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La CPAC
Il 23 febbraio, con ventiquattro gradi a Washington, il presidente si svegliò lamentandosi dei riscaldamenti troppo alti, ma, per una volta, alla Casa Bianca le lagnanze presidenziali non erano la preoccupazione più importante.
La sovreccitata attenzione, nella West Wing, era monopolizzata dall’organizzazione delle auto per la Conservative Political Action Conference, la conferenza annuale degli attivisti del movimento conservatore, che, ingranditasi oltre le possibilità di capienza degli hotel di Washington, si era trasferita al Gaylord Resort, a National Harbor, nel Maryland. La CPAC, sulla destra del centro-destra in una posizione cui tentava di restare saldamente aggrappata, e incerta riguardo tutti i vettori d’ispirazione conservatrice che se ne allontanavano, aveva avuto a lungo un rapporto difficile con Trump, che riteneva un conservatore improbabile, se non un ciarlatano. Quanto a Bannon e a Breitbart, ascriveva loro un conservatorismo spinto all’eccesso: per anni Breitbart aveva organizzato nelle vicinanze una convention parallela denominata «The Uninvited», gli esclusi.
Ma quell’anno la presidenza Trump avrebbe dominato, se non inglobato la Conferenza, e a godersi il momento volevano esserci tutti. Il presidente, invitato a parlare nel secondo giorno di lavori, sarebbe intervenuto alla CPAC, come già Ronald Reagan, nel suo primo anno di mandato, mentre i due Bush, diffidenti nei confronti dell’evento e degli attivisti conservatori, avevano snobbato il raduno.
Kellyanne Conway, in programma in apertura, era accompagnata dalla sua assistente, da due delle sue figlie e da una babysitter. Per Bannon sarebbe stata la prima apparizione ufficiale in pubblico sotto la presidenza Trump e il suo seguito includeva Rebekah Mercer, finanziatrice chiave di Trump e cofondatrice di Breitbart News, la figlioletta di lei e Allie Hanley, un’aristocratica di Palm Beach, anche lei finanziatrice di stampo conservatore e amica della Mercer (l’impetuosa Hanley, che non aveva mai incontrato Bannon in precedenza, gli attribuì un’aria «poco pulita»).
Sul palco, durante la sessione pomeridiana, il consigliere sarebbe stato intervistato da Matt Schlapp, il presidente della CPAC, che, con innaturale affabilità, sembrava sforzarsi di accettare che Trump si fosse appropriato della sua conferenza. Alcuni giorni prima, Bannon aveva deciso di coinvolgere nell’incontro Priebus, un gesto di buona volontà e al tempo stesso una pubblica manifestazione di coesione, nella quale si poteva leggere il segno di una nascente alleanza contro Kushner.
Nella vicina Alexandria, in Virginia, Richard Spencer, il presidente del National Policy Institute, talvolta definito «think tank del suprematismo bianco», e che, con disagio della Casa Bianca, interpretava la presidenza Trump come una vittoria personale, stava organizzando il proprio passaggio alla CPAC: una marcia trionfale per lui quanto per il team di Trump. Spencer, che nel 2016 aveva dichiarato: «Festeggiamo come se fosse il 1933» (dove il 1933 è l’anno dell’ascesa al potere di Hitler), aveva fatto scalpore dopo l’elezione presidenziale con il suo ampiamente riportato «Heil Trump» (o, come si è trascritto, «Hail» – Salute! – che in sostanza è la stessa cosa) e aveva acquisito in qualche modo lo status di martire durante i festeggiamenti per l’insediamento di Trump, beccandosi un pugno da un manifestante, immortalato su YouTube.
