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La Trump Tower
Il sabato dopo le elezioni, Donald Trump ricevette un gruppo selezionato di sostenitori nel suo appartamento su tre piani nella Trump Tower. Persino gli amici più stretti erano ancora sotto shock, e al piccolo ricevimento si respirava un’aria di incredulità generale. Trump, invece, guardava nervosamente l’orologio.
Rupert Murdoch, che fino a quel momento lo aveva liquidato come un ciarlatano e un buffone, aveva promesso di presenziare insieme alla moglie, Jerry Hall. I due però tardavano a palesarsi. Trump si affannava a rassicurare gli ospiti – Rupert stava arrivando, era solo questione di minuti – e, quando alcuni fecero per andarsene, li persuase a pazientare un altro po’: Non vorrai perderti l’occasione di vedere Rupert? (O, come intese uno di loro: Non vorrai perderti l’occasione di vedere me e Rupert insieme?)
L’ex moglie di Murdoch, Wendi, aveva frequentato spesso Jared e Ivanka, ma il magnate dei media non aveva mai fatto mistero della propria mancanza di interesse nei confronti di Trump. Il suo legame con Kushner costituiva un elemento non irrilevante nella dinamica di potere fra Trump e il genero, e una leva che quest’ultimo aveva usato abilmente a proprio vantaggio, infilando con falsa nonchalance il nome di Murdoch nelle conversazioni con il suocero. Quando, nel 2015, Ivanka aveva riferito a Murdoch che il padre aveva deciso di candidarsi alla presidenza, lui aveva escluso senza appello la possibilità di una vittoria.
Invece si era consumato il più sbalorditivo capovolgimento nella storia americana, e il presidente neoeletto era sulle spine per via di quell’incontro. «È un grande» ripeteva ai suoi ospiti, in tono sempre più concitato. «Dico sul serio: il più grande dei nostri tempi. Dovete conoscerlo.»
La situazione presentava una curiosa inversione di ruoli, una sorta di paradossale simmetria. Trump, che sembrava ancora considerare la presidenza come un trampolino per elevare la sua posizione sociale, stava cercando in tutti i modi di conquistarsi i favori di un uomo che aveva sempre dato mostra di disprezzarlo. E quando infine Murdoch fece il suo ingresso alla festa, anche lui appariva sconcertato e allibito come tutti gli altri, e in difficoltà nel vedere in quell’impensata nuova luce un uomo che per più di una generazione era stato, nel più clemente dei giudizi, il principe dei pagliacci del jet set internazionale.
Murdoch non era il solo tra i miliardari ad aver guardato Trump con disprezzo. Negli anni prima dell’elezione, Carl Icahn, che Trump citava spesso come amico e che in seguito avrebbe proposto per un’alta carica di governo, non si faceva scrupoli a metterlo in ridicolo (tra l’altro smentendo apertamente la pretesa di Trump di essere a sua volta miliardario).
Tra quanti conoscevano Trump, ben pochi si facevano illusioni sul suo conto. Era quasi il bello di un personaggio come lui: Donald era precisamente come appariva, un uomo con l’avidità negli occhi e la disonestà nell’anima.
Adesso però era il presidente degli Stati Uniti. E questo, come in una mossa di jujutsu, aveva completamente ribaltato la situazione. Qualunque opinione si potesse avere di lui, era riuscito nell’obiettivo: aveva estratto la spada dalla roccia. Il fatto era innegabile, e aveva cambiato tutto.
Quei miliardari avrebbero dovuto riconsiderare il giudizio che avevano di lui. E, come loro, chiunque ruotasse nella sua orbita. Lo staff della campagna elettorale, che d’un tratto vedeva a portata di mano incarichi nella West Wing – nomine in grado di decidere delle loro carriere e farli entrare nella storia –, doveva guardare con nuovi occhi quell’uomo bizzarro, difficile, persino ridicolo e, fino a prova contraria, incompetente. Era stato eletto presidente: di conseguenza – come amava ripetere Kellyanne Conway – era presidenziale per definizione.
Ma a comportarsi in modo presidenziale lui non ci pensava proprio. Mai una volta aveva dimostrato riguardo per il decoro o il cerimoniale politico. Tantomeno aveva esercitato un minimo di autocontrollo.
Furono reclutati nuovi collaboratori che, pur non nascondendo quello che pensavano di Trump, accettarono di unirsi all’impresa: Jim Mattis, ex generale a quattro stelle e tra i più rispettati comandanti delle forze armate americane; Rex Tillerson, amministratore delegato della ExxonMobil; Scott Pruitt e Betsy DeVos, fedelissimi di Jeb Bush. Tutti loro dovettero concentrarsi su un unico dato di fatto: Trump era un personaggio eccentrico, persino strampalato, ma adesso era il nuovo presidente.
Può funzionare, cominciarono all’improvviso a ripetere tutti i membri della sua cerchia. Sì, può funzionare. Forse.
In effetti, visto da vicino, Trump non è l’uomo pretenzioso e bellicoso che ha aizzato folle idrofobe in campagna elettorale. Non è né irascibile né aggressivo. È stato forse il candidato più fragoroso, minaccioso e preoccupante nella storia americana moderna, ma di persona è quasi conciliante. Il suo profondo autocompiacimento è contagioso. In sua presenza, la vita sembra rosea. Trump è un ottimista – almeno nel giudicare se stesso –, e sa essere affascinante e lusinghiero, capace di prestare al suo interlocutore un’attenzione assoluta. È spiritoso, persino autoironico. E ha energia da vendere. «Facciamolo!» è la sua risposta a qualsiasi cosa. Non è un duro. È «uno scimmione dal cuore d’oro», secondo la definizione non proprio adulatoria di Bannon.
Peter Thiel, cofondatore di PayPal e membro del consiglio di amministrazione di Facebook (nonché l’unica voce significativa nella Silicon Valley a essersi spesa in favore di Trump), fu messo in guardia da un altro miliardario e amico storico del neopresidente: trascinato dal vizio incorreggibile della lusinga, Trump gli avrebbe offerto amicizia imperitura, lo avrebbe coperto di lodi e avrebbe dichiarato che la loro sarebbe stata una collaborazione straordinaria. Qualunque cosa ti serva, tu chiamami e io farò in modo che tu la ottenga, gli avrebbe assicurato. Quando si comportava così, disse l’amico comune, non bisognava prenderlo sul serio. Ma Thiel, che aveva tenuto un discorso in suo favore alla convention repubblicana di Cleveland, avrebbe riferito in seguito che, per quanto avvisato, lui ci aveva creduto quando Trump gli aveva giurato eterna amicizia, salvo poi scomparire e non rispondere alle sue telefonate. Ma al potere si può anche perdonare qualche mancanza nelle relazioni sociali. Erano altri gli aspetti davvero preoccupanti del carattere del nuovo presidente.
