19
Mika chi?
I media avevano messo a frutto le potenzialità di Donald Trump, ma pochi erano riusciti a farlo in un modo più personale e diretto di Joe Scarborough e Mika Brzezinski. Il talk show del mattino che conducevano sulla MSNBC era ormai il racconto, in stile soap opera o forse alla Oprah, del loro rapporto con Trump: quanto li avesse delusi, come fosse cambiato il loro giudizio sul presidente e quanto spesso si coprisse di ridicolo. Il legame che un tempo li univa, basato sulla reciproca notorietà e sulla comune concezione che avevano della politica (Scarborough, ex membro del Congresso, sembrava pensare che se Trump era diventato presidente, poteva benissimo diventarlo anche lui), aveva contraddistinto il programma durante la campagna. Ormai però la frattura era un elemento fisso delle notizie di giornata. Scarborough e la Brzezinski salivano in cattedra a dare lezioni al presidente, si facevano portavoce delle angosce dei suoi amici e familiari, lo rimproveravano e si dicevano preoccupati per lui: stava seguendo consigli sbagliati (Bannon) e, come se ciò non bastasse, la sua lucidità mentale sembrava offuscata. Rivendicavano, inoltre, di rappresentare la ragionevole alternativa di centro-destra al presidente e, anzi, si ritenevano un barometro abbastanza preciso degli sforzi e delle difficoltà che il centro-destra incontrava nel dover interagire con lui.
Trump, che credeva di essere stato usato e gettato via dai due conduttori, dichiarò che avrebbe smesso di seguire il programma, anche se poi ogni mattina se lo faceva raccontare da Hope Hicks.
Morning Joe, la trasmissione di Scarborough e della Brzezinski, incarnava l’esempio perfetto dell’esagerato investimento su Trump da parte dei media. Il presidente era la preda contro cui si scagliavano i giornalisti di tutti gli organi di informazione, concentrando su di lui, con un’ossessione quasi estatica, le loro emozioni, il proprio ego, la joie de guerre, il protagonismo e le chance di fare carriera. D’altro canto, però, nella prospettiva di Trump erano i media a fare la parte della preda, e lui si serviva di loro allo stesso identico scopo.
La sensazione che gli altri traggano un ingiusto vantaggio sfruttando la sua persona, dopotutto, è uno dei tarli del presidente, da sempre. Probabilmente è un retaggio della durezza e delle pressoché nulle dimostrazioni di affetto di suo padre, o forse deriva dalla consapevolezza di essere ricco (e dalle insicurezze che ne conseguono) o da quella – ben radicata in ogni negoziatore che si rispetti – che non esiste transazione in cui tutte le parti vincano, che dove c’è un profitto c’è anche una perdita. Trump, semplicemente, non riesce a tollerare l’idea che qualcuno si faccia strada a sue spese. Nel suo universo a somma zero, qualunque cosa lui consideri di valore può solo crescere, a suo personale beneficio, ovviamente: in caso contrario, significa che qualcuno lo ha derubato.
Scarborough e la Brzezinski avevano ampiamente monetizzato la loro amicizia con Trump, e senza versare nelle sue tasche nemmeno una percentuale; stando così le cose, il presidente riteneva che la commissione che gli spettava dovesse essere ripagata con un trattamento di favore. Dire che la loro irriconoscenza lo faceva imbestialire sarebbe riduttivo. Per lui era un’ingiustizia bella e buona e ci rimuginava di continuo. «Non nominategli Joe o Mika!» era un imperativo costante.
Il suo disappunto e l’incredulità di fronte al voltafaccia delle persone dalle quali si aspettava di essere sostenuto erano «profondi, incredibilmente profondi», disse il suo ex assistente Sam Nunberg, che aveva dovuto fare i conti sia con il bisogno del presidente di un’approvazione incondizionata sia con il suo sospetto di essere stato sfruttato.
Da questa rabbia scaturì il tweet del 29 giugno su Mika Brzezinski.
Nel più puro stile Trump, le sue dichiarazioni pubbliche hanno lo stesso linguaggio delle conversazioni private. E così, in un tweet chiamò la conduttrice «Mika la Pazza con un basso Q.I.» e in un altro scrisse che quando era andata a trovarlo a Mar-a-Lago con Scarborough per l’ultimo dell’anno, lei «sanguinava di brutto a causa di un lifting al viso». Molti dei suoi tweet non sono, come può sembrare, esternazioni spontanee, scritte di getto, ma seguono uno schema costante. Gli screzi di Trump spesso iniziano come insulti divertenti, si consolidano in accuse rancorose e poi, sull’onda della collera, diventano proclami ufficiali.
Il passo successivo è la gogna mediatica. Il tweet sulla Brzezinski fu seguito da quasi una settimana di polemiche sui social media, accuse in televisione e condanne sulle prime pagine. Il tutto accompagnato dall’altra dinamica dei tweet presidenziali: mentre la fazione liberal si ergeva compatta a fare muro contro Trump, i suoi sostenitori facevano quadrato intorno a lui.
