6
La vita alla Casa Bianca
Poche settimane dopo l’elezione, gli amici di Trump si fecero un’idea: non aveva assunto il giusto contegno presidenziale o, per l’esattezza, non prendeva affatto in considerazione il nuovo ruolo e l’ipotesi di cambiare abitudini – dai tweet di primo mattino al rifiuto di attenersi al copione alle incessanti telefonate per lagnarsi di questo e quello, tutti comportamenti i cui dettagli stavano già dilagando sulla stampa – perché per lui il cambiamento non era stato tanto epocale. La gran parte dei presidenti era giunta all’investitura in seguito a una carriera politica piuttosto ordinaria, perciò il fatto stesso di trovarsi catapultati negli ambienti solenni della Casa Bianca, serviti e riveriti dai domestici, con un aereo e un’intera corte di sottoposti e consulenti a disposizione, non poteva che generare in automatico la consapevolezza reverenziale di una rivoluzione radicale nella loro vita. Ma niente di tutto ciò differiva dall’esistenza di Trump nella sua Tower, tra l’altro più lussuosa e rispondente ai suoi gusti, con servitù, guardie del corpo, cortigiani e consiglieri sempre pronti al suo comando, nonché un jet privato. Insomma, ai suoi occhi, diventare presidente non era stato chissà quale miglioramento.
Ma esisteva anche una teoria esattamente opposta: che Trump fosse frastornato dal ribaltamento improvviso di tutto il suo mondo, fino a quel momento perfettamente prevedibile e ordinato. Secondo questa versione, il settantenne Trump era abitudinario a livelli inimmaginabili. Aveva vissuto nella stessa casa, l’immenso appartamento su tre piani della Trump Tower, fin dall’inaugurazione del palazzo, nel 1983. Ogni mattina, per andare al lavoro, scendeva in ascensore i pochi piani che lo separavano dal suo ufficio, una specie di capsula del tempo rimasta inalterata dagli anni Ottanta, con gli stessi specchi dorati e le stesse, sbiadite copertine di «Time» ai muri. L’unico cambiamento sostanziale aveva riguardato la palla da football esposta in bella mostra, prima autografata da Joe Namath e adesso da Tom Brady. E, oltre le porte del suo ufficio, persino le facce erano sempre le stesse: nessuno dei suoi domestici, agenti di sicurezza, dipendenti e lacchè era mai cambiato dal tempo dell’assunzione.
«L’effetto di ritrovarsi alla Casa Bianca dopo decenni di vita sempre uguale dev’essere stato a dir poco dirompente» osservò un amico di vecchia data, con un gran sorriso al pensiero di quello scherzo – per non dire castigo – del destino.
Trump era esasperato e anche un po’ spaventato dalla quantità di scarafaggi e topi che notoriamente infesta la Casa Bianca, edificio antico e sottoposto soltanto a una sporadica manutenzione e a ristrutturazioni sbrigative. Gli amici, che ammiravano le sue favolistiche proprietà immobiliari, si meravigliavano che non avesse rimesso a nuovo la residenza, ma lui sembrava intimidito dal fatto di sentirsi sempre osservato e sorvegliato.
Kellyanne Conway, la cui famiglia era rimasta nel New Jersey, e che aveva accettato l’incarico contando su un pendolarismo gestibile, dato che presto il presidente sarebbe tornato a New York, restò sorpresa quando l’ipotesi di un rientro alla Trump Tower fu di colpo depennata dai piani. A suo avviso, oltre che dall’ostilità dei newyorkesi, la decisione era motivata dall’impegno sincero del presidente a diventare «parte di questa grande casa», salvo poi precisare, menzionando la spartana e rustica residenza presidenziale nel Catoctin Mountain Park, nel Maryland: «Però a Camp David non metterà mai piede», ammettendo implicitamente le difficoltà di un adeguamento di Trump allo stile presidenziale.