Quasi tutti i professionisti che erano entrati nella sua cerchia avevano dovuto prendere atto di un fatto incontrovertibile: Trump non sapeva niente di niente. Non esisteva argomento, a parte forse l’edilizia, di cui fosse davvero competente. Improvvisava su qualunque cosa. Quello che sapeva sembrava sempre averlo imparato un’ora prima, e per giunta in modo sconclusionato. Eppure i membri della sua nuova squadra stavano cercando di convincersi del contrario: Trump era stato eletto presidente, perciò qualche capacità doveva averla per forza. E se era vero che tutti nel suo ambiente ne conoscevano l’inettitudine – Trump, il grande uomo d’affari, non sapeva leggere un bilancio, e il candidato che in campagna elettorale aveva fatto leva sulla propria abilità di negoziatore in realtà era un disastro al tavolo delle trattative, in particolare per la disattenzione cronica ai dettagli –, il suo staff individuò in lui un’altra qualità: Trump aveva istinto. Sì, era quella la parola giusta. Aveva una forte personalità. Sapeva convincerti.
«È una brava persona, un uomo intelligente o capace?» si chiese una volta Sam Nunberg, suo storico consigliere politico. «Non lo so proprio. Ma di certo è una star.»
Piers Morgan, giornalista inglese e conduttore (senza troppo successo) della CNN che dopo la partecipazione a The Celebrity Apprentice era rimasto un amico fedele di Trump, disse che per capire le sue virtù e le sue attrattive bastava leggere il suo libro, L’arte di fare affari. Quelle pagine lo riassumevano alla perfezione, rivelando i segreti del suo acume, della sua energia e del suo carisma. Trump era racchiuso in quel libro. Peccato che il libro non lo aveva scritto lui. Il ghostwriter, Tony Schwartz, aveva sbandierato ai quattro venti che il presunto autore non aveva contribuito in niente alla stesura, anzi, probabilmente non lo aveva nemmeno letto. Ma forse era proprio questo il punto. Trump non è uno scrittore, è un personaggio: un protagonista e un eroe.
Appassionato di wrestling, fan e finanziatore della World Wrestling Entertainment (e accolto nella WWE Hall of Fame), Trump viveva come Hulk Hogan, interpretando nella realtà un personaggio fittizio. Per il divertimento dei suoi amici, e la preoccupazione dei tanti che si accingevano a lavorare per lui ai vertici del governo federale, Trump parlava spesso di sé in terza persona: Trump ha fatto questo, «Trumpster» (il suo nome utente su Twitter) ha detto quest’altro. E il ruolo ricoperto finora era talmente potente che lui sembrava restio o incapace di rinunciarvi per assumere quello di presidente, o diventare presidenziale.
Nessuno negava che fosse un uomo difficile, ma molti nel nuovo entourage cercarono di giustificarne il comportamento trovandovi la spiegazione stessa del suo successo e sforzandosi di interpretarlo come un vantaggio, non un limite. Per Steve Bannon, l’ineguagliata virtù politica di Trump consiste nell’essere un maschio alfa, forse l’ultimo della sua specie. Un uomo in stile anni Cinquanta, un tipo con tutte le carte in regola per appartenere al Rat Pack, un personaggio uscito dritto dalla serie televisiva Mad Men.
Trump stesso ha una comprensione persino più accurata della propria natura. Una volta, in viaggio sul suo aereo privato con un altro miliardario e deciso a far colpo sulla modella straniera che accompagnava l’amico, propose una tappa ad Atlantic City per visitare uno dei suoi casinò. L’amico disse alla modella che ad Atlantic City non c’era proprio niente da vedere. Era la capitale mondiale del white trash.
«Che cos’è il white trash?» aveva chiesto lei.
«Sono quelli come me» aveva risposto Trump. «Tranne che loro sono poveri.»
In sostanza lui cerca scuse per non adeguarsi, per non essere rispettabile, un espediente, seppur discutibile, per vincere. Ed è la vittoria che conta, non i mezzi con cui la si ottiene.
Per dirla in altro modo, e secondo il giudizio degli amici che badavano bene a non cascare nei suoi tranelli, Trump semplicemente era privo di scrupoli. Era un ribelle, un disturbatore, un uomo che, vivendo al di sopra delle regole, le disprezzava. Un buon amico sia suo sia di Bill Clinton trovava in loro somiglianze inquietanti, salvo che Clinton conservava una facciata rispettabile, Trump no.
Una manifestazione di questa personalità furfantesca, sia per Trump sia per Clinton, era il loro modo di corteggiare le donne, o molestarle, per l’esattezza. Persino rispetto ai più famigerati campioni della categoria i due spiccavano per la totale assenza di dubbi ed esitazioni.
Trump amava ripetere che una delle cose che rendevano la vita degna di essere vissuta era portarsi a letto le mogli degli amici. Per riuscirci, la sua tecnica preferita cominciava con una telefonata, in cui lasciava intendere alla donna che il marito non fosse precisamente l’uomo che lei credeva. Dopodiché convocava lui nel suo ufficio e lo coinvolgeva in quella che, ai suoi occhi, era una spiritosa conversazione piccante: «Di’ un po’, ma godi ancora a letto con tua moglie? E quanto spesso lo fate? Su, a me puoi dirlo: te ne sarai pure scopata un’altra che ti piaceva di più. Racconta. A proposito, giusto oggi arrivano delle ragazze da Los Angeles. Perché non ti fermi, così andiamo di sopra e ce la spassiamo un po’? Non lo dico a nessuno, giuro…». E, per tutto il tempo, la moglie dell’amico ascoltava la conversazione dal telefono, in vivavoce.
D’altra parte Trump non era certo il primo presidente privo di scrupoli, e i precedenti andavano ben oltre Clinton. A renderlo davvero unico era una mancanza di tutt’altro tipo. Chi lo conosceva bene non si capacitava che fosse riuscito a vincere le elezioni, a tagliare il traguardo più ambizioso di tutti, senza avere il requisito più basilare per la carica: quelle che i neuroscienziati chiamano «funzioni esecutive». Aveva ottenuto la presidenza, ma il suo cervello non sembrava in grado di svolgere i compiti primari richiesti dal suo nuovo ruolo. Era del tutto incapace di pianificare, organizzare, concentrare o spostare l’attenzione a seconda delle priorità. Mai in vita sua era riuscito a modificare il proprio modo di essere o di fare per adeguarlo a quanto richiesto da un dato obiettivo. Al livello più elementare, non capiva il rapporto tra causa ed effetto.
Il presunto complotto con la Russia per aggiudicarsi la vittoria alle urne – un’accusa gravissima di cui lui rideva – era, secondo alcuni dei suoi amici, l’esempio paradigmatico della sua incapacità di collegare i puntini. Anche ammesso che non avesse davvero cospirato con i russi per truccare le elezioni, restava il fatto che si era prodigato in ogni modo per entrare nelle grazie di Vladimir Putin, lasciandosi dietro un’allarmante pista di parole e azioni il cui costo politico rischiava di rivelarsi enorme.