A dire il vero, spesso il presidente sembra non essere del tutto consapevole di ciò che scrive, e proprio per questo non riesce a spiegarsi perché scateni reazioni tanto feroci. Anzi, se ne stupisce. «Cosa ho detto?» chiede dopo essere stato aspramente criticato.
Trump non dispensa quegli insulti per far scena, o comunque non solo per quello. Non si tratta di una strategia ponderata: è più un rendere pan per focaccia e probabilmente direbbe quello che ha da dire anche a rischio di ritrovarsi da solo (l’assoluta mancanza di calcolo, l’incapacità di essere diplomatico fanno parte del suo charme). È solo grazie alla sua buona stella che il trentacinque per cento degli elettori – la quota che, secondo la maggior parte dei sondaggi, sembra ancora appoggiarlo a prescindere da tutto (e che secondo Trump gli permetterebbe di farla franca anche se sparasse a qualcuno sulla Quinta Strada) – rimane tutto sommato imperturbabile e forse si sente addirittura rinfrancato a ogni nuovo exploit del trumpismo.
Dopo aver detto la sua e aver avuto l’ultima parola, Trump era di nuovo allegro.
«Mika e Joe sono entusiasti, i loro ascolti sono schizzati alle stelle» disse il presidente, con una certa soddisfazione e senza timore di smentita.
Dieci giorni dopo, una tavolata di sostenitori di Bannon stava cenando al Bombay Club, un ristorante indiano di lusso a due isolati dalla Casa Bianca. Uno di loro, Arthur Schwartz, consulente di pubbliche relazioni, fece una domanda sul caso Mika e Joe.
Alexandra Preate, l’assistente di Bannon, rispose confusa: «Chi?». Forse non aveva sentito a causa del rumore in sala, oppure per lei la questione era già finita nel dimenticatoio vista la rapidità con cui si succedevano gli eventi nell’era Trump.
La farsa dei tweet su Mika – la rozzezza e la violenza verbale esibite dal presidente, il suo scarsissimo autocontrollo e l’assoluta incapacità di giudizio, nonché l’alzata di scudi che aveva scatenato – era ormai storia vecchia, totalmente oscurata da altre sue scenate e polemiche.
Prima di passare all’indignazione successiva, però, vale la pena prendere in considerazione la possibilità che questo costante, quotidiano accumularsi di eventi – ognuno dei quali cancella quello che lo ha preceduto – sia la vera aberrazione e la fondamentale novità della presidenza Trump.
Forse mai prima nella storia – nemmeno durante le guerre mondiali, il rovesciamento di imperi, in periodi di straordinaria trasformazione sociale o negli scandali che hanno fatto tremare i governi –, gli eventi della vita reale si sono manifestati con un tale impatto emotivo. Con l’impressione di assistere a un programma televisivo, la vita reale di ognuno è diventata secondaria rispetto al dramma pubblico. Non è assurdo dire: Ehi, aspetta un attimo, nella vita pubblica non funziona così. La vita pubblica è priva di coerenza drammatica. (La storia, infatti, acquisisce coerenza drammatica solo con il senno di poi.)
In una realtà tentacolare e refrattaria come quella dell’esecutivo, riuscire ad avviare e mettere in pratica anche le azioni più piccole è un processo incredibilmente lento. La Casa Bianca è appesantita dal fardello della burocrazia. Tutte le varie amministrazioni hanno cercato di svincolarsene e solo occasionalmente ci sono riuscite. Nell’era dell’ipermedialità il compito non è diventato più facile, semmai è stato reso ancora più difficile.
Gli Stati Uniti sono una nazione distratta, frammentata e preoccupata. Emblematica è stata l’esperienza di Barack Obama che, pur essendo una figura rivoluzionaria e un ispirato comunicatore, non è riuscito a suscitare più di tanto interesse. Inoltre, potrebbe essere un duro colpo per quanti si occupano di informazione scoprire che proprio la loro convinzione, antiquata e permeata di senso civico, che la forma più alta di informazione sia quella politica ha contribuito a trasformare la politica da una questione che riguarda tutti a un argomento di nicchia. Purtroppo, la politica è diventata sempre più un affare particolare. È una cosa per addetti ai lavori. La vera palude è formata dagli interessi ristretti, interni e incestuosi. Non è corruzione, solo sovraspecializzazione. È roba da primi della classe. La politica è andata in una direzione e la cultura in un’altra. I fanatici di destra e di sinistra potrebbero pensarla diversamente, ma i sostenitori del grande centro non mettono le preoccupazioni politiche in cima alla loro lista di interessi.
