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Bannon
Steve Bannon fu il primo membro di vertice dello staff di Trump a entrare nella Casa Bianca dopo l’insediamento. Lui e Katie Walsh, appena nominata vice del capo di gabinetto Reince Priebus, che aveva già affiancato nella direzione del Comitato nazionale repubblicano, se l’erano filata dalla marcia inaugurale per correre a ispezionare la West Wing deserta. A parte la moquette appena lavata, non era cambiato molto da quando c’era insediata l’amministrazione precedente. Era un dedalo di minuscoli uffici che avrebbero avuto bisogno di un’imbiancata e una ripulita, arredati né più né meno come la segreteria di un’università statale. Bannon reclamò per sé un anonimo ufficetto di fronte alla più lussuosa suite del capo di gabinetto e subito requisì le lavagne bianche su cui avrebbe tracciato gli schemi dei primi cento giorni dell’amministrazione Trump. Poi si sbarazzò dei mobili. Il suo obiettivo era che nessuno, entrando nel suo ufficio, trovasse da sedersi. Non ci sarebbero state riunioni, o comunque non del genere in cui la gente può mettersi comoda. Discussioni e dibattiti andavano ridotti all’osso. La loro era una guerra e quell’ufficio la loro sala operativa.
Molti di quanti avevano lavorato con lui durante la campagna e nel periodo di transizione notarono un cambiamento. Conquistato il primo traguardo, Bannon era già passato a quello successivo. E, da uomo determinato qual era, cominciò a perseguirlo con un livello di concentrazione e abnegazione persino superiore a prima.
«Che gli è preso a Steve?» domandava Kushner. «Ha qualcosa che non va?» E cose del tipo: «Non capisco. Prima eravamo così in sintonia».
Fin dalla prima settimana Bannon sembrò aver messo da parte il cameratismo della Trump Tower, inclusa la disponibilità ad approfondire qualsiasi argomento e a qualsiasi ora. Diventò molto più distante, se non addirittura inaccessibile. Per usare le sue parole: «Sono concentrato sui cazzi miei». Aveva da fare. Ma molti ritennero che ciò che aveva da fare fosse ordire congiure contro di loro. E in effetti la sua natura di complottista era uno dei tratti fondamentali della sua personalità. Colpire prima di essere colpito, prevedere le mosse altrui e lanciare attacchi preventivi: per lui era questa la lungimiranza, la capacità di prefissarsi obiettivi precisi. Il primo era stato l’elezione di Donald Trump; il secondo nominare i membri del suo governo. Adesso bisognava catturare l’anima della sua Casa Bianca e Bannon, diversamente dagli altri, aveva già capito che sarebbe stata una lotta mortale.
Nei primi giorni della transizione, Bannon aveva suggerito alla squadra di Trump di leggere Le teste d’uovo, di David Halberstam (Jared Kushner era stato uno dei pochi a seguire il consiglio). «Leggere questo libro è un’esperienza davvero emozionante» aveva cercato di entusiasmarli. «Spiega com’è fatto il mondo, i personaggi sono strepitosi, ed è tutto vero.»
In parte era una questione di immagine: Bannon badava sempre a mettere il volume bene in vista quando corteggiava un giornalista liberal. Ma stava anche cercando di impartire una lezione, una lezione importante, considerate le procedure di selezione a dir poco approssimative della squadra di transizione. Il messaggio che voleva far passare era: Attenti a chi assumete.
Il libro di Halberstam, pubblicato nel 1972, è un tentativo tolstojano di comprendere come le migliori menti del mondo accademico, intellettuale e militare, che avevano servito sotto le amministrazioni Kennedy e Johnson, avessero frainteso così clamorosamente la natura della guerra del Vietnam, gestendola di conseguenza in modo catastrofico. Quella storia faceva capire molte cose sull’establishment degli anni Sessanta, precursore di quello che adesso Trump e Bannon stavano sfidando con tanta aggressività.
Al contempo il libro serviva anche da guida per entrare a far parte dell’establishment stesso. Per la generazione di futuri legislatori, aspiranti leader mondiali e ambiziosi giornalisti della Ivy League nata negli anni Settanta – quella di Bannon, che però era ben distante da quella sedicente élite –, Le teste d’uovo era un manuale sulle caratteristiche del potere americano e sulle vie per raggiungerlo. Non soltanto la formazione e le scuole giuste, ma anche gli atteggiamenti, i principi e il linguaggio più efficaci per guadagnarsi l’accesso alla stanza dei bottoni. Molti lo consideravano più un prontuario su cosa fare per conquistare la vetta, invece che – com’era in effetti nelle intenzioni dell’autore – su cosa non fare quando ci sei arrivato. Il libro descriveva persone che meritavano di stare al potere. Al college Barack Obama se n’era innamorato, come pure Bill Clinton, ai tempi in cui, insignito della prestigiosa borsa di studio Rhodes, frequentava l’università di Oxford.
