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Bannon agonista

Anche lui si sentiva in gabbia, aveva detto Steve Bannon a Katie Walsh quando lei gli aveva comunicato che avrebbe lasciato il suo incarico.

Dieci settimane dopo l’insediamento, il controllo esercitato da Bannon sull’agenda Trump, o quantomeno su Trump, sembrava essersi sgretolato. La sua sofferenza era di natura cattolica – l’autoflagellazione di un uomo convinto di avere una levatura morale superiore a quella di tutti gli altri – e fondamentalmente misantropica. Antisociale, attempato, disadattato, Bannon doveva compiere sforzi sovrumani per andare d’accordo con il prossimo. E non sempre ci riusciva. Ma soprattutto soffriva a causa di Donald Trump, la cui crudeltà, ancora più dolorosa perché inflitta con nonchalance, diventava intollerabile quando lui ti voltava davvero le spalle.

«Odiavo far parte della campagna elettorale, ho odiato la transizione e ora odio stare alla Casa Bianca» ammise Bannon nell’ufficio di Reince Priebus, in una serata insolitamente tiepida d’inizio primavera, con le portefinestre aperte sul pergolato dove i due – diventati amici e alleati in virtù della comune avversione a Jarvanka – avevano sistemato un tavolo da giardino.

Eppure Bannon era convinto di essere lì per un motivo. Credeva fermamente – cosa che era incapace di tenere per sé e che minava il suo rapporto con il presidente – che fosse merito suo se tutti loro erano lì. E, cosa ancora più importante, era certo di essere l’unico là dentro a impegnarsi davvero per cambiare il Paese. Per cambiarlo subito e in maniera radicale e definitiva.

L’idea di un elettorato diviso – gli Stati blu e rossi, le due correnti di valori, il conflitto tra globalisti e nazionalisti, establishment e rivolta populista – veniva impiegata dai media per descrivere l’angoscia culturale e i tempi politicamente torbidi, cioè, a ben guardare, le cose che vanno come sono sempre andate. Bannon, invece, intendeva la spaccatura nel senso più concreto del termine: per lui gli Stati Uniti erano diventati patria di due popolazioni reciprocamente ostili. Era inevitabile che l’una vincesse e l’altra perdesse. Oppure che l’una ne uscisse dominante e l’altra subalterna.

Era una nuova guerra civile: la guerra di Bannon. L’obiettivo era riportare la nazione ai tempi in cui si fondava sulle virtù, il carattere e la forza del lavoratore americano, ovvero grossomodo tra il 1955 e il 1965. Le armi erano gli accordi (o le guerre) commerciali a sostegno del made in USA, le politiche anti-immigrazione per proteggere i lavoratori americani (e quindi la loro cultura e identità, così com’erano state nell’età dell’oro, quel decennio tra anni Cinquanta e Sessanta) e l’isolazionismo, per preservare le risorse nazionali e soffocare la sensibilità alla Davos delle élite (e, in più, salvare le vite dei militari, a loro volta proletari). Per giudizio pressoché unanime, con l’eccezione di Donald Trump e degli esponenti dell’alt-right, tutta questa teoria è un concentrato di insensatezze politiche ed economiche. Per Bannon, invece, era un ideale rivoluzionario e mistico.

Quasi tutti, alla Casa Bianca, lo consideravano un illuso. «Steve è… Steve» diventò la formula bonaria con cui si suggeriva che non c’era bisogno di prenderlo sul serio. «Ha sempre un mucchio di idee per la testa» diceva Trump, passando a parlare di qualcosa che gli interessava davvero e liquidandolo.

Ma non si trattava tanto di una battaglia di Bannon contro tutti, quanto di un duello tra il Trump di Bannon e il Trump che non gli apparteneva. Quando era di umore cupo, determinato e aggressivo, il presidente era capacissimo di rappresentare la visione di Bannon, ma con altrettanta facilità passava a non rappresentare un bel niente, al massimo il proprio bisogno di gratificazioni istantanee. Gli anti-Bannon questo lo avevano capito. Se il capo era felice, c’era la possibilità che prevalesse un approccio normale e gradualistico alla politica, il solito balletto dei due passi avanti e uno indietro. Poteva addirittura emergere una sorta di centrismo, la cosa più contraria al bannonismo che si potesse concepire. E a quel punto, invece del mezzo secolo di dominio incontrastato del trumpismo preconizzato da Bannon, si sarebbe attestato il regno di Jared, Ivanka e Goldman Sachs.