Eppure, a dispetto di ogni logica culturale e mediatica, alle quotidiane e sbalorditive esternazioni di Donald Trump è impossibile non appassionarsi. E non certo perché il presidente in carica stia cambiando o sconvolgendo le fondamenta della vita americana. Nei suoi primi sei mesi di governo, non riuscendo a padroneggiare quasi nessuno degli aspetti del processo burocratico, praticamente non aveva concluso nulla, tranne piazzare il proprio candidato alla Corte suprema. Eppure – «Oh, mio Dio!» – in America e in buona parte del mondo si parla solo di lui. È questa la natura radicale e innovativa della presidenza Trump: cattura l’attenzione di tutti.
All’interno della Casa Bianca, però, quel clamore non era motivo di gioia. Nella visione piuttosto amara dello staff presidenziale, i media stavano trasformando ogni giornata in un inferno, e in un certo senso era vero: la situazione sembrava evolversi soltanto in peggio. Una convinzione confermata dal fatto che il climax raggiunto il giorno prima sembrava nulla al confronto di quello successivo. I media non erano in grado di dare il giusto peso alle esternazioni di Trump: la maggior parte, per non dire tutte, non portavano a nessun risultato, eppure venivano sempre accolte con uguali incredulità e sgomento. Lo staff della Casa Bianca era convinto che le notizie su Trump riportate dai media mancassero di «contestualizzazione», ovvero che la gente sarebbe dovuta arrivare a capire che per il presidente sbuffare e brontolare era assolutamente normale.
Allo stesso tempo, erano rimasti in pochi alla Casa Bianca a non attribuire a Trump anche quella colpa. Sembrava non riuscire ad afferrare un concetto elementare: le parole e le azioni del presidente sarebbero state amplificate all’ennesima potenza. In un certo senso forse non voleva capirlo, per convenienza, perché lui smaniava per attirare l’attenzione, a prescindere che fosse positiva o negativa. Ogni volta le reazioni che suscitava continuavano a sorprenderlo e non riusciva proprio a trattenersi.
Sean Spicer sosteneva il peso del dramma quotidiano che lo aveva trasformato da professionista razionale, mite e obiettivo in un penoso giullare sulla porta della Casa Bianca. Nel suo personale martirio, di fronte alla sua stessa umiliazione e incredulità, dopo un certo tempo – anche se ne aveva avuto il sentore già il primo giorno di lavoro, quando aveva dovuto risolvere la querelle sul numero delle persone presenti alla cerimonia d’insediamento – Spicer capì di essere «finito nella tana del coniglio». In quel posto disorientante, ogni forma di artificio pubblico, finzione, proporzione, astuzia e consapevolezza di sé era stata spazzata via: non faceva parte della routine presidenziale. Un’altra conseguenza del fatto che Trump non aveva mai pensato sul serio di diventare presidente.
D’altro canto, quella costante isteria aveva un insperato pregio politico: se ogni nuovo evento cancellava il precedente, almeno ci si poteva permettere di vivere alla giornata.
I figli di Donald Trump, il trentanovenne Don Jr. e il trentatreenne Eric, vivono un forzato rapporto di dipendenza nei confronti del padre, in un ruolo che li imbarazza, a livello personale, ma di cui hanno anche colto le opportunità professionali: quello di suoi eredi e assistenti.
Il padre prova un certo piacere nel ricordare costantemente ai suoi due rampolli che si trovavano altrove mentre Dio distribuiva i cervelli: come al solito, tende a denigrare chiunque possa dimostrare più acume di lui. La sorella Ivanka, tutt’altro che un genio naturale, era considerata l’intelligente della famiglia, mentre al marito Jared spettava la parte del tipo sveglio. Così Don Jr. ed Eric sono stati relegati alla gestione e all’amministrazione quotidiana. In realtà i fratelli sono diventati manager discretamente competenti della società di famiglia (non che ciò significhi molto) perché il padre non aveva abbastanza pazienza, anzi non ne aveva affatto, per occuparsene. Com’è ovvio, buona parte del loro tempo lavorativo è stato speso per le bizze, i progetti, la promozione e lo stile di vita in generale di DJT.
Uno dei vantaggi offerti dalla corsa alla Casa Bianca era che teneva Trump lontano dall’ufficio. Tuttavia, la gestione della campagna ricadeva largamente sotto la loro responsabilità e, quando si rivelò più di un semplice capriccio, provocò un terremoto nelle dinamiche familiari. Improvvisamente altre persone erano impazienti di occupare il ruolo di luogotenenti chiave di Donald Trump. Gente esterna alla famiglia, come il direttore della campagna Corey Lewandowski, ma anche interna, come il cognato Jared. Trump, in modo non del tutto inusuale per un’azienda a conduzione familiare, mise tutti in competizione per trarne il massimo beneficio personale. L’azienda era sua, esisteva grazie al suo nome, alla sua personalità, al suo carisma; quindi le luci della ribalta erano riservate a quanti erano in grado di servirlo al meglio. Prima che la corsa alla presidenza entrasse nel vivo la competizione non era ancora serrata, ma nei primi mesi del 2016, con il partito repubblicano al collasso e l’ascesa di Trump, i figli si trovarono ad affrontare una nuova situazione professionale e familiare.