Leggendolo sembrava di vedere e toccare il potere della Casa Bianca. Lo stile solenne, cadenzato e spesso pomposo di Halberstam si sarebbe riflettuto nel giornalismo presidenziale ufficiale per il successivo mezzo secolo. Persino gli inquilini più chiacchierati o meno dotati della Casa Bianca erano trattati come personalità uniche, giunte alla massima carica dopo una selezione politica darwiniana. Bob Woodward, il giornalista che aveva contribuito ad abbattere Nixon – e a sua volta diventato creatore di incontestati miti presidenziali –, scrisse un intero scaffale di libri in cui le azioni meno illuminate dei presidenti apparivano come tappe ineludibili di un’epocale assunzione di responsabilità, in virtù della quale bisognava prendere decisioni di vita e di morte. Solo il più cinico dei lettori non avrebbe sognato a occhi aperti di entrare a far parte di tutto questo.
Steve Bannon, per parte sua, lo sognava eccome.
Ma se Halberstam aveva definito il contegno presidenziale, Trump lo aveva sfidato e infangato. Nessuna delle sue qualità poteva collocarlo nella schiera riverita delle personalità dotate di carattere e autorevolezza presidenziali. E proprio questo, in un curioso capovolgimento delle premesse del libro, aveva creato l’opportunità colta da Steve Bannon.
Un improbabile candidato presidenziale sarà, per forza di cose, circondato da collaboratori improbabili e spesso inesperti: questo perché quelli credibili si saranno già schierati con il candidato più credibile. E quando un candidato improbabile vince – e le possibilità di quella vittoria aumentano, se un outsider riesce a conquistarsi una buona fetta di elettorato –, la Casa Bianca si riempie dei personaggi più bizzari. Certo, una delle tesi del libro di Halberstam, e della campagna di Trump, è che anche chi, all’apparenza, è più degno dell’incarico può commettere errori catastrofici. Da qui la conclusione di Trump che i veri geni si trovino ai margini dell’establishment.
Ciò detto, pochi sarebbero stati più improbabili di Steve Bannon.
Bannon non aveva mai lavorato in politica finché, a sessantatré anni suonati, si era unito alla campagna di Trump. L’incarico di «capo stratega» – il suo titolo nella nuova amministrazione – non era solo il suo primo nel governo federale, ma persino nel settore pubblico. («Stratega!» sbottò Roger Stone, che prima dell’avvento di Bannon era stato uno dei capo strateghi di Trump.) Senza contare lo stesso Trump, Bannon era senza alcun dubbio l’esordiente più vecchio ad aver mai messo piede dentro la Casa Bianca.
E la gavetta che ce lo aveva portato era a dir poco inconsistente.
Scuole cattoliche a Richmond, in Virginia; un college dello stesso Stato, la Virginia Tech; poi sette anni in marina, servendo con il grado di tenente prima sulle navi e poi al Pentagono. Durante il servizio aveva conseguito un master alla School of Foreign Service della Georgetown University, salvo poi rinunciare alla carriera navale in favore di un master in Business Administration alla Harvard Business School, cui erano seguiti quattro anni come consulente finanziario in Goldman Sachs – gli ultimi due dedicati all’industria dei media a Los Angeles –, senza mai superare una posizione di medio livello.
Nel 1990, a trentanove anni, lanciò la Bannon & Co., una società di consulenza finanziaria per l’industria dell’intrattenimento. Di fatto si trattava di una sorta di società fantasma e improvvisata, una minuscola impresa in un settore caratterizzato da un piccolo nucleo di attività di successo intorno al quale ruotavano tutte le altre: le emergenti, le aspiranti, quelle in caduta libera e le fallite. La Bannon & Co. era riuscita a evitare la caduta libera e il fallimento e aveva raggiunto lo status di aspirante raccogliendo modesti finanziamenti per film indipendenti, nessuno dei quali era mai uscito dall’ombra.
Bannon stesso aveva qualcosa del personaggio cinematografico. Era un «tipo». Problemi di alcol. Pessimi matrimoni. A corto di soldi in un ambiente dove la misura del successo è il fasto più sfrenato. Costantemente impegnato nella ricerca – vana quanto ostinata – della sua occasione.
