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Goldman

Il fronte Jarvanka, a Washington, si sentiva sempre più insidiato dalle voci che Bannon e i suoi alleati lasciavano trapelare. Jared e Ivanka, sempre ansiosi di accrescere il loro status di «adulti responsabili» della combriccola, si sentivano colpiti personalmente da quegli attacchi alle spalle. Kushner, in effetti, era ormai convinto che Bannon avrebbe fatto qualsiasi cosa per distruggerli. Era una questione personale. Dopo mesi passati a difendere Bannon dalle insinuazioni dei media liberal, Kushner era giunto alla conclusione che fosse un antisemita. Era quello il problema di fondo: faccenda complicata e frustrante – e assai difficile da comunicare al suocero – dal momento che una delle accuse di Bannon contro lo stesso Kushner, l’uomo di riferimento dell’amministrazione sul Medio Oriente, era che non fosse abbastanza duro in difesa di Israele.

Dopo le elezioni, il commentatore di Fox News Tucker Carlson, con scaltra ironia, aveva fatto notare in privato al presidente che, avendo affidato con nonchalance la questione israelo-palestinese al genero (Jared, diceva Trump, avrebbe portato la pace in Medio Oriente), non gli aveva di certo fatto un favore.

«Lo so» era stata la risposta di Trump, oltremodo divertito.

Gli ebrei e Israele erano per lui un curioso sottotesto. Il padre era stato un antisemita spesso esplicito e, nella spaccatura del settore immobiliare di New York tra ebrei e non ebrei, i Trump erano palesemente sul versante minoritario. Gli ebrei erano gente di alto livello e Donald Trump, anche più del padre, veniva percepito come un individuo volgare: dopotutto dava il suo nome ai palazzi, una cosa davvero déclassée (colmo dell’ironia, il branding degli edifici si sarebbe dimostrato una strategia vincente nel marketing immobiliare, probabilmente il più grande successo del Trump immobiliarista). Lui, nel frattempo, era cresciuto e aveva impiantato il suo business a New York, la più grande città ebrea del mondo; si era costruito una reputazione nei media, il più ebreo dei settori, non senza una certa acuta comprensione delle dinamiche tribali dell’ambiente. Il suo mentore, l’ebreo Roy Cohn, era un duro semimalavitoso del demi-monde. Trump corteggiò altre figure che considerava degli «ebrei tosti» (per lui un complimento): il miliardario speculatore Carl Icahn, il miliardario che aveva comprato e rivenduto la Marvel, Ike Perlmutter, il presidente della Revlon Ronald Perelman, il tycoon dell’immobiliare a New York Steven Roth, il magnate dei casinò Sheldon Adelson. Aveva adottato una specie di parlata da zio ebreo (tosto) anni Cinquanta con inserti yiddish assortiti – Hillary Clinton, dichiarò, era stata «shlongata» («silurata alla grande», da un termine volgare per «pene») alle primarie del 2008 – che contribuivano a dare un’inaspettata espressività a un uomo dalla comunicativa non particolarmente articolata. Ora sua figlia, First Lady de facto, grazie alla sua conversione era la prima persona di religione ebraica alla Casa Bianca.

La campagna elettorale e la presidenza di Trump avevano inviato di continuo messaggi ambigui sugli ebrei, dall’equivoca considerazione per David Duke – l’ex membro della Camera dei Rappresentanti noto per le sue posizioni antisemite – all’apparente desiderio di «sistemare» la storia dell’Olocausto o perlomeno alla tendenza a inciamparci sopra. All’inizio della campagna, il genero di Trump, stimolato dal suo stesso staff al «New York Observer» e sentendo minacciata la propria credibilità, oltre che nell’intento di sostenere il suocero, ne scrisse un’appassionata difesa volta a dimostrare che non era contro gli ebrei. Per quel tentativo fu aspramente rimproverato da vari membri della sua famiglia, allarmati sia dalla piega che stava prendendo il trumpismo sia dall’opportunismo di Jared.