Kushner era stato gradualmente coinvolto nella campagna, in parte per volontà di Ivanka, consapevole che, se qualcuno non lo teneva d’occhio, la mancanza di autocontrollo del padre avrebbe potuto incidere sugli affari di famiglia. E poi anche lui, proprio come i cognati, si era lasciato conquistare dall’entusiasmo. Alla fine della primavera del 2016, quando la nomination era tutt’altro che certa, sullo sfondo della campagna di Trump i contendenti al potere si sfidavano con il coltello tra i denti.
Lewandowski guardava entrambi i figli e il genero di Trump con uno sprezzante senso di superiorità: Don Jr. ed Eric erano stupidi e Jared era un tipo insieme altezzoso e ossequioso (un maggiordomo), e soprattutto nessuno dei tre aveva la benché minima esperienza in campo politico.
Con il passare del tempo, Lewandowski entrò in particolare confidenza con Trump. Per la famiglia, soprattutto per Kushner, quell’uomo era una sorta di favoreggiatore: incoraggiava i peggiori istinti del suocero. All’inizio di giugno, a poco più di un mese dalla convention repubblicana, Jared e Ivanka pensarono che fosse arrivato il momento di intervenire, per il bene della campagna e degli affari di Trump.
Facendo fronte comune con Don Jr. ed Eric, i due cercarono di convincere Trump a sbarazzarsi di Lewandowski. Don Jr., sentendosi schiacciato non solo da lui ma anche dal cognato, colse al volo l’opportunità: avrebbe allontanato Lewandowski e preso il suo posto. E, infatti, undici giorni dopo il direttore della campagna era fuori.
In questo contesto si tenne una delle riunioni più grottesche della politica moderna. Il 9 giugno 2016, dopo aver ricevuto la promessa di materiale scottante su Hillary Clinton, Don Jr., Jared e Paul Manafort incontrarono nella Trump Tower una serie di loschi personaggi degni del cast di un film di infimo livello. Don Jr., incoraggiato da Jared e Ivanka, stava cercando di impressionare il padre sperando di convincerlo di avere la stoffa per far decollare la campagna.
Tredici mesi dopo, quando diventò di pubblico dominio, l’incontro avrebbe sintetizzato – per lo staff della Casa Bianca – tanto le argomentazioni a sostegno della collusione con i russi quanto quelle contrarie. Che la collusione ci fosse o no, è certo che le persone coinvolte nella faccenda non erano strateghi né geni del crimine, ma individui così ingenui e sprovveduti da aver entusiasticamente cospirato alla luce del sole.
Quel giorno di giugno fecero il loro ingresso nella Trump Tower un avvocato ben ammanicato proveniente da Mosca – probabilmente un agente russo –, soci dell’oligarca azero Aras Agalarov, un promoter musicale americano – manager del figlio di Agalarov –, una pop star russa e un lobbista del governo russo a Washington. Il motivo per cui visitavano il quartier generale di uno dei probabili candidati repubblicani alla presidenza degli Stati Uniti era incontrare tre dei rappresentanti più in vista della campagna. L’incontro era stato preceduto da uno scambio di email inviate a diversi membri dello staff di Trump. I russi offrivano informazioni che avrebbero messo in cattiva luce, o persino reso passibile di incriminazione, la loro rivale Hillary Clinton.
Le teorie in merito al come e al perché si fosse tenuto questo incontro insensato sono diverse:
- I russi, in collaborazione con il governo del loro Paese o di loro iniziativa, stavano cercando di compromettere la campagna di Trump.
- Lo staff di Trump era già in contatto con i russi per ottenere e divulgare informazioni compromettenti su Hillary Clinton e, in effetti, qualche giorno dopo la riunione, WikiLeaks avrebbe annunciato di essere entrata in possesso delle email della Clinton. Meno di un mese dopo avrebbe iniziato a diffonderle.
- La campagna di Trump, che procedeva tra lo stupore di tutti (con Trump ancora impegnato a recitare il ruolo di chi corre per la presidenza senza nemmeno prendere in considerazione l’idea di vincere), era pronta ad accogliere qualsiasi richiesta e offerta perché non aveva nulla da perdere. Don Jr. il tonto («Fredo», come lo avrebbe soprannominato Steve Bannon, in una delle sue frequenti citazioni dal Padrino) stava semplicemente cercando di dimostrare di essere della partita, la persona giusta al posto giusto.
- All’incontro avevano partecipato Paul Manafort – direttore e voce più influente della campagna – e Jared Kushner perché: a) stavano coordinando una cospirazione ad alti livelli; b) Manafort e Kushner, non prendendo troppo sul serio la campagna e senza nemmeno pensare alle conseguenze, semplicemente si divertivano all’idea di giocare sporco; c) tutti e tre volevano sbarazzarsi di Lewandowski, con Don Jr. nelle vesti del sicario e Manafort e Kushner che, facendo parte della squadra, dovevano presenziare al suo stupido incontro.