La strategia del neoeletto fu di crearsi un nido nella sua stanza privata: per la prima volta dai tempi di Kennedy, presidente e First Lady dormivano in stanze separate, anche se quella di Melania era più spesso a New York che a Washington. Già poco dopo l’insediamento Trump fece installare due schermi televisivi, in aggiunta a quello già disponibile, e una serratura sulla porta, scatenando un piccolo duello con i servizi segreti, che per motivi di sicurezza esigevano pieno accesso alla stanza. Rimproverò i domestici per aver raccolto da terra la sua camicia: «Se è sul pavimento significa che la voglio lì». Dopodiché impose una nuova regola tassativa: nessuno doveva toccare niente, soprattutto il suo spazzolino. (Da molto tempo temeva di venire avvelenato, uno dei motivi per cui amava mangiare da McDonald’s: nessuno sapeva del suo arrivo e il cibo era precotto, perciò sicuro al cento per cento.) Inoltre sarebbe stato lui ad avvertire la lavanderia quando era il momento di cambiare le lenzuola e le avrebbe tolte dal letto con le sue mani.
Eccezion fatta per le serate che passava con Steve Bannon, alle sei e trenta in punto si buttava a letto con un cheeseburger, telecomandi e telefono – questi ultimi i suoi veri canali di comunicazione con il mondo – e cenava guardando i suoi tre schermi televisivi e telefonando alla sua piccola cerchia di amici, in particolare Tom Barrack, che per parte loro prendevano nota dei suoi alti e bassi umorali e poi confrontavano gli appunti.
Dopo l’avvio burrascoso, però, le cose cominciarono ad apparire più stabili, persino «presidenziali», a detta di alcuni.
Martedì 31 gennaio, durante una cerimonia accuratamente coreografata e trasmessa in prima serata, il presidente annunciò in toni ottimistici e sicuri la nomina del giudice Neil Gorsuch alla Corte suprema. Gorsuch era una combinazione perfetta: conservatore di impeccabile credibilità, uomo di esemplare probità e avvocato e giudice dalle credenziali inattaccabili. Non soltanto la nomina manteneva la promessa fatta da Trump in campagna elettorale all’establishment conservatore, ma appariva anche indiscutibilmente presidenziale.
E, come se ciò non bastasse, rappresentava una vittoria per il suo staff, che aveva visto Trump sventolare il prestigioso e remunerativo incarico sotto il naso di questo e quel candidato, per poi tentennare e cambiare idea. Compiaciuto dell’accoglienza riservata all’annuncio, e soprattutto della quasi impossibilità dei media di trovarci da ridire, Trump si spacciò per un convinto sostenitore di Gorsuch. Ma prima di prendere la decisione definitiva, si era domandato a lungo se non fosse meglio affidare l’incarico a un amico o a un fedelissimo. Ai suoi occhi, era un peccato sprecarlo su un uomo che non conosceva nemmeno.
Nel corso del processo decisionale, aveva proposto il nome di quasi tutti i suoi amici avvocati: candidati improbabili, per non dire bizzarri, nella quasi totalità dei casi, e la cui nomina non sarebbe mai e poi mai stata approvata. Uno dei nomi ricorrenti – e che riuniva in un colpo solo improbabilità, eccentricità e la certezza di una sonora bocciatura – era quello di Rudolph Giuliani.
Trump era in debito con lui. Non che in genere si preoccupasse troppo dei suoi debiti, ma quello con Giuliani era particolarmente gravoso. Non soltanto Rudy era un amico di vecchia data ma, al tempo in cui gran parte dei repubblicani – e tutti quelli di rango nazionale – gli avevano rifiutato ogni sostegno, l’ex sindaco di New York era rimasto al suo fianco: combattivo, feroce, instancabile. Soprattutto gli aveva dimostrato una lealtà indefettibile nei giorni durissimi dopo l’affaire Billy Bush: quando il mondo intero, compresi il candidato stesso, i suoi figli, Bannon e la Conway, si era convinto che la campagna fosse al tracollo, Giuliani non aveva manifestato il minimo ravvedimento, sgolandosi imperterrito in sua difesa.