Poi c’era la sua simpatia verso il populismo europeo. A ogni occasione, Trump pareva spalleggiare e fomentare la nascente destra del Vecchio Continente, di stampo antisemita, moltiplicando i brutti segni e le pessime vibrazioni. E infine c’era Bannon, che – con la sua orchestrazione mediatica di temi di destra e alimentando l’indignazione a sinistra – si era attirato ammiccanti insinuazioni di antisemitismo. Di certo, compito di una buona destra era dar fastidio agli ebrei liberal.

Kushner, per parte sua, era l’arrampicatore sociale figlio di papà che in passato aveva respinto tutte le richieste di supporto a organizzazioni ebree. Nessuno fu più sconcertato di quelle stesse organizzazioni dalla sua improvvisa ascesa al nuovo ruolo di protettore di Israele. Ora gli ebrei, dai grandi e potenti, ai funzionari, all’ultima delle pedine, avrebbero dovuto rendere omaggio a Jared Kushner, che fino a poco più di qualche minuto prima era un signor nessuno.

Per Trump, affidare la delicata questione di Israele al genero era una specie di test: il presidente lo stava scegliendo perché ebreo, ricompensando perché ebreo, gravando di un giogo insostenibile perché ebreo, oltre che perché mosso dall’idea stereotipata delle capacità di negoziazione degli ebrei. «Henry Kissinger dice che Jared sarà il nuovo Henry Kissinger» ripeteva, e non si capiva dove finisse il complimento e dove cominciasse l’insulto.

Bannon, nel frattempo, non esitava a tartassare Kushner su Israele, peculiare cartina al tornasole della destra. Lui poteva permettersi di punzecchiare gli ebrei – gli ebrei liberal, globalisti, cosmopoliti, abbonati al Forum di Davos come Kushner – perché più si stava a destra, più si era corretti su Israele. Il primo ministro israeliano Netanyahu, che pure era un vecchio amico di famiglia dei Kushner, quando in autunno andò a New York per incontrare Trump e suo genero, chiese di mandare a chiamare Steve Bannon.

Su Israele, Bannon aveva fatto coppia con Sheldon Adelson, titano di Las Vegas, generoso finanziatore della destra e, agli occhi del presidente, l’ebreo più tosto di tutti (nonché il più ricco). Adelson screditava costantemente le motivazioni e le capacità di Kushner, e il presidente, con grande soddisfazione di Bannon, continuava a ripetere al genero, intento a definire una strategia per Israele, di consultarsi con Sheldon (e quindi con Bannon).

Il tentativo di Bannon di accaparrarsi l’etichetta di super-paladino di Israele sconcertava profondamente Kushner, che era stato cresciuto da ebreo ortodosso. Anche i suoi più fedeli luogotenenti alla Casa Bianca, Avi Berkowitz e Josh Raffel, lo erano. Il venerdì pomeriggio tutte le loro attività si interrompevano prima del tramonto in osservanza dello Shabbat.

Per Kushner, la difesa di Israele di Bannon, abbracciata da Trump, diventò qualcosa come un colpo di jujutsu antisemita sferrato direttamente a lui. Bannon sembrava deciso a farlo apparire debole e inadeguato: un cuck, per usare un tipico insulto dell’alt-right nei confronti dei liberal.

Così Kushner rese il colpo, portando alla Casa Bianca i suoi personali ebrei tosti: quelli di Goldman Sachs.

Kushner aveva fatto pressioni affinché l’allora presidente di Goldman Sachs, Gary Cohn, si aggiudicasse la direzione del Consiglio economico nazionale e l’incarico di consigliere economico del presidente. Bannon aveva proposto in quella veste l’opinionista e anchorman conservatore della CNBC Larry Kudlow, ma per Trump il prestigio di Goldman batteva persino una celebrità televisiva.