Non importa quale fosse la ragione dell’incontro, non importa quale scenario tra questi descriva al meglio la riunione di un gruppo così grottesco e preoccupante; ma è certo che, un anno dopo, praticamente nessuno dubitava che Don Jr. avrebbe voluto far sapere al padre che era stato lui a prendere l’iniziativa.
«Le probabilità che Don Jr. non abbia portato quei tizi nell’ufficio di suo padre, su al ventiseiesimo piano, sono pari a zero» disse un incredulo e sarcastico Bannon, poco dopo che quell’incontro fu reso noto.
«I tre guru della campagna» continuò «hanno pensato che fosse una buona idea incontrare la delegazione di un governo straniero all’interno della Trump Tower in una sala conferenze al venticinquesimo piano, senza avvocati. Non c’era nemmeno un avvocato! Anche se non pensavano che fosse un atto sovversivo, antipatriottico o una cosa comunque brutta – e personalmente credo che fosse tutte queste cose insieme –, avrebbero dovuto allertare immediatamente l’FBI. Se invece non pensavano di essere tenuti a farlo, se erano disposti a tutto pur di avere quelle informazioni, avrebbero quantomeno dovuto fissare l’incontro in un Holiday Inn di Manchester, nel New Hampshire. E mandare degli avvocati a incontrare quella gente: quelli avrebbero passato tutto al setaccio e poi avrebbero riferito a un altro avvocato. Se avessero scoperto di avere qualcosa in mano, avrebbero dovuto trovare il modo di farlo arrivare a Breitbart o a qualche altro canale, o magari scegliere qualcosa di più ufficiale. Così loro non avrebbero visto né saputo niente, perché non ce ne sarebbe stato bisogno… Ma se certa gente è senza cervello…»
Quali che fossero le loro speranze iniziali, alla fine tutti i partecipanti avrebbero sostanzialmente dichiarato che la riunione era stata del tutto irrilevante, ammettendo di aver fatto un buco nell’acqua. Ma anche se così fosse, la rivelazione di quell’incontro, un anno dopo, ebbe tre effetti potenzialmente devastanti.
Primo: confermando che c’era stato un contatto tra rappresentanti della campagna e russi legati al Cremlino, fece crollare come un castello di carte tutte le smentite che erano state ripetutamente formulate dalla Casa Bianca.
Secondo: il fatto che lo staff della Casa Bianca avesse la certezza che Trump non solo fosse al corrente dei dettagli della riunione, ma che avesse anche incontrato i partecipanti, significava che il presidente aveva mentito alle persone la cui fiducia gli era più necessaria. Questo lo avrebbe messo davanti a una svolta: chiudersi in un bunker, prepararsi per un giro sulle montagne russe o tirarsi fuori di lì.
Terzo: era ormai del tutto evidente che gli interessi di ciascuno differivano da quelli degli altri. Le sorti di Don Jr., Paul Manafort e Jared Kushner erano appese a fili diversi. Anzi, l’ipotesi più accreditata nella West Wing era che i dettagli dell’incontro fossero stati fatti trapelare dai sostenitori della fazione di Kushner, sacrificando il figlio del presidente per cercare di distogliere l’attenzione da loro stessi.
Persino prima che trapelassero le notizie sull’incontro del giugno 2016, la squadra di legali di Kushner, messa insieme in fretta e furia dopo la nomina di Mueller come procuratore speciale, aveva raccolto un quadro probatorio sia dei contatti russi durante la campagna sia delle finanze e dei flussi di denaro delle sue società. A gennaio, praticamente ignorando qualsiasi invito alla cautela, Jared era entrato alla Casa Bianca come esponente di vertice dell’amministrazione; ora, sei mesi dopo, si trovava esposto a un rischio legale molto serio. Aveva cercato di mantenere un basso profilo, considerandosi un consigliere dietro le quinte, però a quel punto la posizione pubblica che aveva assunto non stava mettendo a rischio solo la sua persona, ma anche il futuro degli affari di famiglia. Finché fosse rimasto sotto i riflettori, di fatto sarebbe stata preclusa alla famiglia la maggior parte delle risorse finanziarie. E, senza accesso a quelle, le loro holding rischiavano di ritrovarsi in brutte acque.
La fantastica vita che la coppia si era creata – due giovani ambiziosi, ben educati e benvoluti, appartenenti all’élite sociale e finanziaria di New York e con accesso a un potere immenso – era sull’orlo del precipizio, sebbene nessuno dei due fosse stato in carica abbastanza a lungo per fare qualcosa di concreto.