Giuliani voleva la carica di segretario di Stato, e Trump gliel’aveva promessa, ma il suo staff si era opposto, per lo stesso motivo per cui il presidente ne aveva suggerito la nomina: di Giuliani Trump si fidava, perciò per tutti gli altri rappresentava un rischio. Cominciarono a insinuare dubbi sul suo stato di salute, fisica e mentale. Tramutarono persino la sua appassionata difesa di Trump nel Pussygate in una controindicazione. Gli fu offerto l’incarico di ministro della Giustizia, di consigliere della Sicurezza interna, di direttore dell’Intelligence nazionale, ma lui declinò ogni volta: o segretario di Stato o niente. Al massimo, un seggio alla Corte suprema. Lo staff interpretò quest’ultima proposta come la manifestazione di un ego spropositato, oppure la mossa di uno scacchista geniale: dato che Trump non poteva candidare un uomo apertamente favorevole all’aborto senza inimicarsi i suoi stessi sostenitori e rischiare una bocciatura della nomina, a quel punto non gli sarebbe rimasto che nominare Giuliani segretario di Stato.
Fallita anche quella strategia – la carica toccò a Rex Tillerson –, la faccenda sembrava chiusa, ma Trump continuò a tornare sull’ipotesi della Corte suprema. L’8 febbraio, nell’imminenza delle audizioni di conferma della nomina, tuttavia, il prescelto Gorsuch contestò lo scarso rispetto dimostrato da Trump nei confronti dei giudici. Per ripicca, il presidente avrebbe voluto ritirare la nomina e, nel corso delle solite telefonate serali, riprese a rimpiangere di non aver favorito il suo amico Rudy, l’unico ad avergli dimostrato una vera lealtà. Toccò a Bannon e Priebus continuare a rammentargli, ripetendolo all’infinito, che, in uno dei loro rari colpi da maestri per disinnescare potenziali controversie e conquistare i conservatori, in campagna elettorale avevano lasciato filtrare l’elenco dei papabili alla Corte suprema. E avevano promesso di attenersi a quella lista, sulla quale, manco a dirlo, Giuliani non compariva affatto.
Insomma, bisognava restare su Gorsuch. E a breve Trump avrebbe giurato di non aver mai voluto altri che lui.
Il 3 febbraio la Casa Bianca ospitò la riunione accuratamente orchestrata di uno dei neonati consigli commerciali del presidente, il Forum strategico e politico. Il gruppo comprendeva direttori di aziende di primo piano e pezzi grossi del mondo degli affari radunati dal capo della Blackstone, Stephen Schwarzman, che si occupò persino della pianificazione – stesura di un’agenda precisa, ordine delle presentazioni e assegnazione dei posti, gadget di lusso – ben più della Casa Bianca. In ogni caso era il genere di evento in cui Trump se la cavava meglio, e in cui si trovava più a suo agio. Kellyanne Conway lo avrebbe citato spesso, nel contesto di un ricorrente motivo di lagnanza: eventi di quel tipo, in cui Trump si riuniva con gente seria e capace per discutere i problemi della nazione e trovare soluzioni, erano l’anima stessa della sua Casa Bianca, e i media non ne parlavano mai.
L’idea di ospitare in situ le riunioni dei consigli commerciali era una strategia di Kushner, un approccio illuminato per distrarre Trump da quella che il genero giudicava la piattaforma oscurantista della destra. Ma, per la rabbia crescente di Bannon, il vero scopo diventò permettere a Kushner stesso di entrare in contatto con uomini d’affari di altissimo calibro.