Fu un momento alla Richie Rich. Kushner aveva svolto uno stage estivo in Goldman ai tempi in cui Cohn era a capo del commodities trading. Poi Cohn era diventato presidente nel 2006 e, quando infine approdò nel team di Trump, Kushner non perdeva occasione di far notare che il presidente di Goldman Sachs stava lavorando per lui. Bannon, a seconda di chi voleva insultare, definiva Kushner lo stagista di Cohn o puntualizzava che Cohn era finito a lavorare per il suo stagista. Il presidente, per parte sua, non faceva che trascinarsi Cohn a ogni incontro ufficiale, soprattutto con leader stranieri, solo per poterlo presentare come l’ex presidente di Goldman Sachs.

Bannon si era annunciato come il cervello di Trump, un vanto che irritava non poco il presidente, ma, in Cohn Kushner vedeva un cervello assai migliore per la Casa Bianca: e non solo era molto più vantaggioso che Cohn fosse il suo cervello anziché quello di Trump, ma rappresentava anche la contromossa perfetta alla filosofia della gestione del caos di Bannon. Cohn era l’unica persona nella West Wing che avesse mai diretto una vasta organizzazione (Goldman ha trentacinquemila dipendenti) e, per dirla senza mezzi termini – cosa che Kushner era ben lieto di fare –, Bannon nella banca d’affari aveva raggiunto a malapena la qualifica di manager di medio livello, mentre Gary, suo coetaneo, aveva scalato la compagnia fino alla vetta, facendo peraltro centinaia di milioni di dollari. Cohn – democratico globalista-cosmopolita di Manhattan che aveva votato per Hillary Clinton e che parlava ancora spesso con l’ex amministratore delegato di Goldman, ex senatore e governatore democratico del New Jersey Jon Corzine – diventò immediatamente l’antitesi di Bannon.

Per Bannon, l’ideologo, Cohn era il suo esatto contrario, un commodities trader che faceva quello che fanno i trader: annusare l’aria e capire da che parte tira il vento. «Far prendere posizione a Gary su qualcosa è come inchiodare le farfalle al muro» commentò una volta Katie Walsh.

Cohn cominciò a descrivere quella che a breve sarebbe diventata la nuova Casa Bianca, dal taglio pratico e impegnata a passare da posizioni di centro-destra a posizioni moderate tout court. Nella nuova configurazione, Bannon sarebbe diventato una figura marginale e lui, che nutriva scarsa considerazione per Priebus, sarebbe stato il capo di gabinetto in pectore. La strada gli pareva facile. Certo che sarebbe andata così! Priebus era un peso leggero e Bannon uno sciattone incapace di dirigere alcunché.

Qualche settimana dopo il suo arrivo nella squadra di transizione presidenziale, Bannon bocciò la sua idea di espandere il Consiglio economico nazionale di ben trenta persone (Kushner, a dirla tutta, bocciò quella di Bannon di far comporre e guidare il suo staff a David Bossie). L’ideologo aveva anche riferito la voce, probabilmente non troppo lontana dal vero (o comunque diffusa all’interno di Goldman Sachs), secondo cui Cohn, un tempo destinato a diventare amministratore delegato della banca d’affari, fosse stato costretto ad andarsene per un indecoroso tentativo di colpo di mano alla Alexander Haig – il segretario di Stato che nel 1981 aveva cercato di farsi affidare i poteri dopo l’attentato a Ronald Reagan – quando l’amministratore delegato dell’epoca, Lloyd Blankfein, si era dovuto sottoporre a una terapia anticancro. Nella versione di Bannon, insomma, Kushner si era portato dietro una mela guasta. La Casa Bianca era chiaramente l’ancora di salvezza professionale di Cohn: perché altrimenti avrebbe voluto entrare a far parte dell’amministrazione Trump? (Molto di tutto ciò sarebbe stato riferito in seguito ad alcuni giornalisti da Sam Nunberg, ex factotum di Trump passato a fare le veci di Bannon. Nunberg è stato schietto riguardo la sua tattica: «Ho fatto il culo a Gary ogni volta che ho potuto».)