A fine marzo era quest’ultimo lo schieramento in ascesa. Gli sforzi di Bannon per sfruttare l’epica sconfitta della revoca dell’Obamacare e dimostrare che il vero nemico era l’establishment gli si erano tragicamente ritorti contro. Trump considerava quel fallimento come proprio ma, dato che lui non sbagliava mai, il fiasco andava rivisitato – se non subito, il prima possibile – come un successo. Ma come riuscirci, con quella Cassandra di Bannon a bordo campo? Di colpo era diventato lui il problema.

Trump prese le distanze dal suo entusiasmo iniziale per Bannon riversandogli addosso tutto il suo disprezzo e, anzi negando di essersi mai entusiasmato per lui. Non c’era niente che non andasse nella sua Casa Bianca, tranne la presenza di Steve Bannon. Sparlarne diventò una forma di passatempo. Quando si trattava di screditarlo, Trump attivava al massimo le sue capacità di analisi: «Il problema di Steve Bannon sono le relazioni pubbliche, ma lui non se ne rende conto. Lo odiano tutti, perché… be’, basta guardarlo. Il suo pessimo atteggiamento dà sui nervi alla gente».

La vera domanda, in realtà, era come avesse potuto un populista da «fottiamo il sistema» come Bannon concepire un’alleanza con Donald Trump, un miliardario che il sistema lo spremeva a proprio vantaggio. Per Bannon, quella con Trump era stata la partita della vita, ma di fatto lui l’aveva a malapena giocata, o comunque non era riuscito a non pregiudicarla. Pur sostenendo che la vittoria era stata merito del presidente, Bannon non sapeva trattenersi dal puntualizzare che, quando lui era sceso in campo per guidare la campagna, i sondaggi registravano un deficit di preferenze da cui nessun candidato, a dieci settimane dalle elezioni, si era mai ripreso.

Capiva la necessità di non rubare la scena al presidente; sapeva bene che Trump prendeva meticolosamente nota di ogni affermazione in contrasto con un merito che attribuiva soltanto a sé. Sia lui sia Kushner, le due figure più importanti della Casa Bianca dopo il presidente, avevano fatto del mutismo una professione. Eppure il mondo intero parlava di Bannon, e Trump si convinse – azzeccandoci – che tutta quell’attenzione fosse il risultato di una campagna stampa privata lanciata dal suo consigliere. A furia di ripeterlo, la qualifica con cui Bannon si riferiva a se stesso – «il presidente Bannon» – smise di sembrare autoironica. Un’inasprita Kellyanne Conway, anche lei accusata regolarmente di protagonismo sui media, confermò l’osservazione del presidente secondo cui Bannon non perdeva occasione di infilarsi in una foto ufficiale. (A quanto pareva tutti tenevano il conto del photobombing degli altri.) D’altra parte, neanche Bannon faceva grandi sforzi per mascherare le sue innumerevoli dichiarazioni da «fonte interna» alla stampa, e nemmeno per moderare gli insulti non proprio privati che riservava a Kushner, Cohn, Priebus, alla Powell, alla Conway e persino alla figlia del presidente (anzi, soprattutto a lei).

Stranamente, invece, non aveva mai espresso un giudizio meno che lusinghiero sul conto del presidente. Perlomeno non ancora. Un Trump assolutamente incontestabile e solido era un elemento troppo centrale per la sua teoria del trumpismo. Bisognava sostenere l’uomo per portare l’idea alla vittoria. A prima vista, il concetto sembrava avvicinarsi a quello tradizionale di rispetto della carica. In realtà era l’opposto. L’uomo era soltanto un mezzo: senza Trump, Bannon non era nessuno. Per quanto insistesse sul proprio contributo unico, persino magico, all’elezione del presidente, era stato il talento specifico di Trump a offrirgli la sua opportunità. Lui era soltanto l’uomo dietro il trono: un Cromwell, come diceva lui stesso, pur sapendo benissimo che fine avesse fatto Cromwell.