Per essere un uomo con un così spiccato senso del proprio destino, manteneva un profilo piuttosto basso. Prima di diventare senatore degli Stati Uniti e governatore del New Jersey, Jon Corzine era stato amministratore delegato di Goldman, dando la scalata alla banca d’affari proprio nel periodo in cui ci lavorava Bannon, eppure di lui non si era mai accorto. Quando Bannon fu messo a capo della campagna di Trump, diventando agli occhi della stampa una celebrità – o per meglio dire un’incognita –, d’un tratto al suo curriculum si aggiunse una storia contorta di come la Bannon & Co. avesse negoziato la vendita dei diritti di produzione di Seinfeld, una sitcom di grande successo, e fosse quindi partecipe dei suoi introiti ventennali. Eppure nessuno dei protagonisti, creatori o produttori l’aveva mai sentita nominare.
Mike Murphy, consulente repubblicano dei media che gestiva il comitato per l’azione politica di Jeb Bush ed era diventato una figura di punta del movimento anti-Trump, ricorda vagamente che, circa dieci anni prima, Bannon si era rivolto alla sua società di pubbliche relazioni per un film che stava producendo. «Mi hanno detto che era presente alla riunione, ma sinceramente non lo ricordo proprio.»
Il «New Yorker», incuriosito dal suo enigma – in sostanza riassumibile nell’interrogativo: com’è possibile che tutti i media ignorassero l’esistenza di un uomo di colpo tra i più potenti del governo? –, indagò sul suo conto a Hollywood, in pratica senza trovare traccia del suo passaggio. Il «Washington Post» fece lo stesso, risalendo ai suoi vari indirizzi, senza esiti chiari salvo una possibile denuncia per frode elettorale.
A metà degli anni Novanta Bannon si aggiudicò un ruolo significativo in Biosphere 2, un progetto copiosamente finanziato da Edward Bass, rampollo dell’omonima famiglia di petrolieri, con l’obiettivo di creare un habitat artificiale per gli esseri umani allo scopo di studiare la possibilità di colonizzare lo spazio («Time» lo definì una delle cento idee peggiori del secolo: nient’altro che il capriccio di un miliardario). Bannon, costretto a cercare le sue occasioni in situazioni già compromesse, scese in campo per salvare il progetto, ottenendo il solo risultato di aggravare la disorganizzazione e moltiplicare le dispute legali, comprese denunce per molestie e vandalismo.
Dopo il disastro di Biosphere 2, partecipò alla raccolta fondi per il lancio di una società di videogiochi online che andava sotto il nome di Internet Gaming Entertainment (IGE). Era nata dalle ceneri della Digital Entertainment Network (DEN), i cui titolari – compreso l’ex bambino prodigio Brock Pierce (star di Stoffa da campioni) – erano stati indagati per abuso sessuale su minori. Pierce fu esautorato dalla IGE e Bannon ne diventò amministratore delegato, dopodiché la società fu sepolta da una valanga di cause legali.
Quella di inserirsi in aziende già in affanno è una strategia di business opportunistica. Ma c’è affanno e affanno. Il tipo di situazioni alla portata di Bannon erano infestate da conflitti e nefandezze, erano casi pressoché disperati: in sostanza si trattava di assumere la gestione di fondi agli sgoccioli e tentare di trarne un piccolo profitto. Il che spesso significa vivere circondati da gente che se la passa molto meglio. Bannon non smetteva di cercare la sua occasione, ma continuava a sbagliare bersaglio.
Gli investitori come lui sono detti anche «in controtendenza», e fu proprio quell’aspetto del suo carattere – un misto di scontento personale, rancore generalizzato e istinto da giocatore d’azzardo – a diventare sempre più preponderante. In parte il suo anticonvenzionalismo era radicato nelle esperienze pregresse: la famiglia d’origine, irlandese, cattolica, operaia; le scuole cattoliche; i tre matrimoni sbagliati seguiti da divorzi acrimoniosi (i giornalisti avrebbero dato molto peso alle recriminazioni contenute nell’istanza di divorzio presentata dalla seconda moglie).
Non molto tempo fa, un uomo come lui avrebbe potuto imporsi come un personaggio tipicamente moderno, una sorta di antieroe romantico. L’ex militare emerso dal proletariato che aveva annaspato tra matrimoni infelici e carriere insoddisfacenti, sempre a disagio nel mondo dell’establishment che lo respingeva e che lui stesso voleva al contempo conquistare e distruggere: una figura uscita dai romanzi di Richard Ford, John Updike o Harry Crews. La storia dell’uomo americano. Che però, politicamente, si era spostato a destra. I modelli di Bannon erano i ribelli come Lee Atwater, Roger Ailes, Karl Rove: figure leggendarie in lotta con il conformismo e la modernità, che godevano a scandalizzare i liberal.