Poco dopo l’elezione, il suo amico Ailes cercò di farglielo capire. «Non puoi permetterti passi falsi sulla questione Russia» gli disse, in tono pressante. Anche fuori da Fox News, Ailes aveva mantenuto una capillare rete di intelligence e avvertì Trump dell’imminente divulgazione di informazioni potenzialmente devastanti sul suo conto. «È una faccenda seria, Donald, non puoi prenderla alla leggera.»
«Ci sta pensando Jared» rispose lui, spensierato. «È tutto sistemato.»
La Trump Tower, adiacente alla gioielleria Tiffany e ora quartier generale di una rivoluzione populista, d’un tratto cominciò a somigliare a una nave spaziale aliena – la Morte Nera – atterrata nel cuore di Manhattan. Sulla Quinta Strada si era riversata una processione di potenti, volonterosi e ambiziosi venuti a bussare alla porta del nuovo presidente, oltre a una folla di contestatori indignati e semplici curiosi, al punto che si era dovuto correre ai ripari, erigendo un labirintico percorso di transenne nel tentativo di arginare il caos.
Nel 2010 il Pre-Election Presidential Transition Act aveva istituito finanziamenti per permettere ai candidati alla presidenza di cominciare a esaminare le credenziali degli aspiranti alle cariche della sua amministrazione, in modo da preparare il passaggio delle consegne burocratiche tra i funzionari uscenti ed entranti che avrebbe avuto luogo il 20 gennaio. Durante la campagna, Chris Christie, il governatore del New Jersey e capo della squadra di transizione di Trump, aveva cercato in ogni modo di convincere il candidato che quei fondi non si potevano indirizzare ad altri scopi: la legge imponeva di spenderli per pianificare la transizione. Trump però era certo che quella transizione non lo avrebbe riguardato, e infine, esasperato, aveva vietato a Christie di tornare sull’argomento.
All’indomani dell’elezione, i suoi consiglieri più stretti – di colpo impazienti di partecipare a un processo del quale nessuno di loro fino a quel momento si era minimamente preoccupato – se la presero con Christie, accusandolo di aver mancato al suo dovere di preparare un piano di transizione. In fretta e furia, l’esiguo team che doveva occuparsene si trasferì dal centro di Washington alla Trump Tower.
Mai nella storia una squadra di transizione (e a ben guardare nemmeno lo staff di una campagna elettorale) aveva avuto un quartier generale tanto sfarzoso. Il che era intenzionale. Comunicava un classico messaggio in stile Trump: Non soltanto siamo outsider, ma siamo più potenti di voialtri insider. Siamo più ricchi, più famosi. E le nostre sedi fanno impallidire le vostre.
Per giunta il palazzo in questione era addirittura personalizzato: come noto, il nome di Trump campeggia sull’ingresso. La Tower ospitava il suo appartamento su tre piani, incalcolabilmente più vasto della residenza nella Casa Bianca, e l’ufficio privato che Trump occupava fin dagli anni Ottanta. Adesso, oltre all’ufficio della campagna elettorale, comprendeva anche quello della squadra di transizione: il tutto saldamente nelle sue mani, e fuori dal controllo di Washington e della «palude».
La reazione istintiva del nuovo presidente di fronte a quella vittoria improbabile, per non dire assurda, era stata l’esatto opposto dell’umiltà. Il suo desiderio era di sbattere il proprio successo in faccia a tutti. Sarebbero stati gli insider di Washington, o gli aspiranti tali, a dover andare da lui, non il contrario. In un colpo solo, la Trump Tower aveva rubato la scena alla Casa Bianca. Chiunque si presentasse lì per un appuntamento con il presidente neoeletto stava riconoscendo o accettando implicitamente un governo di outsider. Trump li costrinse tutti a subire quella che il suo staff, gongolando, chiamava «la gogna»: la camminata nel corridoio di transenne che portava all’ingresso, sotto gli occhi di una folla di reporter e dei curiosi accalcati sulla strada. Un atto d’ossequio, se non un’umiliazione vera e propria.
L’imponenza aliena della Trump Tower contribuiva a occultare il fatto che ben pochi nei già sparuti ranghi della cerchia ristretta di Trump, ora chiamati a mettere insieme un governo dalla sera alla mattina, avevano la benché minima esperienza in materia. Nessuno di loro aveva mai lavorato in politica, in ambito burocratico, organizzativo o legislativo.
La politica è basata sulle relazioni, dipende in tutto e per tutto dalle conoscenze. Ma, diversamente dagli altri presidenti – che pure potevano aver sofferto di carenze gestionali –, al momento della nomina Trump era un neofita al cento per cento, perciò gli mancavano i contatti politici e governativi che altri avevano accumulato nel corso di un’intera carriera. Non aveva al suo servizio nemmeno un’organizzazione degna di questo nome. Per gran parte dei diciotto mesi di campagna, la sua «organizzazione» era limitata a tre persone: il direttore, Corey Lewandowski (almeno fino al suo licenziamento, un mese prima della convention repubblicana nazionale), la sua portavoce-segretaria-valletta e prima assunta per la campagna, la ventiseienne Hope Hicks, e lui stesso. Lo strettissimo indispensabile e le decisioni di pancia: erano questi gli strumenti principali di Trump. Aveva scoperto che più gente avevi tra i piedi, più diventava difficile invertire la rotta.
La squadra professionale – chiamiamola così, anche se non comprendeva professionisti di sorta – era stata reclutata soltanto in agosto, nell’estremo tentativo di salvare almeno la faccia. Ma con loro Trump lavorava solo da qualche mese.
Preparandosi a passare dal Comitato nazionale repubblicano alla Casa Bianca, Reince Priebus notò, con una certa preoccupazione, che Trump era capacissimo di offrire su due piedi, e a gente incontrata per la prima volta, incarichi della cui importanza non sembrava nemmeno consapevole.
Ailes, veterano delle amministrazioni Nixon, Reagan e Bush senior, era sempre più angosciato per l’incapacità del presidente neoeletto a concentrarsi con la dovuta tempestività sulla creazione di una squadra di governo in grado di servirlo e proteggerlo. Cercò di spiegargli la feroce opposizione che lo avrebbe accolto fin dal primo giorno dell’insediamento.
«Come capo di gabinetto ti serve uno con le palle, e uno con le palle che conosca Washington come le sue tasche» gli suggerì, poco dopo l’elezione. «Lo so, pensi di esserlo già tu, ma a Washington è diverso.» Gli fece il nome di Boehner. John Boehner era stato lo speaker della Camera dei Rappresentanti fino alle sue dimissioni, nel 2015, a seguito delle pressioni ricevute dal Tea Party.
