condanna ogni forma di violenza, fanatismo e odio. Ovviamente ciò include suprematisti bianchi, neonazisti del KKK e tutti i gruppi estremisti. Ha richiamato all’unità nazionale, alla necessità di riunire tutti gli americani».
Di fatto, però, lui non aveva condannato suprematisti bianchi, KKK e neonazisti, e continuò ostinatamente a non farlo.
In una telefonata a Bannon, Trump cercò aiuto per sostenere le sue ragioni: «Dove andremo a finire di questo passo? Tireranno giù il Monumento di Washington, il Monte Rushmore, Mount Vernon?». Bannon – con la convocazione a Bedminster che ancora non arrivava – insistette che quella doveva essere la linea: il presidente doveva condannare la violenza e anche difendere la storia (persino quando era debole in materia come Trump). Concentrandosi sul problema dei monumenti avrebbe stuzzicato la sinistra e tranquillizzato la destra.
Jared e Ivanka, però, con Kelly a sostenerli, sollecitarono una condotta presidenziale. La loro idea era far tornare Trump alla Casa Bianca e affrontare il problema con una forzata condanna dei gruppi fomentatori di odio e di ideologie razziste: esattamente il tipo di posizione non ambigua che, come Richard Spencer aveva strategicamente scommesso, Trump non era disposto ad assumere.
Bannon, cogliendo il disagio di Trump, fece pressioni su Kelly mettendolo in guardia sulle ripercussioni che avrebbe avuto l’approccio di Jarvanka: Si vedrà lontano un miglio che non è una posizione sentita, lo ammonì.
Il presidente arrivò poco prima delle undici, il lunedì mattina, in una Casa Bianca con i lavori in corso e uno sbarramento di domande urlate su Charlottesville: «Condanna le azioni dei neonazisti? Condanna le azioni dei suprematisti bianchi?». Circa novanta minuti dopo, in piedi nella Diplomatic Reception Room, con gli occhi fissi sul gobbo, rilasciava una dichiarazione di sei minuti.
Prima di arrivare al punto: «La nostra economia, ora, è forte. Il mercato azionario continua a registrare nuovi massimi, la disoccupazione è al minimo rispetto agli ultimi sedici anni e le imprese sono più ottimiste che mai. Molte società stanno tornando negli Stati Uniti e portano con sé migliaia di posti di lavoro. Abbiamo già creato oltre un milione di nuovi posti dall’inizio del mio mandato».
E solo allora: «Dobbiamo amarci gli uni gli altri, mostrarci affetto reciproco e unirci nella condanna di odio, fanatismo e violenza… Dobbiamo riscoprire i legami d’amore e di lealtà che ci tengono uniti in quanto americani… Il razzismo è il male e quanti causano violenza nel suo nome sono criminali e teppisti, compresi KKK, neonazisti, suprematisti bianchi e altri gruppi fautori dell’odio che sono contrari a tutto ciò che abbiamo a cuore come americani».
Una minigenuflessione riluttante, una sorta di déjà vu di quando, in campagna elettorale, si era rimangiato il discorso in cui aveva messo in dubbio la nascita di Obama negli Stati Uniti: molto fumo, molte diversioni, poi una dichiarazione bofonchiata. Anche qui, mentre enunciava di malavoglia la linea concordata su Charlottesville, sembrava un ragazzino dopo una sgridata. Risentito e petulante, era chiarissimo che stesse leggendo il testo in modo forzato.
E infatti le sue dichiarazioni «presidenziali» riscossero un plauso limitato, con i giornalisti che continuavano a chiedergli perché ci avesse messo tanto ad affrontare il tema. Mentre risaliva sul Marine One per dirigersi alla base aerea di Andrews, da lì all’aeroporto JFK, poi a Manhattan e infine alla Trump Tower, il suo umore era nero e la sua faccia sembrava dire: Ve l’avevo detto. In privato si sforzava di razionalizzare perché uno, oggi, dovrebbe voler essere membro del KKK: magari non credevano neanche in quel che credeva il KKK, e il KKK stesso non credeva più in quel che credeva un tempo. E comunque, chi lo sapeva davvero in cosa credeva oggi il KKK? Tant’è, diceva, che il suo stesso padre era stato accusato di essere coinvolto con il Klan… falso (in realtà sì, vero).