Schwarzman rispecchiava quella che per molti era un’improvvisa e sorprendente affinità tra mondo degli affari e di Wall Street e Trump. In campagna elettorale quasi nessuno, all’interno di quell’élite, lo aveva sostenuto. Molti, se non addirittura tutti, si erano preparati a una vittoria di Hillary Clinton, assumendo squadre di consulenti per le politiche statali di area clintoniana e aderendo alla convinzione unanime dei media che un eventuale successo di Trump avrebbe garantito un crollo del mercato. Poi, di punto in bianco, sembrarono cambiare idea. Una Casa Bianca pro-deregulation e la promessa di riforme fiscali controbilanciavano di gran lunga la prospettiva di tweet scandalosi e altre manifestazioni del caos trumpiano; e quanto al mercato, dal 9 novembre, il giorno dopo l’elezione, gli indici azionari non avevano più smesso di crescere. In più, i dirigenti uscivano rinfrancati dagli incontri a quattr’occhi con Trump, ammorbiditi dalla sua arte della lusinga, e dal sollievo di aver scampato l’implacabile pressione dei Clinton (del tipo: Cosa potete fare per noi oggi? Non potremmo usare noi il vostro piano?).
Dunque sì, negli elevati consessi dirigenziali era in atto un disgelo nei confronti di Trump, ma al tempo stesso crescevano le preoccupazioni di alcuni grandi marchi sul fronte dei consumi. All’improvviso il brand Trump era diventato il più grande del mondo, una sorta di nuovo Apple, ma al contrario: un brand universalmente noto e altrettanto universalmente disprezzato (almeno presso i clienti che i grandi marchi cercavano di accaparrarsi).
Un esempio su tutti. Contattato da Schwarzman, Travis Kalanick, direttore della società di trasporto automobilistico privato Uber, aveva accettato di partecipare al consiglio. La mattina della cerimonia di insediamento del presidente, arrivando al lavoro nella sede di San Francisco, i suoi dipendenti si trovarono davanti un picchetto di gente incatenata ai cancelli. A motivare la protesta era stata l’accusa che Uber e Kalanick stessero «collaborando», un termine che non evocava esattamente l’idea di un’azienda che conduce incontri sobri con il presidente per discutere di politiche commerciali. Convinti di interpretare in termini politici il rapporto di Uber con Trump, in realtà i contestatori vedevano la situazione in termini di marchio, concentrandosi su una contraddizione sostanziale. La base degli utenti di Uber è perlopiù giovane, urbana e progressista, e perciò in diretto contrasto con il conservatorismo trumpiano. Con la loro acuta sensibilità ai marchi, i millennial consideravano il connubio come qualcosa che andava ben al di là dei tentativi di influire sulle decisioni concrete di un’amministrazione: era uno scontro epico tra identità inconciliabili. La Casa Bianca di Trump rappresentava ai loro occhi non tanto il governo e le contrattazioni tra interessi contrastanti normali in politica, quanto il simbolo per eccellenza di una cultura retriva e impopolare.
Kalanick si dimise dal consiglio. Bob Iger, amministratore delegato della Disney, si limitò ad accampare un impegno precedente, astenendosi dalla riunione inaugurale.
Ma gran parte degli altri membri – a parte Elon Musk, inventore, fondatore e finanziatore di Tesla (che in seguito si sarebbe defilato) – non proveniva da società dei settori delle comunicazioni e della tecnologia. Erano: l’amministratrice delegata di General Motors Mary Barra, Ginni Rometty di IBM, l’ex amministratore delegato di General Electric Jack Welch; l’ex amministratore delegato di Boeing Jim McNerney e Indra Nooyi di PepsiCo. Trump era stato eletto dalla nuova destra, ma preferiva i dirigenti più vecchio stampo della classifica di «Fortune».
Alla riunione si presentò con tutto il suo seguito – che sembrava accompagnarlo ovunque, camminando in sincrono con lui, e che comprendeva Bannon, Priebus, Kushner, Stephen Miller e il direttore del Consiglio economico nazionale, Gary Cohn – ma gestì i lavori senza il loro aiuto. Ciascuno dei capi d’impresa seduti intorno al tavolo affrontava un tema in agenda con un intervento di cinque minuti, dopodiché Trump si incaricava delle domande. Non sembrava essersi preparato molto – anzi, niente affatto – sui diversi argomenti, ma l’interesse e il coinvolgimento dimostrati dalle domande resero la conversazione fluida e proficua. Uno dei dirigenti osservò che era quello il suo modo preferito di raccogliere informazioni: parlare di ciò che gli interessava e indurre gli altri a fare lo stesso.