Dà la misura del potere dei legami di sangue (o di quelli acquisiti per via matrimoniale), e probabilmente anche dell’influenza di Goldman Sachs, il fatto che nel bel mezzo di una Washington sotto il controllo repubblicano e di una West Wing fortemente di destra, se non antisemita (perlomeno nei confronti degli ebrei liberal), il binomio democratico Kushner-Cohn apparisse in ascesa. Parte del merito andava a Kushner, che stava dimostrando una tenacia inaspettata. Avverso alle contrapposizioni frontali – in casa sua, il padre, che aveva il monopolio dei conflitti, costringeva tutti gli altri a cercare di smussare i toni –, lui che non affrontava direttamente Bannon, né suo suocero, cominciò a vedere se stesso in senso stoico: era l’ultimo uomo della moderazione, il solo con un minimo di modestia, la necessaria zavorra della nave. Il tutto sarebbe stato reso evidente da un risultato spettacolare: avrebbe portato a termine la missione che il suocero gli aveva affidato, quella che vedeva sempre più come il suo destino. Sì, avrebbe realizzato la pace mediorientale.

«Lui porterà la pace in Medio Oriente» ripeteva spesso Bannon, voce deferente e volto impassibile, facendo scompisciare i suoi sostenitori.

Perciò, per un verso, Kushner era una figura di esasperata faciloneria destinata a essere ridicolizzata, e per l’altro un uomo che, incoraggiato da sua moglie e da Cohn, si vedeva, sul palcoscenico del mondo, investito di una singolare missione.

Ecco un’altra battaglia da vincere o perdere. Per Bannon, Kushner e Cohn (e Ivanka) vivevano in una realtà alternativa che poco aveva a che fare con l’autentica rivoluzione di Trump. Per Kushner e Cohn, Bannon non era solo distruttivo, ma anche autodistruttivo, e i due confidavano che avrebbe distrutto se stesso prima di distruggere loro.

Alla Casa Bianca di Donald Trump, come ha osservato Henry Kissinger, era in corso «una guerra tra ebrei e non ebrei».

Per Dina Powell, l’altro acquisto marchiato Goldman della West Wing, la considerazione principale, quando Ivanka la scelse per andare a lavorare alla Casa Bianca, fu valutare il «contro» di essere associata alla presidenza di Trump. Aveva diretto il braccio filantropico della banca d’affari, un’opera di pubbliche relazioni e corteggiamento dei fondi sempre più consistenti destinati ad azioni benefiche; in quanto rappresentante di Goldman, era diventata una sorta di leggenda a Davos, la pierre suprema tra i pierre supremi del mondo, e si collocava al crocevia di immagine e patrimonio, in un mondo sempre più condizionato da ricchezza privata e brand personali.

Furono la sua ambizione e le doti di persuasione di Ivanka Trump, esercitate nel corso di brevi incontri a New York e Washington, le ricacciarono indietro i dubbi e la spinsero a salire a bordo. Quello, e la scommessa – politicamente rischiosa, ma dall’altissimo premio – che, schierandosi con Jared e Ivanka e collaborando a stretto contatto con Cohn, già suo amico e alleato in Goldman, avrebbe potuto assumere il controllo della Casa Bianca. Quella era l’idea implicita, niente di meno: nello specifico, che Cohn o la Powell, o con buona probabilità entrambi, nel corso dei successivi quattro o otto anni, sarebbero giunti, usciti di scena Bannon e Priebus, ad assumere l’incarico di capo di gabinetto. Le stizzite e continue lagnanze presidenziali colte da Ivanka sull’uno e sull’altro incoraggiavano a prevedere un esito simile.