In più, per quanto intelligente e carismatico, e sebbene si spacciasse per un «tipo a posto», Bannon non era necessariamente una brava persona. È difficile che un imbroglione esca riformato da decenni di sforzi imprenditoriali privi di grandi soddisfazioni. Uno dei suoi concorrenti nel campo dei media conservatori, pur riconoscendo l’astuzia e l’ambizione delle sue idee, disse di lui: «È cattivo, disonesto e incapace di provare interesse per il prossimo. Si guarda sempre in giro come se stesse cercando un’arma con cui picchiarti o sgozzarti».
I media conservatori non soltanto si addicevano al suo lato rancoroso, controcorrente e cattolico, ma erano anche più accessibili. È ben più dura farsi strada in quelli liberal, con le loro gerarchie corporative. Inoltre, i media conservatori hanno un mercato di riferimento molto redditizio, con libri che spesso dominano la classifica dei bestseller, video e altri prodotti resi disponibili attraverso canali di vendita diretta e dunque aggirando le spese di distribuzione.
All’inizio del nuovo millennio, Bannon diventò un fornitore proprio di quel genere di libri e media. Il suo socio nell’impresa era David Bossie, libellista di estrema destra e capo delle indagini condotte dal Congresso sullo scandalo Whitewater dei Clinton, e che sarebbe diventato il suo vice nella campagna di Trump. Proprio alla proiezione di In the Face of Evil, un documentario prodotto in coppia con Bossie (e presentato in locandina come «la crociata di Ronald Reagan per distruggere il sistema politico più tirannico e depravato che il mondo abbia mai conosciuto»), Bannon conobbe Andrew Breitbart, fondatore di Breitbart News, contatto che gli permise di stringere un legame con l’uomo che gli avrebbe offerto l’occasione della vita: Robert Mercer.
Bannon non era un imprenditore visionario, e nemmeno disciplinato. Lui si limitava a inseguire il suo profitto, o a cercare di spillare soldi agli ingenui. E Bob e Rebekah Mercer, che dell’ingenuità avevano fatto un mestiere, facevano proprio al caso suo. Bannon incanalò tutti i suoi talenti imprenditoriali nel ruolo di cortigiano, Svengali e consulente di investimenti politici di padre e figlia.
La missione dei due era orgogliosamente donchisciottesca. Avrebbero profuso grosse somme di denaro – comunque risibili rispetto ai miliardi di Bob Mercer – nella creazione di un movimento americano radicale, liberista e antiliberal, favorevole a imporre limiti ai poteri del governo, propenso all’istruzione privata, al gold standard, alla pena di morte e alle chiese cristiane, antimusulmano e insofferente dei diritti civili.
Bob Mercer è un fine analista, un ingegnere che progetta algoritmi di investimento diventato coamministratore delegato della Renaissance Technologies, una delle società di speculazione finanziaria di maggior successo in assoluto. Con la figlia Rebekah fondò quello che era a tutti gli effetti un movimento Tea Party privato, finanziando qualsiasi iniziativa alt-right – di destra alternativa – o populista attirasse la loro attenzione. Entrambi sono personaggi eccentrici in massimo grado. Bob Mercer è un tipo anche troppo taciturno, che durante una conversazione si limita a fissare il suo interlocutore con sguardo vacuo, senza aprir bocca o reagire in alcun modo alle sue parole. Quando invitava ospiti sul suo yacht, passava tutto il tempo alla tastiera di uno Steinway a mezza coda, ignorandoli completamente. Tuttavia, per quanto era dato capirle, le sue convinzioni politiche erano di area Bush, e le sue dichiarazioni, ammesso di riuscire a estorcergli una parola, riguardavano la presenza sul territorio e la raccolta dati. Ben più incisiva era Rebekah Mercer, che aveva legato con Bannon e le cui posizioni politiche erano truci, inflessibili e dottrinarie. «È matta… matta da legare…» disse di lei un membro di vertice dello staff della Casa Bianca di Trump. «Di ideologie con lei è assurdo parlare.»
Alla morte di Andrew Breitbart, nel 2012, Bannon, che in sostanza deteneva la procura sull’investimento dei Mercer nel sito, gli succedette come capo della società. Facendo tesoro della sua esperienza nel campo dei videogiochi lanciò la campagna Gamergate, un movimento alt-right che faceva dell’odio – e delle molestie – verso le donne che lavorano nell’industria dei videogiochi la propria ragion d’essere, e che generò enormi quantità di traffico diffondendo meme politici virali. (Durante una conversazione a notte fonda, alla Casa Bianca, Bannon avrebbe sostenuto di sapere esattamente come costruire una Breitbart su misura per la sinistra, e con un vantaggio chiave, perché «quelli di sinistra vogliono vincere il Pulitzer, mentre io voglio essere Pulitzer!».)