Ma la sua lealtà al simbolo Trump non lo proteggeva dagli attacchi dell’uomo Trump. Il presidente presentò il suo caso a una vasta pletora di giurati, elencando, in maniera offensiva, le sue mancanze: «Sembra un barbone. Fatti una doccia, Steve. Non cambia i pantaloni da sei giorni. Alcuni sostengono che sia ricco, ma io non ci credo». (È interessante notare che il presidente non ha mai pronunciato un solo giudizio sulle sue posizioni politiche.) L’amministrazione non aveva ancora compiuto due mesi, e già tutti i media prevedevano l’imminente caduta di Bannon.

Un sistema particolarmente efficace per ingraziarsi il presidente era suggerirgli un nuovo e più brutale motivo per lagnarsi del suo capo stratega, o riferirgli le critiche di altre persone. Era essenziale non dire mai niente di positivo su di lui, persino una vaga lode prima del «ma» – «Certo, Steve è intelligente, ma…» – suscitava un’occhiataccia o un broncio se non ti sbrigavi ad arrivare al dunque. (D’altra parte, sentir parlare dell’intelligenza altrui ha sempre dato sui nervi a Trump.) Su istigazione di Kushner, Scarborough e la Brzezinski, provvedevano ogni mattina a una sorta di regolare lapidazione televisiva dell’ideologo di Breitbart.

Il presidente aveva garantito a H.R. McMaster – il generale a tre stelle che aveva sostituito Michael Flynn come consigliere per la Sicurezza nazionale – il diritto di veto nella scelta dei membri del Consiglio. Kushner, che aveva sostenuto la nomina di McMaster, si era affrettato ad assicurare un posto a Dina Powell, figura centrale della sua fazione, e a far escludere Bannon.

A bassa voce e con uno sguardo impietosito, i bannonisti si chiedevano l’un l’altro come stesse Steve e se avesse retto il colpo, salvo rispondersi ogni volta che aveva un aspetto terribile e la tensione chiaramente visibile sul volto già segnato. Secondo David Bossie, sembrava «un morto che cammina».

«Ora so come ci si sentiva alla corte dei Tudor» rifletté Bannon. Raccontò che, durante la campagna, con la scusa di proporgli le sue «stupide idee», il dirigente del partito repubblicano Newt Gingrich lo cercava di continuo. «Subito dopo la vittoria, ha iniziato a trattarmi come fossi il suo migliore amico: mi proponeva cento idee al giorno. Poi» – in primavera, alla Casa Bianca – «è calato il gelo. Un giorno, mentre io ero già sul viale del tramonto, l’ho incrociato nell’atrio e lui ha abbassato lo sguardo e borbottato un “Ciao, Steve” senza nemmeno guardarmi negli occhi. Così gli ho detto: “Che fai in anticamera? Vieni dentro”. E lui: “No, no, non preoccuparti. Per la verità sto aspettando Dina Powell”.»

Compiuta l’impresa impossibile di portare un feroce etnopopulismo antiliberal e targato alt-right, nel cuore della Casa Bianca, Bannon dovette affrontare l’insostenibile: ritrovarsi isolato e sottomesso a democratici ricchi e arroganti.

Il paradosso della presidenza Trump consiste nell’essere al tempo stesso la più e la meno ideologica della storia. Rappresenta un assalto strutturale ai valori liberal: la decostruzione dello Stato amministrativo prefigurata da Bannon avrebbe portato al crollo delle aziende mediatiche e delle istituzioni accademiche e no profit. Ma fin dall’inizio è stato evidente che con la stessa facilità l’amministrazione Trump si sarebbe potuta trasformare in un country club repubblicano o in un regime di democratici di Wall Street. O, più banalmente, nell’impresa titanica di compiacere in ogni modo il presidente. Donald Trump ha un vasto assortimento di fisse, collaudate nei comizi e in varie iniziative di autopromozione, ma la più radicata è la mania di emergere vincitore in ogni partita.

Con l’intensificarsi del rullo di tamburi che annunciava l’esecuzione di Bannon, i Mercer scesero in campo per proteggere l’investimento che avevano fatto e il futuro del loro protetto.

In un’era in cui tutti i candidati di successo sono assediati da – se non addirittura asserviti a – ricconi prepotenti, persino sociopatici, che spingono il proprio potere fino ai limiti (e più sono ricchi, più diventano prepotenti, sociopatici e affamati di potere), Bob e Rebekah Mercer rappresentavano un caso a parte. Se l’ascesa di Trump era stata improbabile, la loro lo era ancora di più.