La CPAC, creata dai superstiti del movimento conservatore dopo l’apocalittica sconfitta di Barry Goldwater alle presidenziali del 1964, si era trasformata, con stoica infaticabilità, nel pilastro stesso della sopravvivenza e del trionfo dei conservatori. Aveva epurato John Birchers e la destra razzista, e abbracciato i principi filosofici di Russell Kirk e William F. Buckley. Negli anni aveva sostenuto il «piccolo governo» e la deregulation dell’era reaganiana, perseguito battaglie culturali – contro l’aborto e i matrimoni gay e con un penchant per il fondamentalismo cristiano – e celebrato il connubio con i media conservatori, prima le radio di destra, poi Fox News. Da questo amalgama aveva distillato un’idea ancora più elaborata e onnicomprensiva di purezza, sincronismo e peso intellettuale dei conservatori. Parte del divertimento, alla CPAC – che attirava un vasto assortimento di giovani (scherzosamente definiti «la schiera degli Alex P. Keaton» dalla crescente compagine della stampa liberal che copriva l’evento) –, stava proprio nell’apprendere il catechismo conservatore.
Dopo la grande crescita durante il doppio mandato di Clinton negli anni Novanta, tuttavia, la CPAC aveva cominciato a sfaldarsi all’epoca di George W. Bush. Fox News diventò il cuore emotivo del conservatorismo americano; i neocon di Bush e la guerra in Iraq erano sempre più invisi ai libertariani e ad altre fazioni improvvisamente separatiste (tra cui i paleocon); la destra dei valori della famiglia subiva intanto la concorrenza sempre più pressante delle nuove generazioni di conservatori. Negli anni di Obama il movimento aveva assistito con crescente sconcerto al negazionismo del Tea Party e al sorgere di nuovi media iconoclasti di destra, di cui è un esempio Breitbart News, che fu espressamente esclusa dalla CPAC.
Nel 2011, professando la sua fede conservatrice, Trump aveva fatto pressioni sul gruppo per ottenere uno spazio di intervento e, dietro versamento – si vociferò – di un sostanzioso contributo in denaro, aveva ottenuto uno slot di quindici minuti. Se in teoria la Conferenza mirava soprattutto a definire una linea, nutriva anche un qualche riguardo per un’ampia schiera di «celebrità» di ambiente conservatore, tra cui, negli anni, Rush Limbaugh, Ann Coulter e varie star di Fox News. L’anno prima della rielezione di Obama, Trump rientrava in questa categoria. Ben diversamente sarebbe stato visto quattro anni dopo. Nell’inverno del 2016, durante la sfida ancora aperta per le primarie repubblicane, Trump – ormai ritenuto un apostata della dottrina quanto un beniamino della base – aveva deciso di disertare la CPAC, temendo un benvenuto non proprio esultante.
L’anno successivo, in conformità al nuovo allineamento con la Casa Bianca targata Trump-Bannon, la personalità di spicco alla Conferenza doveva essere l’esponente dell’alt-right Milo Yiannopoulos, provocatore britannico gay di destra affiliato a Breitbart News. Yiannopoulos – le cui posizioni, in realtà assai più vicine allo stile di un contestatore sessantottino, sembravano ridursi fondamentalmente allo spregio della correttezza politica e delle convenzioni sociali, con grande seguito di isterismi e indignazione della sinistra – era un conservatore decisamente sui generis. Si era anzi alluso, tra le righe, alla possibilità che la CPAC lo avesse scelto soltanto in ragione dell’implicito legame con Bannon, di cui era stato una sorta di protégé. Quando, due giorni prima dell’inizio dei lavori, un blogger conservatore scoprì un video in cui Yiannopoulos, con goliardica baldanza, pareva razionalizzare il concetto di pedofilia, la Casa Bianca rese chiaro che doveva sparire.
Nondimeno, la presenza della squadra presidenziale alla Conferenza, che, accanto allo stesso presidente, contemplava Bannon, la Conway, il ministro dell’Istruzione Betsy DeVos e l’eccentrico consigliere per gli Affari esteri ed ex redattore di Breitbart Sebastian Gorka, sembrava tale da oscurare l’incidente Yiannopoulos. Se la CPAC mirava come sempre a ravvivare l’insipido contributo dei politici con qualche star, Trump e chiunque gli gravitasse intorno erano, al momento, le più grandi di tutte. Con la sua famiglia posizionata in prima fila in una sala gremita, la Conway fu intervistata in stile Oprah da Mercedes Schlapp (moglie di Matt Schlapp: la CPAC è una ditta a conduzione familiare), editorialista del conservatore «Washington Times» che, in seguito, sarebbe entrata a far parte dell’ufficio comunicazioni della Casa Bianca. Fu il ritratto intimo e ispirato di una donna di successo: il genere di intervista che, riteneva la Conway, le avrebbero fatto i network e la tv via cavo se non fosse stata una repubblicana pro-Trump; il tipo di trattamento, era solita puntualizzare, che era stato riservato a esponenti democratiche come la consigliera di Obama Valerie Jarrett.