Lavorando – e abitando – nella residenza affittata da Breitbart a Capitol Hill, Bannon diventò uno dei sempre più numerosi notabili del Tea Party a Washington: il consigliere dei Mercer. Ma restava una figura marginale. Il suo progetto principale era la carriera di Jeff Sessions – o «Beauregard», come lo chiamava confidenzialmente lui, usando il suo secondo nome in omaggio al generale confederato –, uno dei personaggi più controcorrente e originali del Senato, di cui cercò di promuovere la candidatura alle presidenziali nel 2012.
Donald Trump era un gradino più su e nel 2016, all’inizio della gara elettorale, diventò il totem di Breitbart. Molte delle affermazioni di Trump durante la campagna elettorale erano tratte da articoli di Breitbart News che gli venivano passati dallo stesso Bannon, e quest’ultimo cominciò a vantarsi di essere, come Ailes al tempo di Fox News, la vera forza dietro il candidato.
Quanto alle sue credenziali, al suo comportamento o alla sua eleggibilità, Bannon non li metteva in discussione, anche perché per lui Trump non era che l’ennesimo uomo ricco da spennare. E nel mondo imprenditoriale – almeno ai livelli infimi – un uomo ricco è un dato di fatto: non lo si contesta, lo si accetta e lo si manipola. E comunque, se Trump avesse avuto credenziali più solide, un comportamento migliore e un’eleggibilità incontestabile, non sarebbe stato alla portata di Bannon.
Da profittatore marginale, invisibile e di piccola tacca – nello stile dei personaggi di Elmore Leonard –, Bannon subì un’improvvisa metamorfosi al suo ingresso nella Trump Tower, dove entrò la prima volta il 15 agosto per non uscirne più (salvo, di tanto in tanto, la notte per andare a dormire qualche ora nella sua residenza provvisoria nel centro di Manhattan) fino al 17 gennaio, quando la squadra di transizione si trasferì a Washington. Alla Trump Tower non c’era nessuno a contendergli il ruolo di eminenza grigia. Tra le altre figure principali, né Kushner né Priebus né la Conway, e di certo non il presidente neoeletto, avevano la capacità di esprimere opinioni o tesi in modo coerente. Di default, dovevano tutti rivolgersi all’uomo volubile, aforistico, caotico, caustico e impulsivo che non soltanto era sempre disponibile, poiché in sostanza viveva in ufficio, ma per giunta vantava la caratteristica, rarissima nella Tower, di aver letto almeno un paio di libri.
E che, durante la campagna, si dimostrò capace di condurre l’operazione Trump e di imbrigliarne il caos filosofico convogliandolo in un unico obiettivo: per centrare la vittoria bisognava trasmettere un messaggio economico e culturale alla classe operaia bianca di Florida, Ohio, Michigan e Pennsylvania.
Bannon collezionava nemici. Tuttavia pochi sapevano gettare benzina sul fuoco del suo feroce rancore contro il mondo repubblicano convenzionale quanto Rupert Murdoch, se non altro perché a Murdoch Trump dava ascolto. Era una delle caratteristiche che ormai aveva imparato a conoscere del suo candidato: a esercitare l’influenza più grande su Trump era sempre l’ultima persona con cui aveva parlato. Trump si vantava che Murdoch gli telefonasse di continuo, e Murdoch, per parte sua, si lagnava della logorrea del tycoon.
«Non sa niente di politica americana e non ha la minima percezione di come ragiona l’elettorato statunitense» diceva Bannon a Trump, cogliendo ogni opportunità per sottolineare le origini australiane di Murdoch. Ma il suo capo lo adorava lo stesso. Con la sua passione per i «vincenti» – categoria di cui Murdoch rappresentava il paradigma –, Trump di punto in bianco cominciò a sparlare dell’amico Ailes, bollandolo come un «perdente».