Persino i ricchi più intrattabili – i fratelli Koch e Sheldon Adelson a destra, David Geffen e George Soros a sinistra – sono frenati dal fatto che il denaro esiste in un mercato fondato sulla concorrenza. Anche l’odiosità ha dei limiti. A modo suo, il mondo dei ricchi si autoregola. Anche l’arrampicata sociale ha le sue convenzioni.

Ma persino tra i ricchi capricciosi e arroganti, i Mercer sono un esempio di asocialità pressoché totale e hanno tirato dritto per la loro strada restando del tutto indifferenti all’incredulità e allo scandalo che suscitavano. Diversamente da altri grandi finanziatori di candidati politici, erano disposti a non vincere, in eterno. Vivevano in una bolla tutta loro.

Perciò, quando una fortuita congiuntura astrale aveva determinato la vittoria di Donald Trump, loro erano ancora puri. Una tempesta perfetta di fattori e impensate variabili li aveva portati al potere, e adesso non avevano alcuna intenzione di rinunciarci solo perché Steve Bannon urtava la sensibilità della gente o non dormiva abbastanza.

Verso la fine di marzo, convocarono una serie di riunioni di emergenza, di cui almeno una con il presidente. Esattamente il tipo di riunioni che Trump cercava di evitare: non nutriva il minimo interesse per i problemi degli altri, perché non amava che l’attenzione fosse dedicata a qualcuno diverso da lui. Invece si trovò costretto a occuparsi di Steve Bannon, mentre di solito accadeva il contrario. Peggio ancora, quel problema lo aveva in parte creato lui, a furia di screditarlo, e ora gli veniva chiesto di fare un passo indietro. Infatti, malgrado continuasse a ripetere che poteva e doveva licenziare Bannon, il presidente era ben consapevole di cosa avrebbe provocato quella decisione: un’insurrezione della destra di proporzioni incalcolabili.

Trump giudicava i Mercer bizzarri quanto chiunque altro. Non gli piaceva che Bob Mercer lo fissasse senza dire una parola e detestava trovarsi nella stessa stanza con lui o con sua figlia. Come compagni di avventura erano davvero sopra le righe. O «fuori di testa», secondo la sua definizione. Non avrebbe mai ammesso che senza il loro sostegno e l’imposizione di prendere a bordo Bannon, in agosto, probabilmente non sarebbe arrivato alla Casa Bianca, tuttavia era ben consapevole che ad averli contro rischiava una valanga di guai.

La complessità del problema Bannon-Mercer lo indusse a chiedere consiglio a due personaggi molto diversi: Rupert Murdoch e Roger Ailes. Forse il motivo di quella strana scelta stava proprio nella consapevolezza che le loro risposte si sarebbero annullate a vicenda.

Murdoch, già informato da Kushner sulla situazione, gli disse che sbarazzarsi di Bannon era l’unico modo per risolvere i problemi della Casa Bianca (come ovvio, l’alternativa di sbarazzarsi di Kushner era fuori discussione). Era l’unica strada, e bisognava agire immediatamente. Si trattava di una raccomandazione prevedibile, visto che a quel punto Murdoch era diventato un sostenitore dei moderati di stampo Kushner-Goldman, che a suo giudizio avrebbero salvato il mondo – e Trump stesso – da Bannon.

Ailes, schietto ed esplicito come al solito, gli disse: «Donald, non puoi licenziarlo. A suo tempo hai fatto una scelta, e adesso devi conviverci. Non sei tenuto ad ascoltarlo, nemmeno ad andarci d’accordo. Però lo hai praticamente sposato e in questo momento non puoi permetterti un divorzio».

Jared e Ivanka non stavano nella pelle alla prospettiva di un allontanamento di Bannon. Con la sua uscita di scena l’organizzazione Trump sarebbe tornata sotto il pieno controllo della famiglia – i parenti stretti e i loro fidati consiglieri – senza alcun rivale interno a contestare la loro leadership. Dal punto di vista della famiglia, l’estromissione di Bannon avrebbe anche contribuito – almeno in teoria – a facilitare uno dei più impensati restyling della storia: Donald Trump sarebbe diventato rispettabile. Il desiderio a lungo accarezzato dell’inversione di rotta del presidente si sarebbe realizzato. E pazienza se il sogno di Kushner – salvare Trump da se stesso per proiettare lui e Ivanka nel futuro – era irrealizzabile quasi quanto quello di Bannon di una Casa Bianca impegnata a restaurare il mito dell’America pre-1965.