Più o meno nel momento in cui la Conway illustrava la sua particolare forma di femminismo antifemminista, Richard Spencer raggiungeva la sede della convention con l’intenzione di partecipare all’incontro collaterale «The Alt-Right Ain’t Right at All» (L’alt-right non è affatto di destra), modesto sforzo di riaffermazione dei valori tradizionali della CPAC. Spencer, che dalla vittoria di Trump si era dedicato full-time all’attivismo e alle occasioni mediatiche, aveva intenzione di posizionarsi strategicamente, per piazzare la prima domanda.
Quasi subito, però, al suo arrivo, appena pagata la quota d’iscrizione di centocinquanta dollari, aveva attirato prima un singolo reporter, poi un capannello in rapido aumento, una mischia spontanea di colleghi, e aveva reagito improvvisando una conferenza stampa ad hoc. Come Yiannopoulos, e per molti versi come Trump e Bannon, Spencer contribuiva a mettere in luce le contraddizioni del movimento conservatore moderno. Era un razzista, ma difficilmente si sarebbe potuto definire un conservatore: sosteneva tenacemente un sistema di assistenza sanitaria pubblica, per esempio. E l’attenzione da lui ricevuta, in un certo senso, più che accreditare l’ascendente dei conservatori, era un altro tentativo dei media liberal di screditarli. Così, mentre l’assembramento gli cresceva intorno fino a raggiungere la trentina di persone, entrò in azione il braccio censorio della CPAC.
«Lei non è il benvenuto qui» annunciò uno degli addetti alla sicurezza. «La vogliono fuori. Le chiedono di sospendere. Vogliono che lasci la proprietà.»
«Wow» esclamò Spencer. «Possono farlo?»
«Basta discussioni» ribatté il vigilante. «Questa è proprietà privata e la CPAC qui non la vuole.»
Sequestratogli il pass, Spencer fu scortato fuori dal settore del resort riservato alla Conferenza e, senza la minima scalfittura all’orgoglio, si trattenne nell’area lounge della hall a scrivere sui social network e inviare messaggi o email a tutti i giornalisti della sua lista di contatti.
Sosteneva fondamentalmente che la sua presenza lì era in realtà meno paradossale o dissonante di quella di Bannon, o persino di Trump se per questo. L’avevano sbattuto fuori, sì, ma in un senso storico più ampio erano i conservatori che si stavano facendo estromettere dal loro stesso movimento, dal nuovo gruppo (di cui facevano parte Trump e Bannon) di «identitari», come li definiva lui, i fautori «degli interessi, dei valori e della cultura dei bianchi».
Spencer era, nella propria visione, il vero trumpista e loro, quelli della CPAC, ormai, l’anomalia.
Nella green room, subito dopo l’arrivo di Bannon e Priebus, ciascuno con il proprio seguito, Bannon – camicia e giacca scura, pantaloni bianchi – si mise in disparte a conferire con la sua assistente, Alexandra Preate. Priebus sedeva al trucco, facendosi pazientemente applicare fondotinta, cipria e lucidalabbra.
«Steve…» disse, accennando alla poltrona mentre si alzava.
«Va bene così» rispose lui. Alzò una mano: un altro dei suoi mille piccoli gesti espressamente intesi a distanziarlo dalle pagliacciate della palude politica. E da Reince Priebus, con il suo strato di cerone.