«E chi sarebbe?» ribatté lui.
Conoscendo il suo disprezzo per le competenze altrui, tutti nella sua cerchia di miliardari cercarono di fargli capire l’importanza delle persone – molte – di cui avrebbe avuto bisogno alla Casa Bianca, e la necessità di circondarsi di gente che sapeva come muoversi a Washington. Le persone contano più dei programmi, gli ripetevano. Sono i tuoi programmi.
«Frank Sinatra si sbagliava» disse David Bossie, uno dei suoi consiglieri politici di più lunga data. «Farcela a New York non significa necessariamente che puoi farcela a Washington.»
Giuristi e politologi hanno versato fiumi di inchiostro sulla natura specifica del ruolo di capo di gabinetto. Si tratta di una carica determinante quanto quella del presidente stesso per il funzionamento della Casa Bianca e dell’esecutivo, con i suoi quattro milioni di dipendenti, compresi gli 1,3 milioni nei servizi di sicurezza e militari.
Nel tentativo di illustrarne l’importanza, il ruolo di capo di gabinetto è stato equiparato a un vicepresidente, a un direttore operativo, persino a un primo ministro. Tra i colossi della categoria bisogna annoverare H.R. Haldeman e Alexander Haig, sotto Richard Nixon; Donald Rumsfeld e Dick Cheney, sotto Gerald Ford; Hamilton Jordan, sotto Jimmy Carter; James Baker, sotto Ronald Reagan; di nuovo James Baker, sotto George H.W. Bush; Leon Panetta, Erskine Bowles e John Podesta, sotto Bill Clinton; Andrew Card, sotto George W. Bush; e Rahm Emanuel e Bill Daley, sotto Barack Obama. Ma su una cosa tutti gli studiosi sono unanimi: un capo di gabinetto forte ed esperto di Washington e del governo federale è senz’altro preferibile a uno debole e ignaro della capitale.
Donald Trump sapeva poco o niente della storia di questa funzione o degli studi in merito. Così colmò la lacuna a modo suo, basandosi sulla propria esperienza personale nel management. Per decenni si era affidato a collaboratori di lunga data, agli amici e ai membri della famiglia. Per quanto gli piacesse spacciarla per un impero, di fatto la sua impresa era costituita da una quantità di holding diverse, di lusso ma disparate, la cui missione aziendale consisteva più nell’assecondare i capricci del titolare e rappresentante del marchio che nel rispettare i requisiti di redditività o altri parametri di rendimento.
I suoi figli, Don Jr. ed Eric – che a loro insaputa la cerchia interna di Trump aveva ribattezzato Uday e Qusay, come i figli di Saddam Hussein –, suggerirono di istituire alla Casa Bianca due strutture parallele, una dedicata alla visione di più ampio respiro, alle apparizioni personali e al talento di venditore del padre, e l’altra impegnata nell’ordinaria amministrazione. A capo della seconda struttura i due vedevano se stessi.
Per il ruolo di capo di gabinetto, in prima battuta Trump aveva pensato all’amico Tom Barrack, membro del suo informale gabinetto di magnati immobiliari di cui facevano parte anche Steven Roth e Richard LeFrak.
Nipote di immigrati libanesi, Barrack è l’investitore immobiliare noto per l’acume e la fissa per le celebrità oggi proprietario dell’eccentrica reggia di Michael Jackson, il Neverland Ranch. Insieme a Jeffrey Epstein – il finanziere newyorkese destinato a campeggiare sui tabloid in seguito alle accuse di aver avuto rapporti sessuali con minorenni e ai tredici mesi scontati in un carcere di Palm Beach per favoreggiamento della prostituzione nel 2008 –, Trump e Barrack erano stati i tre moschettieri nella vita notturna degli anni Ottanta e Novanta.
Fondatore e amministratore delegato della società di investimento Colony Capital, Barrack era diventato miliardario con le speculazioni e «fondi avvoltoio» specializzati in investimenti a rischio nelle proprietà immobiliari di mezzo mondo, comprese quelle dell’amico Donald Trump, per salvarle dalla bancarotta. In tempi più recenti aveva aiutato anche il genero di Trump, Jared Kushner.
Barrack aveva seguito con notevole divertimento l’eccentrica campagna presidenziale di Trump e aveva negoziato l’accordo per insediare Paul Manafort al posto di Corey Lewandowski quando quest’ultimo era entrato in rotta di collisione con Kushner. Poi, sbalordito come tutti dai successi che quell’improbabile campagna continuava a mietere, aveva presentato il futuro presidente alla convention repubblicana di luglio, dedicandogli un discorso caloroso e personale (in contrasto con i suoi toni di solito cupi e aggressivi).
Per Trump la prospettiva di reclutare alla Casa Bianca il suo amico Tom – un genio organizzativo e pienamente consapevole del totale disinteresse di Donald per il trantran della gestione quotidiana – sarebbe stata un sogno diventato realtà. Era stata quella la sua reazione – di comodo e istantanea – alla circostanza imprevista di trovarsi catapultato nel ruolo di presidente: l’avrebbe affrontata con l’aiuto di un mentore professionale, confidente, investitore e amico, un uomo che i conoscenti di entrambi definiscono «uno dei migliori ammaestratori di Donald». Nella sua cerchia la chiamavano «la strategia dei due amigos». (Il terzo, Epstein, era rimasto legato a Barrack, ma dopo lo scandalo era stato espunto dalla biografia di Trump.)
Barrack era una delle poche persone di cui Trump, che per riflesso automatico tende a pensare male di tutti, riconoscesse le competenze e, nella sua visione, non soltanto sarebbe stato in grado di far funzionare a dovere l’intero ingranaggio, ma avrebbe permesso a lui di essere se stesso. Trump era più che certo che dove non fosse arrivato lui, sarebbe senz’altro riuscito il suo amico Tom. Barrack avrebbe gestito l’impresa e lui avrebbe venduto il prodotto: rendere l’America di nuovo grande. #MAGA, Make America Great Again.
Per Barrack, come per tutti intorno a Trump, l’esito elettorale fu l’equivalente di un’impossibile vincita alla lotteria: quel balordo del suo amico era diventato presidente. Ma alla fine, anche dopo innumerevoli telefonate imploranti di Donald, Tom dovette declinare l’offerta. «Il fatto è che sono troppo ricco» obiettò. Non sarebbe mai riuscito a districare il groviglio delle sue società e holding – compresi grossi investimenti in Medio Oriente – in modo da soddisfare i cani da guardia della commissione etica. Trump sembrava infischiarsene del conflitto di interessi, oppure aveva rimosso il problema, ma per se stesso Barrack non vedeva altro che grattacapi e costi. E poi, ora al suo quarto matrimonio, non gli andava per niente che la sua pittoresca vita privata – spesso, nel corso degli anni, vissuta in coppia con Trump – diventasse di dominio pubblico.