L’incontro si protrasse per due ore. Dal punto di vista della Casa Bianca, il presidente aveva dato il meglio di sé. Trump si sentiva soprattutto a suo agio con persone che rispettava, e i presenti erano, a detta sua, «i più rispettati del Paese» e loro stessi sembravano rispettare lui.
Visto il risultato, lo staff si prodigò a creare situazioni congeniali a Trump, costruendogli intorno una sorta di bolla, un muro per proteggerlo dalla cattiveria del mondo. Si sforzò di replicare la formula, organizzando udienze nello Studio Ovale o in una delle sale più formali della West Wing, con Trump in veste di protagonista di fronte a un pubblico attento, e con tanto di foto ufficiali. Spesso in quelle occasioni il presidente si comportava da direttore di scena di se stesso, indicando chi e quando poteva posare per lo scatto insieme a lui.
I media hanno un filtro diligente ma selettivo quando si tratta di descrivere la quotidianità della Casa Bianca. Il presidente e la First Family non sono – almeno di norma – soggetti alla persecuzione dei paparazzi, con i loro irriverenti scatti rubati e gli interminabili dibattiti sulla vita privata, tipici del trattamento riservato alle celebrità. Persino ai presidenti investiti dai peggiori scandali viene accordato un certo riguardo. Gli sketch presidenziali del Saturday Night Live risultano divertenti perché fanno leva sulla convinzione del pubblico che anche in privato i presidenti siano persone estremamente contenute e contegnose, e le loro famiglie, che li seguono da vicino, incolori e disciplinate. L’aspetto comico di Nixon consisteva proprio nella rigidità del suo puritanesimo. Persino al culmine del Watergate, e in genere ubriaco, lo si vedeva in giacca e cravatta, inginocchiato in preghiera. Nel caso di Gerald Ford il massimo del ridicolo era stato un istante di scollamento dal contegno presidenziale, quando inciampò sulla scaletta dell’Air Force One. Ronald Reagan, che con ogni probabilità manifestava già i primi sintomi dell’Alzheimer, conservò un’immagine calibratissima di calma e sicurezza. Bill Clinton, nel bel mezzo del più grande tracollo del decoro presidenziale, veniva comunque ritratto come un uomo nel pieno controllo di sé. George W. Bush, a dispetto del profondo qualunquismo, fu presentato dai media come un condottiero. In parte è l’effetto di un rigoroso controllo d’immagine, ma in parte dipende dalla percezione del presidente come leader assoluto, almeno secondo il mito nazionale.
Donald Trump si era impegnato una vita intera a proiettare quel tipo di immagine. Il suo ideale era l’uomo d’affari in stile anni Cinquanta. Aspirava a somigliare a suo padre, o perlomeno a non deluderne le aspettative. Tranne che sul campo da golf, è difficile immaginarlo con un abbigliamento diverso dal completo da ufficio, perché di fatto non indossa altro. Il decoro – cioè un’aria di rettitudine e rispettabilità – è una delle sue fisse. Si sente a disagio quando gli uomini che lo circondano non sono in giacca e cravatta. La formalità e le convenzioni – prima che diventasse presidente, chiunque non vantasse uno status di celebrità o un patrimonio miliardario doveva chiamarlo «signor Trump» – sono un aspetto cruciale della sua identità. Il casual è nemico dell’affettazione. E l’affettazione di Trump consisteva nell’atteggiarsi a uomo potente, ricco, arrivato.
Il 5 febbraio il «New York Times» pubblicò un servizio sulla vita nella Casa Bianca in cui si raccontava che di notte il presidente vagava per la residenza, smarrito e in vestaglia: erano passate due settimane dall’insediamento e lui non aveva ancora imparato a usare gli interruttori. Trump diede di matto. Disse – e non sbagliava di molto – che lo si ritraeva come una persona instabile, una Norma Desmond in Viale del tramonto, una star al capolinea intrappolata in un mondo immaginario. (L’interpretazione dell’articolo del «Times» era opera di Steve Bannon, ma gli altri non persero tempo a adottarla.) Inutile dire che, ancora una volta, i cattivi erano i media, che si permettevano nei suoi confronti una licenza impensabile per qualsiasi altro presidente.