Difficile sottostimare l’importanza della prima apparizione pubblica di Bannon dopo giorni di evidente subbuglio nella West Wing, una storia di copertina a lui dedicata da «Time», infinite speculazioni sull’entità del suo potere e le sue reali intenzioni, e la sua elevazione – nella visione dei media, almeno – al rango di mistero chiave della Casa Bianca di Trump. Per Bannon, dal canto suo, fu un momento accuratamente coreografato. Era la sua marcia trionfale. Si era imposto nella West Wing, riteneva, e – sempre nella sua visione personale – aveva dimostrato la propria superiorità su Priebus e su quell’idiota del genero del presidente. Ora avrebbe dominato anche la CPAC. Intanto, però, provava ad avere un’aria disinvolta pur sapendo di essere indiscutibilmente l’uomo del momento. Respingere l’invito al trucco era un modo per sminuire Priebus, ma anche per affermare che, fedele al suo stile da commando, sarebbe andato in battaglia a viso aperto.
«Sai quel che pensa anche quando non sai quel che pensa» diceva di lui Alexandra Preate. «È un po’ come un bravo ragazzo di cui tutti sanno che in realtà è un cattivo ragazzo.»
Quando i due uomini salirono sul palco e apparvero sui megaschermi, il contrasto tra loro non avrebbe potuto essere più stridente. La cipria faceva sembrare Priebus un manichino e il completo con spilletta sul risvolto gli dava l’aria dello scolaretto. Bannon – quello che si supponeva allergico alla pubblicità – divorava le telecamere: una star del country, un Johnny Cash.
Afferrò la mano di Priebus in una poderosa stretta, poi si rilassò nella sua poltrona mentre l’altro si faceva troppo ansiosamente avanti nella propria.
Priebus attaccò con il classico scambio di cortesie. Bannon, prendendo la parola, ne approfittò per tirare un’ironica stoccata: «Desidero ringraziarvi per avermi infine invitato alla CPAC».
«Abbiamo voluto affermare che tutti sono parte della grande famiglia conservatrice» replicò Matt Schlapp, rassegnato. Diede poi il benvenuto al «fondo della sala», dove erano posizionate le centinaia di giornalisti che seguivano l’evento.
«Cos’è? Il partito di opposizione?» chiese Bannon, schermandosi gli occhi.
Schlapp partì con una domanda pro forma: «Sono state scritte un sacco di cose su voi due. Ehm…».
«È tutto okay» replicò Priebus, stringato.
«Scommetto che non tutto è accurato» disse Schlapp. «Che qualcosa viene travisato. Chiedo quindi a voi due: qual è l’idea più grossolanamente sbagliata sul modo in cui vanno le cose alla Casa Bianca?»
Bannon rispose con poco meno di un ghigno e non proferì parola.
Priebus attaccò a dare testimonianza del loro stretto rapporto.
Bannon, con un guizzo negli occhi, sollevò il microfono a mo’ di tromba e fece una battuta sullo spazioso ufficio di Priebus (caminetto e due divani) e sul suo ufficetto di fortuna.
Priebus arrivò faticosamente al punto. «È, ehm… in realtà è… qualcosa che tutti voi avete aiutato a costruire, cioè, quando si mettono insieme, e come dimostrano queste elezioni, come ha dimostrato il presidente Trump… Non prendiamoci in giro: io posso parlarvi di dati e strategie, Steve può parlarvi di grandi idee, ma il nocciolo della questione è che Donald Trump, il presidente Trump, ha riunificato il partito e il movimento conservatore, e io vi dico che, se il partito e il movimento conservatore sono uniti» congiunse i pugni «come lo siamo Steve e io, non li fermerà nessuno. Il presidente Trump è il solo, è stato l’unica persona, e posso dirvelo dopo averne visti sedici farsi fuori a vicenda… Donald Trump è riuscito a unificare questo Paese, questo partito, questo movimento. Steve e io lo sappiamo, lo viviamo ogni giorno e il nostro lavoro è portare là fuori il programma del presidente Trump, metterlo nero su bianco.»