La scelta di ripiego di Trump fu il genero. Durante la campagna, dopo mesi di scompiglio e stravaganze (se non ai suoi occhi, quantomeno a quelli degli altri, compresa la sua famiglia), Kushner era sceso in campo diventando a tutti gli effetti la sua ombra, sempre a un passo da lui, muto se non interpellato, e in quel caso pronto a offrire pareri invariabilmente rassicuranti e lusinghieri. Corey Lewandowski lo chiamava «il maggiordomo». Trump si era convinto che il genero fosse dotato di un’incredibile sagacia, se non altro perché aveva capito che non bisognava intralciarlo.
In aperta violazione delle leggi e del buon gusto, e per l’incredulità generale, il nuovo presidente sembrava determinato a circondarsi di parenti. L’intera famiglia Trump – esclusa la moglie, che curiosamente avrebbe continuato a vivere a New York – stava traslocando alla Casa Bianca, e tutti con un incarico equivalente a quello rivestito nella Trump Organization. E senza che nessuno dei consiglieri sollevasse obiezioni.
Infine fu la diva della destra e sostenitrice di Trump, Ann Coulter, a prenderlo da parte. «Forse non te l’ha detto nessuno, ma guarda che non si fa: non puoi assumere i tuoi figli.»
Trump continuò ad affermare di avere pieno diritto al supporto dei suoi cari, lasciando al tempo stesso intendere di essere inerme di fronte alle loro pressioni. La mia, diceva, è una famiglia un po’ particolare. Il suo staff comprendeva i conflitti intrinsechi e le possibili complicazioni legali di avere il genero del presidente come capo di gabinetto, ma soprattutto temeva che la propensione di Trump a privilegiare i suoi familiari diventasse ancora più evidente. Dopo molte pressioni, il presidente si rassegnò a non dare l’incarico al genero. Quantomeno non in via ufficiale.
Fuori gioco Barrack e Kushner, Trump decise che l’incarico dovesse andare a Chris Christie, il governatore del New Jersey che, come abbiamo detto, insieme a Rudolph Giuliani, rappresentava la totalità dei suoi amici con una reale esperienza politica.
Come è accaduto spesso agli alleati di Trump, Christie era più volte entrato e uscito dalle grazie del tycoon. Nelle ultime settimane di campagna Trump aveva osservato con disprezzo prima il progressivo allontanamento di Christie da un’impresa destinata alla sconfitta, e poi lo slancio con cui, a scrutinio terminato, il governatore si era affrettato a saltare di nuovo sul carro dei vincitori.
La loro amicizia risaliva ai tempi in cui Trump aveva tentato – invano – di imporsi come pezzo grosso dei casinò di Atlantic City. (Nutriva da tempo un rispetto reverenziale e un acceso senso di rivalità nei confronti del magnate del gioco di Las Vegas, Steve Wynn, che in seguito avrebbe nominato direttore finanziario del Comitato nazionale repubblicano.) Trump lo aveva sostenuto nella sua scalata alla politica del New Jersey, ne ammirava lo stile diretto e, nel 2012 e 2013, quando Christie preparava la propria candidatura alle presidenziali e lui, nel declino del suo reality televisivo, The Apprentice, si guardava intorno in cerca di nuove opportunità, aveva persino accarezzato l’ipotesi che l’amico lo prendesse con sé in veste di vicepresidente.
All’inizio della campagna aveva dichiarato che l’unico motivo per cui aveva accettato di candidarsi in concorrenza con Christie era stato il Bridgegate (lo scandalo scoppiato quando i collaboratori del governatore avevano fatto chiudere al traffico le corsie del George Washington Bridge per intralciare il sindaco di una cittadina vicina e suo oppositore, un episodio che in privato Trump giustificava con la tesi che «nel New Jersey è così: si gioca duro»). Nel febbraio del 2016, quando, dopo il ritiro dalla gara elettorale, si era schierato con Trump, Christie era stato coperto di ridicolo per il sostegno offerto all’amico (ma era convinto che Trump gli avrebbe riservato la carica di vicepresidente).
Per Trump era stato un forte dispiacere doversi rimangiare la parola. Ma l’avversione dell’establishment repubblicano nei confronti di Christie era quasi pari a quella nutrita per Trump. A mo’ di compensazione gli aveva offerto la direzione della squadra di transizione, con l’intesa implicita di un incarico cruciale nell’amministrazione: capo di gabinetto o attorney general, il ministro della Giustizia.
Ma c’era un problema. Nel 2005 era stato proprio Christie, al tempo procuratore federale nel New Jersey, a mandare in galera il padre di Jared, Charles Kushner. Indagato per frode fiscale, Kushner aveva ordito un piano con una prostituta per ricattare il cognato, citato come testimone dall’accusa.
In varie ricostruzioni, spesso attribuibili a Christie stesso, nella vicenda della carriera abortita del governatore Jared fa la parte del boia vendicativo. È un caso da manuale di vendetta servita fredda: a distanza di anni, il figlio di un uomo perseguitato (o, nella fattispecie, condannato con regolare processo) sfrutta il potere acquisito contro l’artefice di quell’oltraggio alla sua famiglia. Altri testimoni offrono una versione più sottile e, per molti aspetti, più cupa. Jared Kushner, come i generi di tutto il mondo, cammina in punta di piedi intorno al suocero, facendo il possibile per rendersi invisibile: da una parte l’uomo più anziano, ingombrante e prevaricatore, dall’altra quello più giovane, esile e malleabile. In questa versione della storia, non è il deferente Jared a sferrare a Christie il colpo di grazia: con una torsione forse persino più soddisfacente in termini di fantasia di vendetta, è lo stesso Charlie Kushner a esigere la resa dei conti, per mezzo della nuora, l’unica nell’entourage di Trump a esercitare una vera influenza. Ivanka avrebbe riferito al padre che la nomina di Christie a capo di gabinetto o in qualsiasi altra posizione di vertice avrebbe creato enormi problemi a lei e alla sua famiglia acquisita, e che anzi sarebbe stato meglio sbarazzarsi del tutto di lui.
Il peso massimo dell’organizzazione era Bannon. Trump, che sembrava incantato dal suo eloquio – un misto di invettive, divagazioni storiche, rivelazioni sui media, motti di destra e banalità motivazionali –, cominciò a sottoporne il nome come capo di gabinetto al vaglio della sua cerchia di miliardari, che reagì al suggerimento con scherno e scandalo. Il che non impedì a Trump di sostenere che molti fossero comunque a favore dell’ipotesi.
Nelle settimane precedenti l’elezione, Trump aveva bollato Bannon come adulatore per l’insistenza con cui preconizzava una vittoria certa. Adesso invece gli attribuiva una preveggenza quasi mistica. E Bannon, privo di qualsiasi esperienza politica, fu l’unico insider in grado di offrire una visione coerente del populismo di Trump: il «trumpismo».