C’era il rischio di finire in galera, come pure in bancarotta. Anche se Trump, con la sua consueta insolenza, si fosse offerto di concedere loro la grazia, questo non avrebbe comunque arginato le ripercussioni che la vicenda avrebbe avuto sugli affari dei Kushner, né sarebbe servito ad ammansire Charlie Kushner, il collerico e spesso irragionevole padre di Jared. Inoltre, essendo ormai sotto la lente inquisitoria della legge, il presidente avrebbe dovuto essere prudente e ponderare un cauto approccio strategico, il che era altamente improbabile.
Nel frattempo la coppia non risparmiava critiche allo staff della Casa Bianca: attribuiva a Priebus il caos all’origine di quel clima bellicoso che alimentava le continue fughe di notizie, incolpava Bannon per le soffiate e accusava Spicer di difendere senza troppa convinzione la loro virtù e i loro interessi.
Dovevano difendersi da soli. Una strategia fu quella di lasciare la città (Bannon si era appuntato tutti i momenti di tensione durante i quali la coppia si era presa una vacanza strategica). Poi accompagnarono Trump al G20 di Amburgo, in Germania, in programma il 7 e 8 luglio. Durante il summit appresero che era trapelata la notizia dell’incontro di Don Jr. con i russi (e i due continuavano puntigliosamente a chiamarlo così, «l’incontro di Don Jr. con i russi»). Come se non bastasse, il «New York Times» stava per pubblicare la storia.
All’inizio l’entourage di Trump si aspettava che le indiscrezioni della riunione di Don Jr. venissero diffuse dal sito web Circa. Il team legale e il suo portavoce – Mark Corallo – si erano messi all’opera per gestire la notizia. Mentre era ad Amburgo, però, lo staff presidenziale scoprì che il «Times» stava scrivendo sull’incontro un articolo ricco di dettagli – probabilmente forniti dalla fazione di Kushner – che sarebbe stato pubblicato sabato 8 luglio. Gli avvocati del presidente non ne erano stati preventivamente informati perché, a quanto pareva, l’inchiesta non lo coinvolgeva in prima persona.
Ad Amburgo Ivanka, consapevole che la notizia sarebbe uscita presto, stava presentando il suo progetto: un fondo della Banca Mondiale per aiutare l’imprenditoria femminile nei Paesi in via di sviluppo. Un altro esempio di come, anche secondo lo staff della Casa Bianca, la linea della coppia fosse assolutamente avulsa da quella dell’amministrazione Trump. In nessun punto del programma elettorale, in nessuna voce sulle lavagne di Bannon, in nessun angolo della mente di Trump c’era mai stato spazio per le donne imprenditrici nei Paesi in via di sviluppo. L’agenda della figlia era in particolare disaccordo con quella del padre, almeno con quella che lo aveva fatto eleggere. Ivanka, per quasi tutto il personale della Casa Bianca, aveva completamente frainteso la natura del suo lavoro, convertendo i tradizionali impegni social-mondani della First Lady nel lavoro dello staff.
Poco prima di imbarcarsi sull’Air Force One per il volo di ritorno, Ivanka, con quella che iniziava a sembrare quasi una forma di ottusità anarchica, occupò il posto del padre tra il presidente cinese Xi Jinping e la premier britannica Theresa May al tavolo principale della conferenza del G20. Ma era una mera distrazione: durante le consultazioni condotte a bordo dell’aereo tra il presidente e il suo staff, il tema centrale non era la conferenza, ma come rispondere all’articolo del «Times» sull’incontro di Don Jr. e Jared nella Trump Tower, che sarebbe stato pubblicato di lì a poche ore.
Nel viaggio per Washington, Sean Spicer e tutti gli addetti dell’ufficio stampa furono relegati in coda all’aereo ed esclusi da quelle discussioni concitate. Hope Hicks assunse il ruolo di stratega delle comunicazioni, prendendosi cura, al solito, solo del presidente. Nei giorni che seguirono, fu ribaltata l’ambizione prettamente politica di trovarsi «nella stanza» del potere: non essere in quella stanza (nella fattispecie la cabina anteriore dell’Air Force One) si trasformò in un gran sollievo, l’equivalente della carta «Uscite gratis di prigione» al Monopoli. «Prima mi dava fastidio vederli svolgere il mio lavoro» disse Spicer. «Ora sono felice di essere fuori dal giro.»
Alla discussione sull’aereo parteciparono Trump, la Hicks, Jared e Ivanka e il loro portavoce, Josh Raffel. La figlia del presidente, stando alla successiva ricostruzione fornita dal suo team, avrebbe lasciato presto la riunione e sarebbe andata a dormire dopo aver preso un sonnifero. Jared, sempre secondo quanto raccontato dai suoi, poteva anche esserci stato, ma «non aveva prestato attenzione a nulla». Nel frattempo, in una piccola sala riunioni, Dina Powell, Gary Cohn, Stephen Miller e H.R. McMaster guardavano il film Fargo. In seguito avrebbero tutti affermato che, pur essendo fisicamente vicini al luogo in cui veniva discussa la crisi, ne erano stati esclusi. E, a dire il vero, chiunque fosse stato «nella stanza» si sarebbe trovato impelagato in una questione al vaglio del procuratore speciale, chiamato a stabilire se uno o più dipendenti federali ne avessero indotti altri a mentire.