Non che avesse torto. Il «New York Times», in difficoltà a trattare una presidenza che giudicava apertamente aberrante, aveva aggiunto ai suoi reportage dalla Casa Bianca una nuova forma di cronaca. Oltre a riferire le esternazioni del presidente – sceverando il superfluo dal rilevante –, tendeva a evidenziarne, spesso addirittura in prima pagina, gli aspetti assurdi, penosi, fin troppo umani. I due reporter della testata più spesso presenti alla Casa Bianca, Maggie Haberman e Glenn Thrush, sarebbero diventati parte della costante litania di Trump sul fatto che i media gliel’avevano giurata. Thrush sarebbe addirittura diventato protagonista degli sketch in cui il Saturday Night Live si prendeva gioco del presidente, dei suoi figli, dell’addetto stampa Sean Spicer e dei suoi consiglieri Bannon e Conway.
Spesso fantasioso nella sua descrizione del mondo, Trump era molto obiettivo in merito all’idea che aveva di sé. Perciò confutò il ritratto che lo raffigurava come un semidemente, o quantomeno un uomo profondamente confuso, che vagava di notte nella Casa Bianca, dichiarando di non aver mai indossato una vestaglia.
«Sul serio, ti sembro il tipo da averne una?» domandò, con aria divertita, a quasi chiunque si trovasse davanti per le successive quarantotto ore. «Davvero, riesci a immaginarmi in vestaglia?»
Chi era la fonte occulta dell’informazione? Per Trump, la divulgazione di dettagli della sua vita privata diventò d’un tratto più importante della fuga di qualsiasi altro genere di notizie.
La redazione di Washington del «New York Times», piuttosto preoccupata per l’assenza della prova regina, la vestaglia, rispose con un outing: la fonte dell’informazione era Steve Bannon.
Bannon, che si spacciava per una tomba, era di fatto diventato un loquacissimo informatore segreto, la gola profonda universale. La sua indole era arguta, intensa, affabulatrice e traboccante, e la discrezione teorica aveva lasciato il posto a una cronaca costante e semipubblica delle affettazioni, della frivolezza e dell’irreparabile mancanza di serietà di tutti gli altri alla Casa Bianca. Già alla seconda settimana di presidenza, chiunque lavorasse lì pareva aver stilato un proprio elenco degli informatori più probabili e faceva del suo meglio per batterli sul tempo.
Ma un’altra probabile fonte di informazioni sulle angosce che attanagliavano l’inquilino numero uno della Casa Bianca era lui stesso. Nelle telefonate dalla camera da letto, che si susseguivano giorno e notte, Trump parlava spesso con persone che non avevano alcun motivo di rispettare il riserbo. Era un fiume di lamentele – comprese quelle sul fatto che, vista da vicino, la Casa Bianca era proprio una topaia – e molti destinatari di quelle chiamate divulgarono i dettagli delle sue rimostranze al sempre vigile e spietato mondo del gossip.
Il 6 febbraio Trump fece appunto una di quelle telefonate impulsive e non sollecitate, riversando senza alcun vincolo di confidenzialità il suo fiume di rabbia e autocommiserazione all’orecchio di una conoscenza superficiale nei media newyorkesi. La telefonata non aveva altro scopo plausibile se non quello di sfogare la sua esasperazione per il disprezzo implacabile dei media e la slealtà del suo staff.