Mentre riprendeva fiato, Bannon gli soffiò il testimone. «Credo che, se guardiamo al partito d’opposizione» indicò il fondo della sala con un gesto «e a come ha dipinto la campagna elettorale, a come ha rappresentato la transizione presidenziale, a come ritrae, oggi, l’amministrazione, è sempre tutto sbagliato. Voglio dire, fin dal primissimo giorno in cui Kellyanne e io abbiamo cominciato, abbiamo teso la mano a Reince, Sean Spicer, Katie… È la stessa squadra, sapete, che giorno dopo giorno si è spesa duramente in campagna elettorale, la stessa squadra di transizione e, come ricorderete, stando alla descrizione dei media la campagna è stata la più caotica di sempre: la più caotica, la più disorganizzata, la meno professionale, senza la minima idea di quel che si stesse facendo… E poi tutti lì a piangere la sera dell’8 novembre.»
Alla Casa Bianca Jared Kushner, seguendo l’intervista prima distrattamente, poi con più attenzione, avvertì un improvviso moto di rabbia. Suscettibile, diffidente e sempre sul chi vive, percepiva il discorso di Bannon come un messaggio inviato direttamente a lui. Aveva appena attribuito il merito della vittoria di Trump a tutti gli altri, lasciando fuori lui. Lo aveva fatto apposta, ne era certo.
Quando Schlapp chiese ai due ospiti di elencare gli obiettivi raggiunti nei primi trenta giorni, Priebus esitò, poi si appigliò al giudice Gorsuch e agli ordini esecutivi sulla deregulation, tutte cose, disse, «con cui…» pausa sofferta «… l’ottanta per cento degli americani è d’accordo».
Dopo un breve silenzio, come aspettando che l’aria si rasserenasse, Bannon sollevò il microfono: «Io grossomodo li divido in tre colonne, in tre aree. Primo: sicurezza e sovranità nazionale, con l’intelligence, il Dipartimento della Difesa, la Sicurezza nazionale. La seconda linea d’azione è quella che definisco del nazionalismo economico, con Wilbur Ross al Commercio, Steve Mnuchin al Tesoro, [Robert] Lighthizer come rappresentante per il Commercio, Peter Navarro [e] Stephen Miller, che stanno ripensando il modo in cui ricostruiremo i nostri accordi commerciali in tutto il mondo. La terza linea d’azione, sostanzialmente, è la decostruzione dello Stato amministrativo…». Bannon si interruppe un istante. La frase, che mai era stata pronunciata nella politica americana, suscitò applausi scroscianti. «Così agisce la sinistra progressista: se non riesce a far passare qualcosa la infila in qualche regolamentazione di questo o quell’ente. Tutto ciò sarà smantellato.»
Schlapp pose un’altra domanda preparata, questa volta sui media.
Priebus la ponderò, prese a divagare borbottando e finì chissà come su una nota positiva: «Sapremo trovare una sintonia».
Sollevando di nuovo il microfono, e con un ampio movimento del braccio, Bannon sentenziò: «Non solo le cose non andranno meglio: peggioreranno di giorno in giorno» il suo ritornello apocalittico fondamentale «e vi dirò perché. Per inciso, la logica interna non fa una piega: media globalisti, corporativisti che si oppongono categoricamente, categoricamente, a un’agenda economica nazionalistica come quella di Donald Trump. Ed ecco perché le cose peggioreranno: perché lui non smetterà di portarli avanti, i suoi piani. E mentre le condizioni economiche, i livelli di occupazione miglioreranno, loro continueranno a dare battaglia. Se credete che vi ridaranno indietro il vostro Paese senza colpo ferire vi sbagliate di grosso. Ogni giorno sarà una lotta. È il motivo per cui sono fiero di Donald Trump. Con tutte le occasioni che ha avuto di esitare, tutte le persone che sono venute a dirgli: “Devi moderarti”» altra stoccata per Kushner, «ogni giorno, nello Studio Ovale, dice a Reince e a me: “Ho preso questo impegno con il popolo americano. L’ho promesso in campagna elettorale e terrò fede alla parola data”».
Seguì l’ultima domanda concordata a tavolino: «Il movimento di Trump si può armonizzare con quello che da cinquant’anni avviene in seno alla CPAC e ad altri movimenti conservatori? Si può mettere insieme il tutto? E quel tutto salverà il Paese?».
«Be’, dobbiamo essere uniti come una squadra» rispose Priebus. «Dovremo tutti lavorare insieme perché accada.»