E tuttavia, almeno per un aspetto, l’ascendente di Murdoch sul presidente tornò utile a Bannon. Avendo conosciuto tutti i presidenti da Harry Truman in poi – cosa di cui non faceva che pavoneggiarsi – e, secondo i suoi calcoli, più capi di Stato di qualsiasi altra persona al mondo, Murdoch era convinto di capire molto meglio degli uomini più giovani – compreso Trump, che pure di anni ne aveva settanta – che il potere politico è effimero. (Aveva ribadito la stessa cosa anche a Barack Obama.) Un presidente aveva al massimo sei mesi per esercitare un impatto sull’opinione pubblica e stabilire la sua agenda, e questo nei casi più fortunati. Il resto del mandato l’avrebbe speso a risolvere emergenze e a lottare con l’opposizione.
Era un messaggio che Bannon stesso aveva cercato di inculcare a Trump, e con una certa urgenza, data la proverbiale disattenzione del presidente. Già nelle prime settimane alla Casa Bianca Trump aveva cercato di ridurre il numero di riunioni quotidiane e di limitare le ore di lavoro per non vedersi costretto a sacrificare il tempo che per abitudine dedicava al golf.
La visione strategica del governo che aveva Bannon era assimilabile a quella di un’operazione militare: «dominio rapido». Imporsi anziché negoziare. Il suo sogno lo aveva portato dritto al cuore del potere burocratico più vasto del mondo, ma lui non si vedeva come un burocrate. Aveva una missione più alta, e apparteneva a un ordine morale superiore. Era un vendicatore. E, almeno ai suoi occhi, un uomo trasparente e diretto. Quelli come lui hanno il dovere etico di far seguire alle parole i fatti: se dici una cosa, dopo devi metterla in pratica.
E Bannon aveva già in mente una serie di azioni decisive che non solo avrebbero segnato i giorni inaugurali dell’amministrazione, ma chiarito in modo inequivocabile che niente sarebbe più stato come prima. Aveva sessantatré anni, non aveva tempo da perdere.
Bannon aveva studiato approfonditamente la natura degli ordini esecutivi. Negli Stati Uniti non si può governare per decreto, anche se in realtà si può eccome. Per ironia della sorte, era stata proprio l’amministrazione Obama, alle prese con un Congresso recalcitrante, a premere il pedale sugli ordini esecutivi. E adesso, come in un gioco a somma zero, quelli di Trump avrebbero annullato quelli di Obama.
Durante la transizione, Bannon e Stephen Miller, un ex assistente di Sessions poi passato alla campagna di Trump e diventato braccio destro di Bannon, compilarono un elenco di oltre duecento ordini esecutivi da emettere nei primi cento giorni.
Per Bannon però la priorità assoluta era l’immigrazione. Gli stranieri erano il cruccio numero uno nell’universo delle manie trumpiane. Il tema era spesso liquidato come una fissa delle frange estremiste – uno dei suoi paladini più accaniti era Jeff Sessions, tanto per fare un esempio –, ma Trump era fermamente convinto che molti americani ne avessero fin sopra i capelli degli stranieri, e Bannon, che già aveva condiviso la preoccupazione con Sessions, ora aveva la sua occasione di appurare se il nativismo potesse essere un cavallo vincente. L’esito delle elezioni era la prova che non bisognava più esitare a dichiararsi apertamente etnocentrici convinti.
Con il valore aggiunto che l’argomento faceva schiumare di rabbia i liberal.
Per quanto imposte con lassismo, le leggi sull’immigrazione arrivavano dritte al cuore della nuova filosofia liberal e, agli occhi di Bannon, ne smascheravano l’ipocrisia. Nella visione del mondo liberal, la diversità era un bene assoluto, mentre lui era convinto che qualsiasi persona ragionevole e non accecata dall’ideologia dovesse rendersi conto che le ondate di immigrati si portavano dietro un enorme carico di problemi: bastava guardare l’esempio europeo. E quei problemi non finivano sulle spalle dei liberal, che vivevano nella bambagia, ma su quelle dei cittadini più vulnerabili, all’estremo opposto dello spettro economico.
Guidato dall’istinto o da un intuito politico da idiot savant, Trump aveva fatto sua la questione, osservando di frequente: «Ma americani veri non ce ne sono più?». In alcune delle sue prime esternazioni politiche, persino precedenti l’elezione di Obama nel 2008, aveva parlato con stupore e risentimento delle rigorose quote imposte in Europa all’immigrazione, in contrasto con l’alluvione che, dall’«Asia e altri posti», aveva investito l’America (alluvione che, per quanto in crescita, si rivelava, a una semplice verifica dei dati, un flusso piuttosto modesto). La sua ossessione per il certificato di nascita di Obama era un corollario della sua tesi sulla piaga degli stranieri non europei, un’autentica calamita per razzisti: chi era quella gente? E cosa ci faceva a casa nostra?