Il giorno dopo, martedì 15 agosto, la Casa Bianca aveva in programma una conferenza stampa alla Trump Tower. Bannon esortò Kelly a cancellarla. Era di rilevanza zero, comunque. Il tema erano le infrastrutture – l’eliminazione di una normativa ambientale che avrebbe permesso di velocizzare la realizzazione dei progetti – ma di fatto era solo un altro tentativo di mostrare che Trump stava lavorando e non era semplicemente in vacanza. Perché disturbarsi, quindi? Per giunta, disse Bannon a Kelly, cominciava a intravedere che la lancetta sulla pentola a pressione di Trump stava salendo e di lì a poco sarebbe scoppiato.
La conferenza si tenne comunque. In piedi davanti al leggio nella hall della Trump Tower, il presidente si attenne al copione solo per pochi minuti. Con atteggiamento difensivo e tendenza ad autoassolversi, assunse una posizione del tipo: scusarsi non serve a niente, la colpa sta da entrambe le parti, poi parlò a ruota libera. Proseguì senza un’evidente capacità di adattare le emozioni alla circostanza politica o anche solo di fare uno sforzo per salvarsi. Giusto un altro caso, tra i tanti ormai, in cui pareva incarnare la figura tragicomica del politico da film, che dice qualunque cosa gli passi per la testa, senza filtri, come un matto.
«E l’alt-left che ha aggredito l’alt-right, come la chiamate voi? Mostra forse una parvenza di pentimento? E il fatto che li abbiano caricati con i bastoni in mano? Per quel che mi riguarda è stato un giorno orribile, orribile… Credo che la colpa stia da tutte e due le parti. Non ho dubbi al riguardo e nemmeno voi. Se riferiste con precisione i fatti, lo vedreste chiaramente.»
Steve Bannon, sempre in attesa nel suo ufficio provvisorio all’Eisenhower Executive Office Building, pensò: Oh, mio Dio, ci risiamo. Io l’avevo detto.
Eccezion fatta per quella porzione di elettorato che, come Trump aveva rivendicato una volta, gli avrebbe anche permesso di andarsene in giro a sparare sulla Quinta Strada, il mondo civilizzato era universalmente inorridito. Tutti si ritrovavano di colpo sotto una sbigottita lente morale. Chiunque occupasse una qualsiasi posizione di responsabilità anche lontanamente correlata a un’idea di rispettabilità delle istituzioni fu costretto a prendere le distanze. Ogni amministratore delegato di un’azienda quotata in Borsa che intratteneva rapporti con la Casa Bianca di Trump dovette tagliare i ponti. Il problema dominante non erano forse nemmeno le vedute obsolete che l’uomo poteva avere in cuor suo – Bannon asseriva che Trump non era in realtà antisemita, benché rispetto all’altra accusa non sapesse pronunciarsi con certezza – ma il fatto che palesemente non riuscisse a controllarsi.
In seguito alla conferenza stampa della pubblica immolazione, tutti gli occhi si puntarono all’improvviso su Kelly: fu il suo battesimo di fuoco con Trump. Spicer, Priebus, Cohn, la Powell, Bannon, Tillerson, Mattis, Mnuchin: praticamente l’intero staff dirigente e il consiglio di gabinetto passato e presente della presidenza Trump avevano attraversato le fasi di avventura, sfida, frustrazione, lotta, autogiustificazione e dubbio, per poi dover infine affrontare la probabilità assai concreta che il presidente per cui lavoravano, del cui mandato avevano in un certo senso una responsabilità ufficiale, non possedesse i requisiti adatti a ricoprire quel ruolo. Ora, dopo meno di due settimane d’incarico, a Kelly toccava ritrovarsi sull’orlo di quel baratro.
La domanda, per dirla con Bannon, non era se la situazione del presidente fosse grave. Era se la situazione del presidente fosse da Venticinquesimo Emendamento. Quello che parla di incapacità e sostituzione.