Bannon, per parte sua, esordì parlando lentamente, lo sguardo fisso su un pubblico avvinto, rapito. «Ho detto che si sta forgiando un nuovo ordine politico ed è ancora in via di formazione. Se si considera l’ampia varietà di opinioni presente in questa sala, dal populismo al conservatorismo del governo limitato, dall’ultraliberismo al nazionalismo economico, c’è un vasto assortimento di posizioni, talvolta contrastanti, eppure io credo che il nucleo centrale dei nostri convincimenti, cioè che siamo una nazione con un’economia, non solo un’economia dentro un qualche mercato globale con le frontiere aperte, ma una nazione con una cultura, una ragion d’essere… Credo sia questo a unirci ed è ciò che unirà anche il movimento d’ora in poi.»
Abbassò il microfono, mentre, dopo quello che si potrebbe interpretare come un attimo di esitazione, la platea prorompeva in un fragoroso applauso.
Alla Casa Bianca Kushner, ormai convinto che un’insidia era in agguato ogniqualvolta Bannon si serviva dei termini «frontiere», «globale», «cultura», «unire» e sempre più persuaso che ciascuna di quelle parole era rivolta contro di lui personalmente, era su tutte le furie.
Kellyanne Conway era sempre più preoccupata per la mancanza di sonno del presidente settantenne e per il suo aspetto sciupato. Riteneva che fosse l’instancabilità di quell’uomo – una sorta di moto perpetuo – a trascinare il team. Durante il tour elettorale aggiungeva sempre nuove tappe, nuovi comizi; aveva raddoppiato i tempi della sua campagna: Hillary lavorava part-time, lui faceva i doppi turni, traendo l’energia dalla folla. Da quando viveva solo alla Casa Bianca, però, sembrava aver perso un po’ di smalto.
Il secondo giorno di lavori della Conferenza, però, era di nuovo lui. Si era fatto una lampada, schiarito i capelli e, quando si era alzato in un altro mattino pseudo-primaverile (venticinque gradi in pieno inverno), il presidente che aveva negato i cambiamenti climatici pareva un’altra persona, o comunque una persona notevolmente più giovane. All’ora stabilita, nella sala da ballo blindata del Gaylord Resort, stipata ai limiti della capienza di fedeli conservatori d’ogni colore – Rebekah Mercer e sua figlia in prima fila –, con centinaia di esponenti dei media in un’apposita galleria stampa, il presidente salì sul palco, non con passo slanciato in stile televisivo, ma con incedere lento, sull’aria sommessa di I’m Proud to Be an American. Fece il suo ingresso da politico forte, da uomo che stava vivendo il suo momento, battendo le mani (una breve concessione alla posa da intrattenitore) mentre si avvicinava lentamente al leggio, e mormorando «Grazie», la cravatta rosso acceso che pendeva oltre la cintura.
Sarebbe stato il quinto intervento di Trump alla CPAC. Per quanto a Steve Bannon piacesse considerarsi l’autore di Donald Trump, sembrava anche ritenere prova di una sorta di legittimità supplementare – e in un certo modo di per sé straordinaria – il fatto che dal 2011 Trump si presentasse alla Conferenza, sostanzialmente, con lo stesso messaggio. Non era lì a fare numero, era un portavoce. Il Paese era «un caos» (parola che aveva resistito alla prova del tempo trumpiana), i suoi leader erano deboli, la sua grandezza si era perduta. L’unica cosa diversa era che nel 2011 Trump leggeva ancora i discorsi, improvvisando solo all’occasione, mentre quel giorno andava esclusivamente a braccio.
«Il mio primo discorso importante è stato alla CPAC» esordì. «Cinque o sei anni fa, forse. Il mio primo discorso importante in politica. C’eravate anche voi. E mi è piaciuto. Mi è piaciuta la gente, la confusione… Avevano fatto un sondaggio in cui ero arrivato alle stelle. E non ero nemmeno candidato, giusto? Ma mi fece venire un’idea! Mi ero un po’ preoccupato, vedendo quel che accadeva nel Paese, perciò mi sono detto: Andiamo! È stato molto eccitante. Sono salito sul palco: avevo pochi appunti e ancor meno preparazione.» In realtà aveva letto il suo discorso del 2011 da un foglio. «Così, quando non hai un discorso scritto, ma te ne vai lasciando tutti elettrizzati… Mi sono detto: Credo proprio che mi piaccia, questa faccenda.»