In cima alla lista c’erano il «New York Times» e la sua reporter, Maggie Haberman, definita «una sciroccata». Gail Collins del «Times», che aveva scritto un articolo in cui confrontava sfavorevolmente Trump con il vicepresidente Pence, era «una deficiente». Poi, sempre alla voce dei media più detestabili, Trump passò alla CNN e all’assoluta slealtà del suo presidente, Jeff Zucker. Dichiarò che era stato «Trump a creare Zucker», parlando di sé in terza persona e riferendosi al successo di The Apprentice. Di più: Trump gli aveva ottenuto «di persona» il lavoro alla CNN. «Proprio così, sono stato io» affermò.
Così ripeté una storia che raccontava ossessivamente a qualsiasi interlocutore. A una cena, non ricordava quando, il suo vicino a tavola era un «galantuomo di nome Kent», senz’altro Phil Kent, ex amministratore delegato di Turner Broadcasting, la divisione della Time Warner responsabile della CNN. Il galantuomo in questione aveva «un elenco di quattro nomi», tre dei quali sconosciuti a Trump, che però aveva riconosciuto il quarto, Jeff Zucker, per via di The Apprentice. «Era l’ultimo della lista e ho convinto io quel Kent a piazzarlo al primo posto. Non avrei dovuto, perché Zucker non è poi tanto intelligente, ma mi piace dimostrare che ho il potere di fare certe cose.» E una volta ottenuto l’incarico, Zucker – peraltro «un vero disastro, che ha combinato un casino con gli ascolti» – aveva cambiato atteggiamento, e aveva giudicato «incredibilmente disgustoso» il contenuto del dossier russo, compresa la pratica delle piogge dorate, alla quale, secondo la CNN, Trump aveva partecipato con varie prostitute.
Liquidato Zucker, il presidente degli Stati Uniti si addentrò in dettagli sulle piogge dorate. Dopodiché definì l’intero dossier parte di una campagna diffamatoria con cui i media cercavano – invano, peraltro – di sfrattarlo dalla Casa Bianca. Quella era gente che non sapeva perdere e, siccome lo odiava per aver vinto, si era messa a diffondere balle assurde, cose inventate al cento per cento, falsità totali, per esempio l’articolo di copertina di «Time» di quella settimana – a proposito, rammentò al suo interlocutore, lui sulla copertina di «Time» era apparso più volte di qualsiasi altro personaggio nella storia – in cui si attribuiva a Steve Bannon, che invece era un bravissimo ragazzo, la dichiarazione di essere lui il vero presidente. «Quanta influenza credi che abbia Steve Bannon su di me?» chiese, imbufalito, ripetendo la domanda e poi anche la risposta: «Zero! Zero!». Il che valeva anche per suo genero, che aveva ancora un sacco da imparare.
I media non stavano danneggiando soltanto lui, disse – non cercava né conferme né alcun tipo di risposta –, ma anche il suo potere negoziale, e di conseguenza l’intera nazione. Valeva anche per il Saturday Night Live, che forse si credeva spiritoso, ma in realtà remava contro tutta la popolazione del Paese. E, d’accordo, magari era inevitabile che un programma come il Saturday Night Live si prendesse gioco di lui, ma adesso stavano proprio esagerando: erano davvero in malafede. Per giunta la loro satira rientrava nella categoria delle fake news, perché lui aveva esaminato di persona tutti gli sketch sugli altri presidenti e non aveva visto nulla di paragonabile alle caricature toccate a lui, per quanto anche Nixon venisse trattato in modo molto ingiusto. «Kellyanne, che è una a posto, ha documentato tutto. Puoi vederlo con i tuoi occhi, se vuoi.»
Il punto, disse, era che quel giorno lui aveva salvato settecento milioni annui, trattenendo negli Stati Uniti posti di lavoro che senza il suo intervento sarebbero finiti in Messico, e, invece di parlarne, i media lo descrivevano in vestaglia, «che io non ho, perché non ho mai avuto una vestaglia in vita mia. Non le uso, non sono quel tipo di uomo». I media stavano minando la dignità della Casa Bianca, quando invece «la dignità è una cosa così importante». Però Murdoch, «che prima non mi aveva mai telefonato, manco una volta», adesso lo chiamava di continuo. Già solo questo la diceva tutta.
Il monologo durò ventisei minuti.