A volte, durante la campagna, Trump aveva fatto riferimento a un dato demografico di notevole impatto. Sfoderava una mappa del Paese in cui erano illustrate le origini maggioritarie, Stato per Stato, della popolazione immigrata. Cinquant’anni fa la provenienza era mista e in gran parte europea. Ora la stessa mappa mostrava che, in tutti e cinquanta gli Stati, l’origine dominante era sempre la stessa: il Messico. Dal punto di vista di Bannon, era questa la realtà con cui un operaio americano si trovava a confrontarsi ogni giorno: la concorrenza crescente di una manodopera alternativa e a basso costo.
Per quanto scarsa, l’intera carriera politica di Bannon aveva riguardato i media. E in particolare internet, cioè un mezzo di comunicazione caratterizzato da tempi di risposta istantanei. La formula Breitbart consisteva nel far inorridire i liberal, generando una raffica di clic sia di disgusto sia di approvazione. La definizione di sé dipendeva dalla reazione del nemico. Il conflitto era il pane quotidiano dei media, e dunque la pastura della politica. Che per Bannon non era più l’arte del compromesso: nella nuova visione era l’arte del conflitto.
Il vero obiettivo era smascherare l’ipocrisia della tesi liberal. Chissà come, a dispetto di leggi, normative e dogane, i globalisti avevano venduto il mito di un’immigrazione pressoché libera. E l’ipocrisia era duplice perché, sottobanco, l’amministrazione Obama era stata piuttosto aggressiva nella deportazione degli immigrati clandestini, ma questo ai liberal non lo si poteva dire.
«La gente vuole tornare padrona a casa sua» diceva Bannon. «Tutto qui.»
Nei piani di Bannon, gli ordini esecutivi dovevano scrostare la vernice liberale da un processo di fatto illiberale. E invece di conseguire i suoi obiettivi con il minor clamore possibile, lui puntò a sollevare il massimo del polverone.
La domanda ovvia di chiunque ritenesse che la prima funzione di un governo fosse evitare i conflitti era: ma perché provocare una controversia?
A chiederselo erano, per esempio, i funzionari. Quelli freschi di nomina, appena arrivati nelle agenzie e nei dipartimenti coinvolti, tra cui quello della Sicurezza interna – l’allora ministro, il generale John Kelly, l’avrebbe giurata a Trump per il caos scatenato dall’ordine esecutivo sull’immigrazione –, avevano sperato di avere almeno il tempo di orientarsi prima di dover gestire politiche nuove, traumatiche e contestate. E i funzionari che erano rimasti al loro posto – molte delle cariche esecutive erano ancora occupate da persone nominate da Obama – non riuscivano a spiegarsi per quale motivo la nuova amministrazione si fosse messa a sbandierare procedure per la gran parte già in vigore, riformulandole in termini provocatori solo per scatenare l’opposizione dei liberal.
Ma l’obiettivo era proprio questo. La missione di Bannon era far scoppiare la bolla del mondialismo liberal, rivelando che il re era nudo, con l’arma a suo avviso più ovvia: il loro rifiuto di ammettere i problemi colossali e i costi insostenibili di un’immigrazione incontrollata. Voleva costringerli a riconoscere che anche i governi liberal, compreso quello di Obama, avevano cercato di contenere i flussi migratori, e che il loro impegno era stato intralciato dal rifiuto di ammetterlo da parte dei liberal.
L’ordine esecutivo avrebbe espresso a chiare lettere la visione spietata della nuova amministrazione (o di Bannon). Il problema era che lui non sapeva di preciso come si fa a cambiare una legge o una normativa. Un ostacolo non indifferente, e Bannon ne era ben consapevole. Come al solito, le procedure gli remavano contro. Ma anche solo promulgare il decreto – infischiandosene del come – e farlo subito poteva rappresentare una misura di grande impatto.
«Fare, a prescindere» diventò il suo principio guida, l’antidoto universale all’ennui e alla resistenza burocratica e dell’establishment. Era l’impeto caotico del fare a portare ai risultati. Peccato che, anche partendo dalla premessa che non contava saper fare qualcosa per farla, restasse il problema di chi se ne sarebbe occupato. E dal momento che nessuno, nell’amministrazione di Trump, sapeva fare alcunché, non era chiaro che cosa facessero, di preciso.
Sean Spicer, che aveva proprio il compito di spiegare alla nazione cosa facesse ciascuno di loro, e con quali finalità, spesso si trovava in seria difficoltà, perché nessuno aveva un incarico preciso, e anche se l’avesse avuto non avrebbe saputo svolgerlo.