Le forze anti-Bannon, che comprendevano quasi ogni repubblicano non appartenente al Tea Party, non impiegarono molto a reagire. Murdoch, nemico sempre più aspro di Bannon, disse a Trump che sceglierlo come capo di gabinetto era una mossa arrischiata. Joe Scarborough, ex membro del Congresso e co-conduttore della trasmissione Morning Joe della MSNBC, uno degli show prediletti di Trump, lo avvertì in privato che la nomina avrebbe scatenato «una rivolta» a Washington. Poi, avviando un tema ricorrente, denigrò pubblicamente Bannon nel suo show.
In sfavore di Bannon come candidato all’incarico non giocava soltanto il suo estremismo politico. È un uomo profondamente disorganizzato, e quasi al limite dell’autismo per l’ossessione con cui si concentra su un dettaglio a discapito di tutto il resto. Potremmo definirlo il peggior dirigente mai vissuto? Sì, possiamo. Al telefono non rispondeva mai e nelle email si limitava a un’unica parola, in parte per le sue paranoie sulla posta elettronica, ma più che altro per l’ermetismo tipico dei maniaci del controllo. Teneva a distanza assistenti e collaboratori. Con lui era impossibile fissare un appuntamento: l’unica speranza era presentarsi di persona e incrociare le dita. Per colmo dell’ironia, la sua prima assistente, Alexandra Preate, responsabile della comunicazione e della raccolta fondi per l’area conservatrice, era confusionaria quanto lui. Con tre matrimoni falliti alle spalle, Bannon viveva da scapolo a Capitol Hill, presso la cosiddetta «Breitbart Embassy», sede anche degli uffici di Breitbart News e ora centro nevralgico della sua vita sregolata. Nessuna persona sana di mente avrebbe mai assunto Steven Bannon per un incarico il cui primo requisito erano le capacità organizzative.
Non restava che Reince Priebus, l’unico plausibile nella rosa dei candidati.
Paul Ryan, lo speaker della Camera dei Rappresentanti, e Mitch McConnell, leader della maggioranza del Senato, cominciarono subito a premere per la sua nomina. Se proprio dovevano rassegnarsi a trattare con un alieno come Donald Trump, volevano almeno un intermediario che parlasse la loro lingua.
Il quarantacinquenne Priebus non era un politico, un tecnico o uno stratega. Nell’ingranaggio governativo il suo era uno dei mestieri più antichi: la raccolta fondi.
Originario di una famiglia operaia del New Jersey e cresciuto nel Wisconsin, Priebus si era candidato per la prima volta a una carica elettiva a trentadue anni, presentandosi – senza ottenerlo – per un seggio al Senato dello Stato del Wisconsin. In seguito era diventato presidente del partito per il suo Stato e poi consulente legale del Comitato nazionale repubblicano finché, nel 2011, ne aveva preso in mano le redini. La sua credibilità politica derivava dalla benevolenza del Tea Party nel Wisconsin e dal rapporto con il governatore dello Stato, Scott Walker, stella nascente del partito (e, per brevissimo tempo, candidato di punta nel 2016).
Data la granitica opposizione a Trump espressa da alcuni settori del partito, e la convinzione pressoché unanime dei repubblicani che la sua campagna non soltanto sarebbe precipitata nel baratro di una sconfitta ignominiosa, ma avrebbe trascinato anche il partito con sé, quando il candidato strappò la nomination alla convention Priebus si ritrovò a subire enormi pressioni per ridimensionare le risorse del Comitato convogliate nel candidato ufficiale e persino per abbandonarlo del tutto al suo destino.
Convinto lui stesso che l’impresa di Trump fosse disperata, Priebus fece comunque del suo meglio per coprirsi le spalle. Il fatto di non averle voltate del tutto a Trump gli tornò utile, tramutandolo in una sorta di eroe (mentre, in caso di sconfitta, sarebbe stato il capro espiatorio, almeno nell’opinione di Kellyanne Conway). Date le circostanze, diventò l’unico possibile aspirante all’incarico di capo di gabinetto.
Il suo ingresso nella cerchia di Trump gli causò comunque una buona dose di incertezza e sconcerto. Il suo primo, lungo colloquio con il presidente neoeletto fu un’esperienza surreale. Trump si era esibito in un monologo inarrestabile, ripetendosi di continuo.
«Adesso ti spiego come funziona» lo aveva avvisato uno stretto collaboratore del presidente. «Un’ora di incontro a quattr’occhi con lui significa quarantacinque minuti di aneddoti, sempre gli stessi. Perciò, quando ti presenti, devi avere un unico obiettivo ben preciso e infilarlo nella conversazione ogni volta che lui si ferma a riprendere fiato.»
La nomina di Priebus alla carica di capo di gabinetto, annunciata a metà novembre, lo rese un pari livello di Bannon. Trump era ricaduto nell’inveterata abitudine di non permettere a nessuno di esercitare un vero potere. Persino sulla poltrona di vertice, Priebus sarebbe stato una figura debole, coerente con la tipologia di quasi tutti i luogotenenti di Trump nel corso degli anni. La scelta si rivelò vantaggiosa anche per gli sconfitti. Tom Barrack non avrebbe avuto difficoltà ad aggirare Priebus, continuando a consultarsi direttamente con Trump. L’autorevolezza di Jared Kushner come genero e, di fatto, primo consigliere restava indiscussa. E Steve Bannon, che rispondeva a Trump in persona, si confermava portavoce supremo del trumpismo alla Casa Bianca.
In altre parole, ci sarebbe stato un unico capo di gabinetto, il meno influente della combriccola e con un potere soltanto nominale, mentre gli altri, più importanti, avrebbero garantito il proseguimento del caos e l’indiscussa indipendenza di Trump.
Jim Baker, capo di gabinetto sia di Ronald Reagan sia di George H.W. Bush e modello quasi universale per la gestione della West Wing, consigliò a Priebus di rifiutare l’incarico.
Nessuna tappa della sua metamorfosi – da candidato farsa a incantatore di una fascia demografica frustrata a dirompente neopresidente – ispirò a Trump riflessioni approfondite su se stesso. Appena ripresosi dallo shock della vittoria elettorale, si limitò a riscriverla come un esito inevitabile.
Un esempio del suo revisionismo, e della sua nuova percezione di sé come capo supremo degli Stati Uniti, riguardava il momento in cui in campagna elettorale aveva toccato il fondo: il già citato scandalo Billy Bush.
La sua spiegazione, in una conversazione ufficiosa con un comprensivo conduttore televisivo, fu: «Non ero davvero io».
Il conduttore ribatté che in effetti non era giusto che il mondo lo mettesse alla gogna per quell’unica gaffe.