Per Bannon, se non per Trump, il cardine del trumpismo era la Cina. La storia della prossima generazione, riteneva, era ormai scritta, e contemplava una guerra con la Cina. Guerra commerciale, economica, culturale, diplomatica: sarebbe stato un conflitto a trecentosessanta gradi di cui pochi al momento, negli Stati Uniti, comprendevano la necessità e che quasi nessuno era preparato ad affrontare.
Bannon aveva stilato un elenco di «falchi»: uno schieramento davvero trasversale che spaziava dalla gang di Breitbart all’ex direttore di «New Republic», Peter Beinart – che gli riservava un sommo disprezzo –, all’ortodosso paladino liberal-progressista Robert Kuttner, direttore del piccolo magazine «American Prospect». Mercoledì 16 agosto, il giorno dopo la conferenza stampa del presidente alla Trump Tower, Bannon, di punto in bianco, chiamò Kuttner dal suo ufficio temporaneo per parlare della Cina.
A quel punto, il capo stratega era assolutamente convinto di essere prossimo a lasciare la Casa Bianca. Il fatto di non aver mai ricevuto il sospirato invito a raggiungere il presidente a Bedminster ne era un indizio raggelante. Quello stesso giorno, poi, aveva saputo della nomina di Hope Hicks a direttrice delle comunicazioni ad interim: una vittoria della fazione di Jarvanka. Nel frattempo, la coppia continuava a bisbigliare della sua fine certa. Ormai era diventato un rumore di fondo costante.
Non aveva ancora la certezza che sarebbe stato licenziato, e Bannon, per quella che era solo la sua seconda intervista ufficiale mai concessa dalla vittoria di Trump, chiamò Kuttner, segnando di fatto il suo destino. In seguito avrebbe sostenuto che la conversazione non era destinata alla pubblicazione. Ma quello era il metodo Bannon: sfidare la sorte.
Se Trump era stato Trump al cento per cento nella sua più recente conferenza stampa, Bannon fu Bannon al cento per cento nella sua chiacchierata con Kuttner: cercò di far passare l’idea di un Trump debole sulla Cina, corresse, in tono beffardo, l’uscita del presidente sulla Corea del Nord – «Dieci milioni di persone a Seul» sarebbero morte, dichiarò – e offese i suoi nemici interni: «Se la fanno sotto».
Se Trump era incapace di parlare come un presidente, Bannon non era da meno: era incapace di parlare come un consigliere presidenziale.
Quella sera un gruppo di bannonisti si ritrovò a cena non lontano dalla Casa Bianca. Il luogo convenuto era il bar dell’Hay-Adams Hotel, ma scoppiò una lite tra un membro della compagnia, Arthur Schwartz, e il barista, che gli aveva negato la possibilità di cambiare canale dalla CNN a Fox. Schwartz si occupava di pubbliche relazioni e il suo cliente, Stephen Schwarzman del Blackstone Group, presidente di uno dei consigli commerciali di Trump, avrebbe fatto una breve apparizione su Fox News. Dopo la conferenza stampa su Charlottesville, il consiglio stava perdendo numerosi membri e Trump, in un tweet, aveva annunciato l’intenzione di scioglierlo (Schwarzman gli aveva suggerito che, visto che il consiglio era ormai al collasso, tanto valeva far passare la chiusura come una sua decisione).
Schwartz, risentito, disse di volersi spostare al Trump Hotel. Propose anche di andare a cenare a due isolati da lì, al Joe’s. Matthew Boyle, caporedattore politico a Washington di Breitbart News, si trovò coinvolto nella sfuriata di Schwartz, che gli rimproverò di essersi acceso una sigaretta. «Non conosco nessuno che fuma» gli disse, tirando su con il naso. Sebbene Schwartz militasse convintamente nell’orbita di Bannon, la frase suonava come una frecciata all’ambiente rozzo di Breitbart. I due devoti bannonisti discussero dell’intervista di Bannon, che aveva colto di sorpresa chiunque gli fosse vicino. Nessuno dei due capiva perché l’avesse rilasciata.
Bannon era finito?
No, no, no, protestò Schwartz. Qualche settimana prima, forse, quando Murdoch si era coalizzato con McMaster ed era andato dal presidente per chiedergli di farlo fuori. Ma poi Sheldon aveva sistemato le cose.