D’altro canto, il licenziamento di Bannon avrebbe anche potuto causare la frattura definitiva in un partito repubblicano già diviso. Prima dell’elezione, circolava una teoria secondo la quale, in caso di sconfitta, Trump si sarebbe tenuto il suo trentacinque per cento di elettori frustrati e si sarebbe messo alla guida di una minoranza ribelle. Adesso, con Kushner impegnato a trasformare il suocero nel nuovo Rockefeller che Trump – per quanto con scarsa plausibilità – aveva spesso sognato di diventare (ispirandosi al Rockefeller Center per il proprio marchio immobiliare), il timore era che sarebbe stato Bannon a impadronirsi di una quota significativa di quel trentacinque per cento.

Era questo il ricatto di Breitbart. L’organizzazione era ancora saldamente nelle mani dei Mercer, che da un momento all’altro potevano restituirla a Steve Bannon. E considerando la sua nuova immagine di genio politico e creatore di re, e con il trionfo dell’alt-right, Breitbart aveva il potenziale di rivelarsi persino più influente. La vittoria di Donald Trump, in un certo senso, aveva consegnato ai Mercer lo strumento per distruggerlo. E nel prossimo futuro, man mano che i media mainstream e i burocrati della palude stringevano i ranghi contro di lui, il presidente avrebbe avuto sempre più bisogno dell’alt-right finanziata dai Mercer. In fondo, chi era Trump senza di loro?

Con l’intensificarsi delle pressioni, l’inossidabile fede di Bannon in un Donald Trump come incarnazione perfetta del trumpismo (e del bannonismo) – una tesi cui finora si era strettamente attenuto, interpretando senza sbavature la parte di consigliere e sostenitore di un talento politico fuori dagli schemi – cominciò a mostrare le crepe.

Come sapeva bene chiunque avesse lavorato con lui, a dispetto dei sogni o degli sforzi per cambiarlo, Trump restava se stesso. E, prima o poi, lui si stanca di tutti.

I Mercer però non si diedero per vinti. Erano certi che, senza Bannon, la presidenza Trump – almeno per come l’avevano immaginata (e finanziata) loro – fosse spacciata. Perciò bisognava impegnarsi ad aiutare Steve. Gli fecero giurare di lasciare l’ufficio a un orario ragionevole: basta aspettare lì per ore, nell’eventualità che Trump volesse compagnia a cena. (Senza contare che negli ultimi tempi Jared e Ivanka avevano comunque già messo fine a quelle serate.) E la soluzione comprendeva la ricerca di un Bannon per Bannon, un capo stratega per il capo stratega.

A fine marzo concordarono una tregua con il presidente. Bannon sarebbe rimasto al suo posto. Questo non garantiva niente in merito alla sua influenza o al suo rango, ma almeno consentiva loro di tirare il fiato e ripensare la strategia. Magari il tempo avrebbe giocato a loro favore. Qualsiasi assistente del presidente vale solo quanto il suo ultimo consiglio utile e – certo dell’inettitudine del suo principale rivale – Bannon contava che presto Jarvanka si sarebbe distrutto con le sue stesse mani.

Il presidente aveva accettato di non licenziare Bannon, ma compensò il genero e la figlia con un ricco premio di consolazione: l’aggiunta di nuove prerogative.

Il 27 marzo nacque l’ufficio per l’innovazione americana e Kushner fu chiamato a dirigerlo. La missione ufficiale era ridurre la burocrazia federale. O, per meglio dire, ridurla generandone di nuova: una commissione per mettere fine alle commissioni. Inoltre la nuova organizzazione avrebbe esaminato le dotazioni tecnologiche interne degli apparati amministrativi, fatto crescere l’occupazione, promosso e suggerito politiche per l’inserimento nel mondo del lavoro, organizzato iniziative di concerto tra governo e imprese, e contribuito ad arginare l’epidemia degli oppiacei. La solita solfa, insomma, sia pure caratterizzata da un nuovo impeto di entusiasmo per la gestione amministrativa.

Ma l’aspetto davvero significativo consisteva nel riconoscere a Kushner un suo staff interno alla Casa Bianca, una squadra che non soltanto avrebbe lavorato per mettere in pratica i suoi progetti – tutti opposti a quelli di Bannon – ma anche, in senso più generale, come spiegò lui stesso a uno di loro, per «allargare la mia impronta». In sostanza era un exploit burocratico con il duplice scopo di innalzare Jared Kushner e sminuire Steve Bannon.