«No» lo corresse Trump. «Intendevo proprio che non sono stato io a dire quelle cose. Ho parlato con esperti del settore, e loro mi hanno spiegato quant’è facile falsificare le registrazioni, inserendo la voce di un’altra persona.»
Aveva vinto, perciò ora si aspettava di esercitare un fascino irresistibile e ispirare rispetto reverenziale e benevolenza. Ai suoi occhi, la situazione doveva rispondere a una logica binaria: dall’essergli ostili i media sarebbero passati a venerarlo.
Invece veniva ancora trattato con orrore ed esecrazione da una stampa che in passato, per consuetudine e protocollo, aveva riservato una deferenza assoluta a ogni nuovo presidente, chiunque fosse. (Aver vinto malgrado i tre milioni di voti in meno presi rispetto alla sua rivale era ancora un tasto dolente, quindi un argomento da evitare.) Trump non riusciva proprio a capacitarsi che le stesse persone – cioè i media – che lo avevano criticato aspramente per aver espresso l’intenzione di contestare l’esito elettorale adesso accusassero lui di non essere il presidente legittimo.
Trump non è un politico capace di indagare le ragioni profonde dell’altrui stima o riprovazione: è un venditore, a lui interessa arrivare al sodo. «Ho vinto. Sono il vincitore. Non sono io il perdente» ripeteva, incredulo, come un mantra.
Bannon lo descrisse come una «macchina semplice». In modalità «on» partivano le lusinghe, in quella «off» gli insulti. La sua adulazione era sperticata, servile, iperbolica, e del tutto scollegata dalla realtà: il tal dei tali era il migliore in assoluto, il più incredibile, il non plus ultra, un genio. Allo stesso modo, le contestazioni erano rancorose, aspre, velenose, il preludio all’ostracismo senza appello.
Era l’essenza particolare della sua natura di uomo d’affari. La convinzione strategica di Trump era che non ci fossero limiti alla piaggeria con cui sedurre un potenziale acquirente. Ma se poi il contratto andava in fumo, il suo disprezzo e, nel caso, le querele con cui poteva investirlo erano incontenibili. Dopotutto, se non avevano fatto effetto le sviolinate, probabilmente non lo avrebbero fatto nemmeno le calunnie. Bannon era convinto che fosse facile spegnere e accendere l’interruttore, ma forse si sbagliava.
Malgrado il braccio di ferro che Bannon lo stava incitando a ingaggiare – con i media, con i democratici, con l’establishment della capitale –, Trump restava comunque vulnerabile al corteggiamento. In un certo senso non desiderava altro.
Jeff Bezos, fondatore di Amazon e proprietario del «Washington Post», diventato una delle «bestie nere» mediatiche di Trump, si impegnò ad aprire un canale di comunicazione non soltanto con il neopresidente ma anche con sua figlia Ivanka. Durante la campagna, Trump aveva sentenziato che Amazon era «un assassino a piede libero, dal punto di vista fiscale» e aveva minacciato che, in caso di una sua vittoria, «se la vedranno proprio brutta». Adesso, di punto in bianco, elogiava Bezos come «un genio». In un colloquio alla Trump Tower, l’imprenditore Elon Musk gli propose di coinvolgere l’amministrazione nel suo progetto per colonizzare Marte e Trump aderì di slancio. Stephen Schwarzman, capo del Blackstone Group – nonché amico di Kushner –, si offrì di organizzare a Trump un consiglio per gli affari, e lui abbracciò subito il progetto. Anna Wintour, direttrice di «Vogue» e regina dell’industria della moda, aveva sperato di essere nominata ambasciatrice in Gran Bretagna sotto Obama, e quando non era successo, delusa, si era schierata con Hillary Clinton. Ora si presentò alla Trump Tower (ma rifiutando con alterigia di sottoporsi alla gogna) e, con notevole faccia tosta, si propose al nuovo presidente per lo stesso incarico. Per parte sua, Trump non era affatto avverso all’idea. («Per fortuna tra loro non è scattata l’alchimia» commentò Bannon.)
Il 14 dicembre, a dispetto delle martellanti critiche espresse da Trump contro l’industria tecnologica nel corso di tutta la sua campagna, una delegazione di vertice della Silicon Valley arrivò alla Trump Tower per incontrarlo. Più tardi, quel pomeriggio, Trump telefonò a Rupert Murdoch, che gli chiese com’era andato l’incontro.
«Oh, alla grande» rispose lui. «Davvero benissimo. Quei ragazzi hanno proprio bisogno di me. Obama non li ha favoriti granché: troppa regolamentazione. E adesso ho veramente la possibilità di aiutarli.»
«Donald» obiettò Murdoch, «per otto anni quei “ragazzi” hanno fatto il bello e il cattivo tempo con Obama. In pratica erano loro a gestire l’amministrazione. Non hanno alcun bisogno del tuo aiuto.»
«Prendi per esempio la questione dei visti H-1B. Di quelli non possono proprio fare a meno.»
Murdoch gli fece notare che sarebbe stata dura conciliare un approccio liberal all’estensione dei permessi di lavoro con le sue promesse elettorali in merito all’immigrazione.
La cosa, tuttavia, non sembrò preoccuparlo. «Un modo si trova» rispose.
«Che razza d’imbecille» commentò Murdoch tra sé, con un’alzata di spalle, dopo aver riagganciato.
Dieci giorni prima della cerimonia inaugurale che avrebbe insediato Trump come quarantacinquesimo presidente, un gruppo di giovani membri del suo staff – gli uomini in giacca e cravatta, le donne nel look prediletto del capo: stivali alti col tacco, minigonna e capelli lunghi – stava assistendo al discorso di commiato di Barack Obama trasmesso via streaming da un computer di uno degli uffici della Trump Tower.
«Trump ha detto di non aver mai ascoltato fino in fondo un discorso di Obama» commentò uno dei ragazzi, con l’aria di saperla lunga.
«Troppo noiosi» aggiunse un altro.
Mentre Obama diceva addio alla nazione, in fondo al corridoio erano in corso i preparativi per la prima conferenza stampa post-elezione del neopresidente, prevista per l’indomani. Il piano era di impegnarsi a dimostrare che i suoi conflitti di interessi sarebbero stati efficacemente risolti.
Fino ad allora, era convinzione di Trump che la nazione l’avesse scelto non malgrado, ma proprio grazie a quei conflitti – che dopotutto attestavano la sua sagacia, le sue conoscenze e l’esperienza negli affari, e la forza del suo marchio – e che anche volendo sarebbe stato comunque impossibile districarsene. Anzi, parlando a suo nome con i reporter e chiunque le prestasse ascolto, Kellyanne Conway ripeteva un patetico discorsetto su quanto già Trump avesse sacrificato.