Il primo preambolo lasciò il posto a quello successivo.
«Tengo a dirvi che stiamo combattendo le fake news. È tutto falso. Fasullo. Giorni fa ho definito le fake news il nemico del popolo. Perché i giornalisti non hanno fonti e, quando non le hanno, se le inventano. Ho visto un servizio, di recente, che sostenevano fosse stato confermato da nove persone. Nove? Secondo me non erano neppure una o due. Nove persone! Ho detto: “Fatemi il piacere, io conosco la gente. So con chi va a parlare”. E non potevano essere nove, ma loro sostengono di sì…»
Pochi minuti dei quarantotto di durata complessiva del discorso e si era già fuori dai binari, il ritornello rafforzato dalla ripetizione. «Forse è solo che non sono bravi a fare i sondaggi. O forse non sono attendibili: delle due l’una. Sono molto furbi, molto scaltri… e molto disonesti. Per concludere» – anche se sarebbe andato avanti per trentasette minuti – «è un argomento molto delicato e loro si arrabbiano quando smascheriamo le loro falsità. Dicono che non possiamo criticare la loro informazione disonesta in virtù del Primo Emendamento. Lo citano sempre, sapete» – in falsetto – «il Primo Emendamento. Ora, io amo il Primo Emendamento: nessuno lo ama più di me, nessuno!»
Ogni membro del seguito di Trump esibiva in quel momento un volto accuratamente imperscrutabile. Quando distesero i tratti fu come fuori sincrono, grazie al via libera delle risate e degli applausi del pubblico. Non parevano sapere in altro modo se il presidente, con le sue caratteristiche tirate, l’avesse sfangata ancora una volta.
«Tra parentesi, voi siete qui: la sala è piena, ci sono code di sei isolati.» Non c’era alcuna coda, fuori dall’affollata hall. «Ve lo dico perché non lo leggerete sui giornali. Code di sei isolati… C’è un’unica lealtà che ci unisce tutti. Verso l’America. Tutti noi salutiamo con orgoglio la stessa bandiera americana… e siamo tutti uguali, uguali agli occhi di Dio Onnipotente. Siamo uguali… e, a questo proposito, vorrei ringraziare la comunità evangelica, la comunità cristiana, le comunità religiose, rabbini, sacerdoti, pastori, ministri, perché il loro sostegno per me, confesso, è stato da record: non numeri di persone ma intere percentuali hanno votato per Trump… una profusione straordinaria e io non vi deluderò… Finché avremo fiducia l’uno nell’altro e confideremo in Dio non ci sarà traguardo che non potremo raggiungere… non ci sarà sogno troppo audace… Siamo americani e il futuro ci appartiene… L’America sta ruggendo. Sarà più grande e più forte che mai.»
Nella West Wing qualcuno, per passare il tempo, si era interrogato su quanto sarebbe andato avanti se avesse potuto piegare al suo volere il tempo come il linguaggio. L’opinione diffusa pareva essere: all’infinito. Il suono della sua voce, l’assenza di inibizioni, il fatto che il pensiero lineare e la chiarezza espositiva non risultassero evidentemente necessari, lo stupore che quell’approccio disinvolto sembrava destare, la sua scorta inesauribile di libere associazioni: tutto induceva a pensare che Trump fosse limitato soltanto dagli impegni degli altri e dalla loro capacità di attenzione.
Le sue divagazioni estemporanee erano sempre angoscianti, ma più per il suo entourage che per lui. Lui parlava dimentico e felice, convinto di essere un perfetto oratore e affabulatore, mentre i suoi trattenevano il fiato. E se capitava l’uscita strampalata, nelle occasioni – frequenti – in cui il suo discorso sbandava senza una precisa direzione, lo staff doveva ricorrere a tecniche da scuola di recitazione. Occorreva una disciplina ferrea per non ammettere ciò che era evidente per tutti gli altri.