Un punto non da poco: fattore trainante della scelta di Dina Powell era l’assoluta convinzione di Jared e Ivanka (e che Cohn e la Powell trovarono a loro volta condivisibile) di essere destinati ad assumere il controllo della Casa Bianca. Per i due l’offerta di entrare a far parte dell’amministrazione Trump fu trasmutata oltre lo status di semplice opportunità, fino a diventare una sorta di appello al dovere. Lavorando con Jared e Ivanka, sarebbe stato loro compito aiutare a dirigere e plasmare una Casa Bianca che rischiava altrimenti di trasformarsi nell’esatto opposto della razionalità e moderazione che loro invece potevano portare. Erano chiamati a diventarne gli strumenti di salvezza, insomma, compiendo peraltro un monumentale salto di carriera.

Più nell’immediato, per Ivanka, sempre attenta alla questione delle donne nella presidenza del padre, Dina Powell andava a compensare l’immagine poco lusinghiera rappresentata da Kellyanne Conway, che, a prescindere dalla guerra con Bannon, Ivanka e Jared disprezzavano. La Conway, che continuava a godere del favore del presidente e a essere la sua paladina prediletta nei dibattiti televisivi, si era pubblicamente dichiarata volto dell’amministrazione, e per Ivanka e Jared era un volto terrificante. Lei pareva dar corpo ai peggiori impulsi del presidente senza il beneficio di un filtro, assommando in sé le collere, l’impulsività e gli svarioni di Trump. Laddove un consigliere del presidente avrebbe dovuto stemperarne e interpretarne le uscite impulsive, Kellyanne le riprendeva, le rilanciava, ci costruiva sopra una sceneggiata. Prendeva la richiesta di lealtà di Trump troppo alla lettera. Per come la vedevano loro era una cocciuta, rissosa faccia televisiva con manie di protagonismo, mentre la Powell, speravano, sarebbe stata un’ospite ponderata, guardinga e matura nei programmi del sabato mattina.

Alla fine di febbraio, dopo il primo caotico mese alla West Wing, la campagna di Jared e Ivanka volta a minare Bannon sembrava procedere a gonfie vele. La coppia aveva creato un circuito, di cui facevano parte Scarborough e Murdoch, che rafforzava la profonda irritazione e frustrazione del presidente riguardo il presunto peso di Steve Bannon alla Casa Bianca. Per settimane, dopo il servizio di copertina di «Time» su Bannon, non ci fu praticamente una conversazione di Trump in cui non vi facesse uno stizzito riferimento («Vede le copertine di “Time” in termini di gioco a somma zero» disse Roger Ailes. «Se ci finisce qualcun altro, vuol dire che non ci finisce lui»). Joe Scarborough continuava a riproporre la battuta fatta nel suo talk show sul «presidente Bannon», Murdoch non faceva che sottolineare a Trump la stravaganza e l’estremismo dei seguaci del suo consigliere, collegando Bannon ad Ailes. «Sono pazzi tutti e due» concluse. Kushner, poi, insinuava nel suocero – sempre allergico a qualunque forma di debolezza legata all’età – l’idea che il sessantatreenne consigliere non avrebbe retto ai ritmi di lavoro della Casa Bianca. Bannon, in effetti, lavorava tra le sedici e le diciotto ore al giorno, sette giorni su sette, e, per paura di perdersi una convocazione presidenziale o temendo che ne approfittasse qualcun altro, si rendeva reperibile praticamente a qualsiasi ora della notte. Con il passare delle settimane pareva dar segni evidenti di esaurimento fisico: volto e gambe apparivano più gonfi, gli occhi annebbiati, gli abiti stazzonati come se ci avesse dormito, la soglia di attenzione meno alta.

All’inizio del secondo mese di mandato, il fronte Jared-Ivanka-Gary-Dina era tutto concentrato sul discorso presidenziale del 28 febbraio davanti al Congresso in seduta congiunta.

«Reset» aveva dichiarato Kushner. «Reset totale.»