Dopo aver strombazzato l’intenzione di infischiarsene delle leggi sul conflitto di interessi, con un piccolo coup de théâtre Trump decise di assumere un atteggiamento più accomodante. In piedi nella lobby della Trump Tower, accanto a un tavolo ingombro di oggetti di scena – faldoni di documenti e fascicoli legali –, avrebbe descritto lo sforzo immane per compiere l’impresa impossibile, a riprova dell’abnegazione con cui avrebbe trascurato i propri affari per concentrarsi esclusivamente sul bene della nazione.
Ma la recita si rivelò superflua.
Alcuni esponenti del partito democratico avevano assunto la Fusion GPS, una società di investigazioni fondata da ex giornalisti che forniva informazioni a clienti privati. Nel giugno del 2016, la Fusion aveva reclutato Christopher Steele, un’ex spia inglese, per aiutarla a indagare sulla relazione con Vladimir Putin, di cui Trump si vantava tanto, e sulla natura del suo rapporto con il Cremlino. Avvalendosi di fonti russe, molte delle quali collegate all’intelligence del proprio Paese, Steele preparò un rapporto esplosivo – ribattezzato «il dossier» – nel quale si ipotizzava che Donald Trump fosse assoggettato a un ricatto del governo di Putin. A settembre Steele aveva presentato l’esito delle sue indagini al «New York Times», al «Washington Post», a Yahoo! News, al «New Yorker» e alla CNN. In mancanza di conferme indipendenti, e poiché si trattava di informazioni di origine incerta e comunque relative a un candidato con scarsissime probabilità di vittoria, nessuna redazione si offrì di pubblicarle.
Ma il giorno prima della conferenza stampa indetta da Trump, la CNN divulgò alcuni dettagli dell’indagine e, a stretto giro di posta, BuzzFeed pubblicò per intero il dossier: una ridda di comportamenti inammissibili, elencati punto per punto.
Alla vigilia dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, i media, così atipicamente unanimi quando si trattava di lui, stavano sostenendo l’ipotesi di una cospirazione di proporzioni colossali. La teoria, di colpo presentata come poco meno che certa, era che i russi avessero incastrato Donald Trump durante un suo viaggio a Mosca, ordendo un rudimentale ricatto in cui erano coinvolti prostitute e filmati di atti sessuali al limite della perversione (con tanto di «piogge dorate»). La conclusione implicita era che, vedendosi ormai compromesso, Trump avesse cospirato con i russi per truccare le elezioni e diventare il burattino di Putin alla Casa Bianca.
Se la tesi era vera, la nazione si trovava sulla soglia di uno dei momenti più dirompenti nella storia della democrazia, delle relazioni internazionali e del giornalismo.
Se invece era falsa (difficile immaginare una via di mezzo), in uno sviluppo altrettanto epocale per la storia della democrazia, avrebbe confermato la tesi di Trump (e di Bannon) che i media, accecati dall’avversione sia ideologica sia personale per il leader democraticamente eletto, fossero disposti a usare qualsiasi mezzo nel tentativo di abbatterlo. In un articolo pubblicato dal «Weekly Standard», un periodico conservatore ma anti-Trump, Mark Hemingway illustrò l’inedito paradosso dei due narratori inaffidabili che ormai dominavano la vita pubblica americana: da una parte il presidente neoeletto, che sparava giudizi appellandosi a informazioni lacunose o semplicemente prive di fondamento, e dall’altra i media, «che hanno deciso a priori che ogni azione di Trump sia per definizione incostituzionale o un abuso di potere».
Il pomeriggio dell’11 gennaio, le due percezioni opposte si trovarono faccia a faccia nella lobby della Trump Tower: l’anticristo politico, protagonista di oscuri per quanto buffoneschi scandali, contro una folla di reporter aspiranti rivoluzionari, ebbri di virtù, certezze e teorie complottiste. Ciascuno era per l’altro il propugnatore di una versione radicalmente falsa della realtà.
Non a caso la descrizione dei protagonisti ricorda i personaggi dei fumetti: la conferenza stampa si svolse proprio in quei termini.
Il primo encomio di Trump a se stesso: «Sarò il più grande produttore di posti di lavoro che Dio abbia mai creato…».
Un assaggio delle problematiche che si trovava ad affrontare: «I veterani con un piccolo tumore non riescono a farsi visitare da un medico finché il cancro non diventa terminale…».
Poi l’incredulità: «Anni fa sono stato in Russia, per il concorso di Miss Universo, e me la sono cavata piuttosto bene. Dico sempre a tutti che bisogna stare attenti, perché in situazioni come quella hai sempre una telecamera puntata addosso, e quello che fai rischia di finire in televisione. E non soltanto in Russia, in tutto il mondo. E dopo come fai a dimostrare il contrario? Per inciso, io sono parecchio germofobico. Dico sul serio».
Poi la negazione delle accuse: «Non ho niente a che fare con la Russia, mai stipulato affari da quelle parti o prestato un centesimo, perché ne siamo stati alla larga. A proposito, nel fine settimana ho ricevuto un’offerta di due miliardi di dollari per un affare a Dubai e ho declinato. Non ero tenuto a farlo perché, come sapete, non c’è in essere alcun conflitto di interessi. Me l’hanno confermato appena tre mesi fa, ma è comunque un bel sollievo. Ho preferito rifiutare perché qualcuno avrebbe potuto pensare male, però di fatto non ci sarebbe stato alcun impedimento. Per me non sarebbe un problema gestire contemporaneamente la Trump Organization, una grande, grande azienda, e il Paese. È solo che non voglio».
Poi l’attacco diretto alla CNN, la sua nemesi: «La vostra azienda è terribile… una vera sciagura… Zitti! Fate silenzio… Non siate maleducati… non siate… No, non risponderò alle vostre domande… Non vi ascolto nemmeno… Voi mettete in giro solo fake news…».
E la sintesi: «Tanto per cominciare, quel dossier non bisognava proprio pubblicarlo, perché non vale neanche la carta su cui è stampato. Non sarebbe mai, mai dovuto accadere. Gli hacker cinesi si sono insinuati in ventidue milioni di account online. Questo perché non abbiamo difese, perché siamo governati da incompetenti. La Russia avrà più rispetto per il nostro Paese quando ci sarò io al timone. E non soltanto la Russia, ma anche la Cina, che ci ha completamente sfruttati. La Russia, la Cina, il Giappone, il Messico, tutti i Paesi del mondo ci rispetteranno molto, molto di più di quanto abbiano fatto sotto le amministrazioni precedenti…».
Non solo aveva dato libero sfogo ai suoi rancori più profondi e aspri, ma aveva anche dimostrato che nemmeno da presidente intendeva darsi un contegno, continuando imperterrito a sparare invettive, accuse campate per aria e insulti.
«Secondo me è stato grandioso» disse Kellyanne Conway dopo la conferenza stampa. «Ma i media non lo diranno. Non lo faranno mai.»