Mentre il presidente finiva il suo discorso, Richard Spencer, che a meno di quattro mesi dall’elezione di Trump si avviava a diventare il più famoso neonazista d’America dai tempi di George Lincoln Rockwell, era tornato nella hall del Gaylord Resort a ribadire la sua simpata per Donald Trump, che riteneva ricambiata.
Curiosamente, era uno dei pochi che tentavano di ascrivere al trumpismo una dottrina intellettuale, collocandosi a metà strada tra quelli che prendevano Trump alla lettera, ma non sul serio, e quelli che lo prendevano sul serio, ma non alla lettera. Spencer, in pratica, faceva tutte e due le cose, sostenendo che, se Trump e Bannon erano i pesci pilota di un nuovo movimento conservatore, lui – presidente di AltRight.com e, nella sua convinzione, il più puro esponente del movimento – era il pesce pilota di Trump e Bannon, che loro lo sapessero o meno.
Per la maggior parte dei giornalisti presenti, Spencer era la cosa più vicina a un vero nazista che avessero mai avuto di fronte: un’autentica calamita per la stampa liberal che affollava la CPAC. E con ogni probabilità la sua spiegazione dell’anomala politica di Trump era migliore di molte altre.
Si era fatto strada scrivendo occasionalmente su pubblicazioni di stampo conservatore, ma sarebbe stato difficile classificarlo in termini classici. Era un provocatore di estrema destra, ma senza l’atteggiamento aggressivo e la mordacità da salotto di una Ann Coulter o di un Milo Yiannopoulos. Quelli erano reazionari da messinscena, lui era vero: un razzista credibile con un buon livello di istruzione, nel suo caso ottenuto presso la University of Virginia, la University of Chicago e la Duke.
Era stato Bannon a fargli spiccare il volo definendo Breitbart «la piattaforma dell’alt-right», il movimento che Spencer sosteneva di aver fondato o perlomeno di cui possedeva il dominio web.
«Non credo che Bannon o Trump siano identitari o appartengano alla alt-right» spiegò, accampato appena oltre il confine di proprietà della CPAC al Gaylord. Loro non erano, come lui, razzisti di matrice filosofica (diversi a loro volta dai razzisti di pancia), ma erano «aperti a queste idee, e alle persone aperte a queste idee».
Aveva ragione. Trump e Bannon, ma anche Sessions, si erano avvicinati più di qualunque altra importante figura politica nazionale dai tempi del movimento per i diritti civili a tollerare una visione politica, fondata sulla razza.
«Trump ha detto cose che i conservatori non avrebbero mai pensato… Le sue critiche alla guerra in Iraq, bastonando la famiglia Bush: non riuscivo a credere che lo avesse fatto davvero, e invece sì! Che si fottano! In fin dei conti, se una famiglia bianca, anglosassone e protestante produce Jeb e W. è un chiaro segno di rinnegamento… E adesso si sposano con i messicani… La moglie di Jeb… Ha sposato la sua domestica o roba simile.
«Nel discorso alla CPAC del 2011, Trump ha chiesto espressamente di ridurre le restrizioni all’immigrazione per gli europei… Significherebbe ricreare un’America molto più stabile e più bella. Nessun altro politico conservatore direbbe queste cose, eppure quasi tutti le pensano… perciò dirle ha un effetto così forte… C’è un evidente processo di normalizzazione in corso.
«Noi siamo l’avanguardia di Trump. La sinistra dirà che è un nazionalista e uno pseudo-razzista, quei tromboni dei conservatori diranno: “Oh, no, certo che no, è un costituzionalista” o che so io. Noi dell’alt-right diremo: “È un nazionalista e un razzista. Il suo movimento è un movimento dei bianchi”.»
Con aria piuttosto compiaciuta, Spencer tacque per un istante, poi aggiunse: «Gli diamo una sorta di autorizzazione».
Non lontano, nella hall del Gaylord, Rebekah Mercer faceva uno spuntino con la figlia, che non ha mai frequentato una scuola ed è sempre stata istruita in casa, e l’amica Allie Hanley. Le due donne concordarono che il discorso del presidente lo aveva mostrato al meglio del fascino e del garbo.