In qualità di capo di gabinetto, Priebus doveva occuparsi di organizzare le riunioni, stabilire la scaletta degli impegni e assumere il personale; doveva anche supervisionare il funzionamento dei vari uffici interni all’esecutivo. Ma Bannon, Kushner, la Conway e la figlia del presidente di fatto non avevano funzioni specifiche, se le inventavano strada facendo. Erano liberi di seguire la propria ispirazione. Avevano delle idee e, se se ne fosse presentata la possibilità, le avrebbero messe in pratica, solo che non sapevano come.
Bannon, per esempio, che pure predicava l’imperativo dell’efficienza a tutti i costi, non usava il computer. E come fa a lavorare? si domandava Katie Walsh. Ma era questa la differenza tra i grandi visionari e i semplici esecutori. Le procedure erano una stronzata. La competenza era l’ultimo rifugio dei liberal, sempre sconfitti dalla pochezza della loro visione. Per compiere le grandi imprese serve forza di volontà, non tecnica. «Non preoccuparti dei dettagli» era una buona sintesi della Weltanschauung di Trump e di Steve Bannon. O, nelle parole della Walsh, «la strategia di Steve era il caos».
Bannon incaricò Stephen Miller di scrivere l’ordine esecutivo sull’immigrazione. Miller, un cinquantacinquenne intrappolato nel corpo di un trentaduenne, era stato assunto nello staff di Trump in virtù della sua esperienza politica. Ma, a parte l’indiscussa dedizione al conservatorismo di estrema destra, non era chiaro per quali capacità l’avessero segnalato a Bannon. Ufficialmente scriveva discorsi, ma il suo stile consisteva in frasette da presentazione in PowerPoint: sembrava incapace di costruire un periodo complesso. Avrebbe dovuto fungere da consigliere sulle politiche, ma di politica non sapeva niente. Era considerato l’intellettuale di riferimento ma, da militante duro e puro, aveva letto pochissimo. Si spacciava per un esperto di comunicazione, ma nei fatti si inimicava quasi tutti. In ogni caso fu a lui che, durante la transizione, Bannon ordinò di fare una ricerca su internet, per impratichirsi nella stesura di un ordine esecutivo.
Perciò, al suo arrivo alla Casa Bianca, Bannon aveva pronti un abbozzo dell’ordine esecutivo sull’immigrazione e il Muslim ban, in origine il divieto tassativo e assoluto, in perfetto stile trumpiano, ai cittadini provenienti da molti Paesi musulmani di arrivare negli Stati Uniti, e che poi, su insistenza di Priebus, si era dovuto ammorbidire a un livello solo draconiano.
Nella foga di cogliere l’occasione e in un clima di incompetenza pressoché totale, alla bizzarria del numero di spettatori presenti alla cerimonia di insediamento e al delirante discorso al quartier generale della CIA fece seguito, senza che quasi nessuno nel governo federale lo avesse letto o ne sapesse alcunché, un ordine esecutivo che ribaltava la politica di immigrazione degli Stati Uniti. Scavalcando avvocati e legislatori, oltre alle agenzie e al personale cui sarebbe spettato metterlo in pratica, il presidente Trump – incalzato dalla voce bassa e insistente di Bannon, che alle sue spalle faceva da suggeritore – firmò il documento che gli era stato messo davanti.
Venerdì 27 gennaio, il travel ban fu siglato ed entrò immediatamente in vigore. Il risultato fu un fiume in piena di orrore e indignazione da parte dei media liberal, il terrore nelle comunità di immigrati, proteste e disordini in tutti gli aeroporti principali, la confusione in tutti gli organi di governo, mentre la Casa Bianca veniva subissata di sermoni, avvertimenti e insultata da amici e parenti: Ma cos’hai fatto? Te ne rendi conto? Devi ingranare subito la retromarcia! Ti sei fregato con le tue stesse mani, e prima ancora di cominciare! Chi è che comanda davvero lì?
Steve Bannon invece era soddisfatto. Nemmeno nei suoi sogni più rosei avrebbe potuto scavare una trincea più netta tra le due Americhe – quella di Trump e quella liberal –, nonché tra la sua Casa Bianca e quella abitata da quanti ancora non si sentivano pronti ad appiccarle il fuoco.
Perché farlo entrare in vigore proprio di venerdì, chiese allibita la quasi totalità dello staff, il giorno che avrebbe creato maggiori problemi per gli aeroporti e scatenato più contestazioni?
«Be’, appunto per questo» replicò Bannon. «Così si precipiteranno tutti negli aeroporti a manifestare.» Era quella la tecnica giusta per schiacciare i liberal: farli impazzire istigandoli a spostarsi a sinistra.