L’occasione offriva un’opportunità ideale. Trump avrebbe dovuto tenere il discorso che era stato preparato. Non solo sarebbe stato scritto sul gobbo, ma anche distribuito con largo anticipo. L’educato uditorio, inoltre, non gli avrebbe lanciato le uova. I soliti manovratori erano sotto controllo e, anzi, almeno per quella volta, sarebbero stati Jared, Ivanka, Gary e Dina ad avere il comando.

«Se ci sarà anche solo una sua parola, Steve si prenderà tutto il merito» disse Ivanka al padre. Sapeva bene che, con Trump, era meglio far leva sul merito che sul contenuto, e il suo commento assicurò che il presidente tenesse l’intervento fuori dalla portata di Bannon.

«The Goldman Speech» lo ribattezzò Bannon.

Alla cerimonia di insediamento, il discorso inaugurale, quasi interamente scritto da Bannon e da Stephen Miller, aveva sconvolto Jared e Ivanka, ma una squisita peculiarità della Casa Bianca trumpiana, ad aggravarne i problemi di comunicazione, era l’assenza di un team di ghostwriter. C’era il colto ed eloquente Steve Bannon, che di fatto però non scriveva quasi nulla in prima persona; c’era Stephen Miller, che faceva poco più che produrre elenchi puntati. Per il resto, ci si arrabattava. Mancava un messaggio coerente per il semplice fatto che nessuno lo metteva nero su bianco: l’ennesimo esempio di ignoranza del mestiere politico.

Ivanka si assicurò il saldo controllo della bozza e cominciò a riversarci dentro contributi dal fronte Jarvanka. Durante l’evento, il presidente si comportò proprio come avevano sperato: ottimista, abile affabulatore, un Trump alla «non c’è da aver paura», un indomito guerriero. Jared, Ivanka e tutti i loro alleati la giudicarono una magnifica serata, concordando che, finalmente, in quell’occasione così formale – «Signor speaker, il presidente degli Stati Uniti!» – Trump era apparso davvero presidenziale. E, per una volta, anche i media furono d’accordo.

Le ore successive al discorso furono il miglior momento di Trump alla Casa Bianca. La sua fu, almeno per quella fascia di notiziari, una presidenza diversa. Per un attimo si produsse persino qualcosa di simile a una crisi di coscienza in alcuni rappresentanti dei media: questo presidente era stato frainteso? Gli organi d’informazione, con i loro pregiudizi, si erano persi un Donald Trump animato da buone intenzioni? Stava finalmente mostrando il suo volto migliore? Lo stesso Trump trascorse quasi due giorni interi senza far altro che passare in rassegna la stampa favorevole. Era giunto infine a una placida riva (con indigeni amichevoli sulla spiaggia). Soprattutto, il successo del discorso confermava la strategia di Jared e Ivanka: cercare un terreno comune. Confermava anche la profonda conoscenza che la figlia aveva del padre: lui voleva solo essere amato. E, al tempo stesso, il peggior timore di Bannon: in fondo, il presidente era un tenerone.

Il Trump visto la sera della seduta congiunta non era solo un nuovo Trump, ma l’affermazione, nella West Wing, di un nuovo team (cui Ivanka aveva intenzione di unirsi formalmente nel giro di qualche settimana). Jared e Ivanka, con l’aiuto dei loro consiglieri di Goldman Sachs, stavano cambiando messaggio, stile e temi della Casa Bianca e il nuovo filo conduttore era: «Tendere la mano».

Bannon, giovando ben poco alla propria causa, si dipinse a chiunque lo stesse ad ascoltare come una novella Cassandra. Insistette che il tentativo di ammansire i propri acerrimi nemici poteva solo portare al disastro. Bisogna continuare a dar battaglia: se pensate che sia possibile il compromesso, siete degli illusi. La virtù di Trump – almeno per Steve Bannon – era che l’élite cosmopolita non lo avrebbe mai accettato. Dopotutto, per quanto lo si tirasse a lucido, era sempre Donald Trump.