«Steve se n’è rimasto a casa quando è venuto Abbas» continuò Schwartz. «Non voleva respirare la stessa aria di un terrorista.» Avrebbe ripetuto quelle stesse parole ai reporter nei giorni successivi, tentando di riabilitare la virtù destrorsa di Bannon.
Alexandra Preate, luogotenente del capo stratega, arrivò al Joe’s senza fiato. Qualche secondo dopo entrò Jason Miller, un altro addetto alle pubbliche relazioni della cerchia di Bannon. Durante la transizione, Miller sarebbe dovuto diventare direttore delle comunicazioni, ma poi era emerso che aveva avuto una relazione con una collega dello staff, che aveva annunciato via Twitter di essere incinta di lui (proprio come sua moglie). Miller, che aveva perso il posto promesso alla Casa Bianca, ma continuava a fungere da portavoce esterno di Trump e Bannon, si trovava ora ad affrontare, con la nascita del bambino – di due bambini da due donne diverse –, un’altra ondata di fango mediatico. Eppure anche la sua attenzione era ossessivamente calamitata dalle possibili implicazioni dell’intervista di Bannon.
Il tavolo ronzava di supposizioni.
Come avrebbe reagito il presidente?
Come avrebbe reagito Kelly?
Stava davvero calando il sipario su Bannon?
È strano come nessuno di loro, pur facendo parte della sua cerchia più stretta, sembrasse capire che, costretto o meno, Bannon avrebbe verosimilmente lasciato la Casa Bianca. Al contrario, agli occhi di tutti la sua esplosiva intervista finì per apparire come una brillante mossa strategica. Bannon non sarebbe andato da nessuna parte: non foss’altro perché, senza Bannon, non c’era nessun Trump.
L’atmosfera era colma di eccitazione: un momento ad alta tensione vissuto da un gruppo di gente appassionata, legata all’uomo che riteneva la figura più avvincente a Washington. Lo consideravano una sorta di elemento irriducibile: Bannon era Bannon era Bannon.
Con il trascorrere della serata, Matt Boyle mandò messaggi infuocati a Jonathan Swan, reporter dalla Casa Bianca, reo di aver scritto, in un suo articolo, che Bannon era uscito sconfitto dal braccio di ferro con McMaster. Di lì a poco, ogni giornalista ben introdotto della città prese a farsi sentire con l’una o l’altra delle persone riunite al tavolo. Quando arrivava un messaggio, se il mittente era un giornalista conosciuto il destinatario sollevava il cellulare e lo mostrava agli altri.
A un certo punto, Bannon inviò a Schwartz, sempre via messaggio, alcuni punti di discussione. Possibile che quello fosse solo un altro giorno nell’infinita sceneggiata della presidenza Trump? Schwartz, che sembrava considerare la stupidità del presidente come un dato politico, si produsse in una vigorosa analisi del perché Trump non potesse fare a meno di Bannon. Poi, in cerca di ulteriori prove a sostegno della sua tesi, disse che avrebbe mandato un messaggio a Sam Nunberg, generalmente considerato l’uomo che comprendeva i guizzi e gli impulsi di Trump meglio di tutti e che aveva saggiamente predetto la sopravvivenza di Bannon in ogni momento incerto dei mesi passati.
«Nunberg sa sempre tutto» commentò Schwartz. Qualche secondo dopo, alzò lo sguardo. Aveva gli occhi sgranati e per un istante rimase in silenzio.
«Nunberg dice che Bannon è morto» si decise infine a dire.
E, in effetti, all’insaputa dei bannonisti, persino di quelli a lui più vicini, in quel momento Bannon stava mettendo a punto la sua uscita di scena con Kelly. Il giorno dopo avrebbe sgomberato il suo ufficetto e, il lunedì, quando Trump fosse rientrato in una West Wing rimessa a nuovo – imbiancatura, mobili e tappeti nuovi, ispirati al Trump Hotel –, Steve Bannon sarebbe tornato alla Breitbart Embassy, sulla collina di Capitol Hill, ancora e sempre, confidava, nel suo ruolo di capo stratega della rivoluzione di Trump.