Due giorni dopo l’annuncio dell’estensione della base di potere di Jared, anche a Ivanka fu assegnata una carica ufficiale: consigliere del presidente. Fin dall’inizio era stata una figura chiave al fianco del marito, e lui per lei, ma l’annuncio rappresentava comunque un improvviso consolidamento del potere dei Trump alla Casa Bianca. E un notevole golpe burocratico, a spese di Steve Bannon: da divisa, la Casa Bianca si era riunita sotto l’egida della famiglia.

Il genero e la figlia del presidente speravano – ci contavano quasi – di poter fare appello al lato migliore di DJT, o quantomeno determinare un equilibrio tra le esigenze repubblicane e la razionalità, la compassione e le buone azioni progressiste. In più, avrebbero sostenuto la propria posizione moderata aprendo lo Studio Ovale a un flusso incessante di amministratori delegati moderati quanto loro. In effetti, il presidente aveva manifestato rarissime obiezioni e frequente entusiasmo per le proposte di Jared e Ivanka. «Se gli dicono che bisogna salvare le balene, lui diventa animalista» osservò Katie Walsh.

Ma Bannon, costretto all’esilio interno, restava convinto di rappresentare le convinzioni autentiche di Trump o, per meglio dire, la sua natura. Lo conosceva come un uomo fondamentalmente emotivo, ed era certo che la sua parte più profonda fosse rabbiosa e torva. Per quanto il presidente desiderasse sostenere le aspirazioni della figlia e del genero, non ne condivideva la visione del mondo. Per citare ancora Katie Walsh: «Steve pensa di essere un Darth Vader, e crede che Trump subisca il fascino del lato oscuro».

A pensarci bene, la ferocia con cui il presidente si era sforzato di negare l’influenza del suo consigliere poteva essere direttamente proporzionale all’intensità del suo ascendente.

Trump non dà mai retta a nessuno. Più gli parli e meno ti ascolta. «Con lui, però, Steve sa scegliere le parole giuste e c’è qualcosa nel suo timbro di voce, nella sua energia e nel suo trasporto che aggancia davvero il presidente, lasciando fuori tutto il resto» spiegava la Walsh.

Fu così che, mentre Jared e Ivanka si esibivano nel giro d’onore, Trump firmò l’ordine esecutivo n. 13783, un ribaltamento delle politiche ambientali voluto da Bannon e che, a suo dire, avrebbe a tutti gli effetti distrutto il National Environmental Policy Act, la legge del 1970 su cui si basavano tutte le moderne leggi di protezione ambientale, e che tra l’altro imponeva alle aziende di rendere conto dell’impatto ambientale delle loro attività. Tra le sue varie conseguenze, l’ordine esecutivo annullava la direttiva di studiare il cambiamento climatico in vista degli imminenti dibattiti sulla posizione americana rispetto all’accordo di Parigi sul clima.

Il 3 aprile, a sorpresa, Kushner volò in Iraq, al seguito del generale Joseph Dunford, capo dello stato maggiore congiunto. Stando all’ufficio stampa della Casa Bianca, il marito di Ivanka viaggiava «in rappresentanza del presidente, per esprimere il suo supporto e sostegno al governo iracheno e al personale militare americano impegnato nella campagna». Contrariamente alla consueta riservatezza e distanza dai media, Kushner si lasciò fotografare nel corso di tutta la visita.

Alzando gli occhi su uno dei molti schermi televisivi che generavano il costante rumore di fondo della West Wing, Bannon intravide un filmato in cui Kushner veniva ripreso con casco e microfono, a bordo di un elicottero che sorvolava Baghdad. Citando la puerile esibizione di George W. Bush quando, indossando a sua volta la divisa da pilota, aveva annunciato la fine della guerra in Iraq dal ponte della portaerei Lincoln, ripeté, quasi tra sé: «Missione compiuta».

Bannon stava assistendo a denti stretti all’allontanamento della Casa Bianca dal suo ideale di trumpismo-bannonismo, ma continuava a credere che alla fine la natura profonda dell’amministrazione sarebbe venuta fuori, andando nella direzione da lui desiderata. Bannon è fatto così: stoico e determinato, si considerava un cavaliere solitario, il condottiero destinato a salvare la nazione.