Un presidente furioso, intrattabile e minaccioso dominava la discussione, lasciando in secondo piano la figlia, il genero, la Hicks e Raffel. Marc Kasowitz, l’avvocato che aveva il compito specifico di tenere Trump a debita distanza da qualsiasi questione relativa alla Russia, fu lasciato in attesa al telefono per un’ora e non fu nemmeno passato al presidente. Quest’ultimo insisteva che l’incontro con i russi alla Trump Tower riguardava esclusivamente la questione delle adozioni. Ecco di cosa si era discusso, punto. Punto. Sebbene fosse probabile, se non certo, che il «Times» disponesse dello scambio di email incriminanti – in realtà era possibile che Jared, Ivanka e gli avvocati sapessero che il giornale ne era in possesso –, il presidente ordinò che nessuno si lasciasse scappare una sola parola sulla ben più spinosa vicenda relativa a Hillary Clinton.
Era un esempio in tempo reale di negazione e insabbiamento. Il presidente credeva bellicosamente quello che voleva credere. Per lui la realtà coincideva – o sarebbe dovuta coincidere – con le sue convinzioni. Ecco la versione ufficiale che ne seguì: c’era stato un breve e inconcludente incontro di cortesia nella Trump Tower sulla politica delle adozioni tra gli esperti della campagna e privati cittadini russi. La costruzione di questa versione manipolata era un’operazione canagliesca condotta da novellini: da sempre, la combinazione più esplosiva in un tentativo di insabbiamento.
A Washington, Kasowitz e Corallo non furono informati né dell’articolo del «Times» né di come il presidente intendeva rispondere fino all’uscita della dichiarazione iniziale di Don Jr., appena prima che la storia scoppiasse, quel sabato.
Nel corso delle successive settantadue ore, lo staff di vertice dell’amministrazione si ritrovò completamente tagliato fuori e, ancora una volta, fu costretto ad assistere con sconcerto alle azioni dei più stretti collaboratori di Trump. Inoltre, il rapporto tra il presidente e Hope Hicks – a lungo tollerato come un bizzarro legame tra un uomo anziano e una giovane donna di cui si fidava – iniziò a essere considerato anomalo e preoccupante. Lei, sempre pronta ad assecondarlo e a fargli da filtro con la stampa, non aveva saputo fare da filtro a quella reazione di pancia. Grazie a lei gli impulsi e i pensieri del presidente – non riveduti e non discussi – viaggiavano nel mondo senza alcun controllo da parte della Casa Bianca.
«Il problema non è Twitter, è Hope» commentò uno degli addetti stampa.
Il 9 luglio, il giorno dopo la pubblicazione del primo articolo, il «New York Times» affermava che l’incontro alla Trump Tower era stato appositamente organizzato per discutere con i russi la loro offerta di materiale compromettente sulla Clinton. Il giorno successivo, quando il giornale si preparava a pubblicare l’intero scambio di email, Don Jr. lo anticipò mostrandolo in fretta e furia su Twitter. Seguì una rivelazione quasi quotidiana delle persone – ognuna, a suo modo, particolare e sconcertante – che avevano partecipato alla riunione.
Ma la divulgazione dell’incontro alla Trump Tower assunse un’altra dimensione, forse anche più ampia. Segnò la fine della strategia legale del presidente: la caduta del muro di protezione eretto da Steve Bannon intorno a Trump, a emulazione di quello costruito a difesa di Clinton.
Gli avvocati, preoccupati e disgustati, non poterono far altro che assistere alla scena: ogni persona informata poteva trasformarsi in testimone delle possibili malefatte di un altro. In parole povere, ciascuno cospirava contro gli altri per rendere verosimile la propria versione. Il presidente e la sua famiglia erano in preda al panico e ognuno portava avanti la propria linea difensiva. I titoloni dei giornali e degli altri media, che si susseguivano a ritmo frenetico, rendevano impossibile qualsiasi strategia di lungo periodo. «La cosa peggiore che si possa fare è mentire a un inquirente» disse uno degli avvocati. L’idea, profondamente radicata in Trump, che mentire ai media non fosse reato era considerata dal team dei legali incauta, nella migliore delle ipotesi, e di per sé potenzialmente perseguibile: un chiaro tentativo di depistare le indagini.
Al portavoce del team legale venne imposto di non parlare con la stampa e addirittura di non rispondere al telefono. Mark Corallo, però – che non confidava in un esito positivo e, come aveva dichiarato in privato, era convinto che la riunione sull’Air Force One potesse configurarsi come intralcio alla giustizia –, rassegnò le dimissioni quella stessa settimana (la fazione di Jarvanka l’avrebbe fatto passare come un licenziamento).
«Questi tizi non sono certo lì per farsi giudicare da una banda di ragazzini» esclamò un frustrato Bannon a proposito del team di difesa.
Tuttavia la famiglia Trump, a prescindere dai rischi che correva, non era disposta ad affidarsi agli avvocati. Jared e Ivanka alimentarono una serie di clamorose fughe di notizie – alcolismo, cattiva condotta, vita personale allo sbando – su Marc Kasowitz, colpevole di aver consigliato al presidente di spedire a casa Jarvanka. Subito dopo il ritorno del team presidenziale a Washington, Kasowitz fu silurato.
Il rimpallo delle colpe non era finito. Alla prospettiva di una nuova e amara realtà, se non addirittura della catastrofe, collegata alla débâcle Comey-Mueller, tutti fecero il possibile per evitare di esserne coinvolti.
Le fazioni alla Casa Bianca – Jared, Ivanka, Hope Hicks, una sempre più ambivalente Dina Powell e Gary Cohn da una parte e praticamente chiunque (inclusi Priebus, Spicer, la Conway e ovviamente Bannon) dall’altra – si distinguevano soprattutto per la loro responsabilità o estraneità riguardo il disastro Comey-Mueller. Un disastro, come gli oppositori di Jarvanka non avrebbero mai smesso di sottolineare, che avevano provocato solo loro. I sostenitori di Jarvanka si misero dunque all’opera per allontanarsi quanto più possibile dalle cause di quel fiasco (non potendo negare un qualche coinvolgimento, si difendevano affermando che la loro era stata una partecipazione solo passiva o una semplice esecuzione degli ordini), suggerendo che i loro avversari fossero colpevoli in ugual misura.
Poco dopo che la storia di Don Jr. era venuta a galla, il presidente cambiò, non senza successo, argomento e scaricò la responsabilità per il pasticcio Comey-Mueller su Sessions, screditandolo ancora più del solito, minacciandolo e anticipandogli che i suoi giorni erano contati.
Bannon, che continuava a difendere Sessions ed era sicuro di essersi bellicosamente tirato fuori dal disastro Comey – attaccando la fazione di Jarvanka e tacciandola di stupidità –, all’improvviso iniziò a ricevere chiamate da giornalisti che lo informavano che, secondo le ultime fughe di notizie, lui sarebbe stato un partecipante attivo nella decisione su Comey.
In una telefonata di fuoco, Bannon accusò la Hicks di essere la responsabile di quelle illazioni. Con il passare del tempo, era arrivato a considerarla un’istigatrice delle peggiori tendenze del presidente e una povera leccapiedi di Jarvanka. Inoltre, data la sua partecipazione alla riunione sull’Air Force One, era convinto che lei sarebbe stata implicata nell’inchiesta. Il giorno successivo, con le domande dei giornalisti che continuavano ad aumentare, la affrontò nella sala riunioni, accusandola di fare il lavoro sporco per Jared e Ivanka. Quel faccia a faccia diventò ben presto un confronto esistenziale tra le due fazioni della Casa Bianca, due schieramenti pronti a dichiararsi guerra totale.
«Non sai quello che fai!» gridò Bannon, livido, alla Hicks, chiedendole se lavorava per la Casa Bianca o per Jared e Ivanka. «Non hai idea del guaio in cui ti sei cacciata» urlava, dicendole che se non aveva intenzione di prendersi un avvocato, avrebbe pensato lui a telefonare a suo padre per consigliargli di assumergliene uno. «Sei una testa di legno!» Uscendo dalla sala riunioni si ritrovarono a portata d’orecchio del presidente. Stando alle parole dei fedelissimi di Jarvanka, Bannon «con un tono minaccioso, spaventoso, sempre più forte» si mise a sbraitare: «Andate affanculo, tu e la tua cricca!» mentre Trump, sconcertato, chiedeva con voce lamentosa: «Cosa sta succedendo?».
A quel punto, secondo la ricostruzione dei sostenitori di Jarvanka, la Hicks era scappata via singhiozzando e «visibilmente terrorizzata». Altri, alla Casa Bianca, ricordano quel momento come il punto più alto dell’ostilità tra i due schieramenti. La fazione di Jarvanka era convinta di poter usare quella scenata contro Bannon e spinse Priebus a riferire la questione al consiglio della Casa Bianca, descrivendo l’episodio come il momento verbalmente più ingiurioso nella storia della West Wing, o comunque molto in alto nella classifica degli episodi più offensivi di sempre.
Bannon, da parte sua, pensava che fosse prossima la fine di Jarvanka: erano quei due – non lui – a essere invischiati nel pasticcio Comey-Mueller. Erano loro quelli terrorizzati e fuori controllo.
Per il resto del tempo che trascorse alla Casa Bianca, Steve Bannon non rivolse più la parola alla Hicks.