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L’Election Day

Il pomeriggio dell’8 novembre 2016, Kellyanne Conway, direttrice della campagna elettorale di Trump e personaggio di primo piano, se non addirittura la star dell’«universo Trump», si trasferì nel suo ufficio di vetro della Trump Tower. Fino alle ultime settimane, il quartier generale della campagna era rimasto un luogo anonimo. A distinguerlo dagli uffici di un’azienda qualsiasi c’erano solo un paio di poster con slogan di destra.

Quel giorno la Conway era di un umore stranamente buono per essere la direttrice di una campagna elettorale che stava per concludersi con una sconfitta clamorosa, per non dire umiliante. Era sicurissima che Trump sarebbe stato sconfitto, ma forse sarebbe riuscito a contenere il divario sotto i sei punti. Date le circostanze, già quello sarebbe stato un traguardo notevole. E, quanto all’imminente débâcle, la cosa non la riguardava: la colpa era di Reince Priebus, non sua.

La Conway aveva trascorso buona parte della giornata a chiamare amici e alleati politici, assicurandosi di scaricare su di lui ogni responsabilità. Poi aveva contattato alcuni dei produttori e conduttori televisivi con cui durante la campagna era entrata più in confidenza e che, dopo la fitta serie di colloqui tenuti nelle ultime settimane, sperava le avrebbero offerto la conduzione di un programma di punta dopo le elezioni. Ne aveva corteggiati parecchi da quando, a metà agosto, aveva preso in mano le redini della campagna di Trump, diventandone una portavoce particolarmente combattiva, con i suoi sorrisi inalterabili e la curiosa combinazione di vulnerabilità e imperturbabilità del suo volto telegenico.

La tesi che ripeteva a tutti era che, al di là delle innumerevoli, spaventose gaffe della campagna, il vero problema era il demone impossibile da controllare: il Comitato nazionale repubblicano, diretto da Priebus, dalla sua spalla – la trentaduenne Katie Walsh – e dal loro addetto stampa, Sean Spicer. Da quando Trump si era aggiudicato la nomination, all’inizio dell’estate, invece di schierarsi a suo sostegno, il Comitato, di fatto l’organo principe dell’establishment repubblicano, aveva continuato a spalmare le sue puntate su più tavoli. Ogni volta che a Trump serviva una spinta, il Comitato mancava all’appello.

Questa era la prima parte della tesi della Conway. La seconda era che, a dispetto di tutto, la campagna era comunque riuscita a risollevarsi. Con una squadra pressoché priva di risorse e con il peggior candidato della storia politica moderna – la reazione tipica della Conway al nome di Trump era una plateale occhiata verso il cielo oppure uno sguardo vitreo –, tutto sommato se l’era cavata egregiamente. In passato la Conway aveva gestito una modesta società di sondaggi, ma era ben consapevole che la sua prima esperienza di una campagna nazionale l’aveva trasformata in una delle voci conservatrici più autorevoli delle televisioni via cavo.

Per la verità, uno dei sondaggisti della campagna di Trump, John McLaughlin, nelle ultime settimane aveva cominciato a sostenere che le preferenze rilevate in alcuni Stati chiave, fino a quel momento desolanti, stessero volgendo a favore del candidato repubblicano. Ma questo non aveva scalfito le certezze della Conway, di Trump stesso e del genero Jared Kushner, capo effettivo della campagna o comunque supervisore designato della famiglia: tutti e tre erano certi che l’avventura stesse per concludersi.

Solo Steve Bannon insisteva che i numeri avrebbero favorito Trump. Ma, visto che a sostenerlo era quel matto di Steve, il parere non era affatto convincente.

Quasi tutti nello staff della campagna, ancora una macchina estremamente ridotta, si consideravano persone perspicaci e perciò consapevoli, come chiunque si occupasse di politica, delle reali prospettive di quell’operazione. La convinzione unanime, per quanto taciuta, era che non solo Trump non sarebbe diventato presidente, ma che con ogni probabilità era meglio così. E il vantaggio era che, posta la prima convinzione, nessuno avrebbe dovuto preoccuparsi della seconda questione.

Con la campagna ormai agli sgoccioli, Trump stesso non nutriva dubbi di sorta. Era sopravvissuto alla divulgazione del fuori onda con Billy Bush, conduttore televisivo della NBC News, e alla levata di scudi in cui lo stesso Comitato nazionale repubblicano aveva avuto la faccia tosta di chiedergli di ritirarsi. L’alzata d’ingegno del direttore dell’FBI, James Comey, che di punto in bianco aveva sferrato un duro colpo a Hillary Clinton annunciando la riapertura dell’inchiesta sulle sue email undici giorni prima delle elezioni, aveva contribuito a far vacillare la certezza della vittoria schiacciante dell’avversaria democratica.

«Potrei diventare l’uomo più famoso del pianeta» aveva detto Trump a Sam Nunberg, alternativamente assunto e licenziato come suo assistente, all’inizio della campagna.

«Ma lei vuole diventare presidente?» gli aveva chiesto lui (domanda diversa dal quesito esistenziale posto di rito a ogni candidato: «Perché vuole diventare presidente?»). Non aveva ottenuto risposta.

E a cosa sarebbe servito? Tanto Trump non ci sarebbe mai riuscito.

Il suo vecchio amico Roger Ailes amava ripetere che il modo migliore per fare carriera in televisione è proporsi alla presidenza. E adesso, incoraggiato da Ailes, il candidato aveva messo in giro la voce di un nuovo network targato Trump. Il futuro appariva roseo.

Disse ad Ailes che quella campagna avrebbe dato nuovo lustro al suo nome, offrendogli opportunità impensate. «L’impatto supera i miei sogni più sfrenati» commentò nel corso di una conversazione una settimana prima delle elezioni. «Me ne infischio di perdere, perché non sarà una sconfitta. Tutto quello che volevo l’ho già ottenuto.» Sapeva persino come rispondere alle domande, dopo la disfatta: «Elezione rubata!».

Donald Trump e il suo manipolo di guerrieri elettorali erano pronti a perdere in grande stile. Quello che proprio non si aspettavano era di vincere.

In politica, per forza di cose, qualcuno deve perdere, eppure tutti pensano di poter vincere. D’altro canto vincere senza crederci è forse impossibile, con l’unica eccezione della campagna di Trump.

Il candidato stesso non faceva che criticarla, dicendo che era gestita da un branco di incompetenti. Era convinto, invece, che la squadra di Hillary Clinton fosse costituita da menti brillanti. «Loro hanno i migliori e noi gli scarti» non faceva che ripetere. Tutti quelli che avevano viaggiato sul suo aereo elettorale avevano assistito a invettive epocali dirette ai malcapitati di turno: Trump si dichiarava regolarmente circondato da idioti.

Corey Lewandowski, il primo direttore più o meno ufficiale della campagna, ne era stato spesso il bersaglio privilegiato. Per mesi Trump l’aveva definito «il peggiore», e nel giugno del 2016 lo aveva licenziato in tronco. Salvo poi dichiarare che senza di lui la campagna era spacciata. «Siamo tutti degli incapaci» diceva. «I nostri collaboratori sono degli inetti, nessuno sa cosa sta facendo… È un peccato non poter più contare su Corey.» Non aveva impiegato molto a giurarla anche al successore, Paul Manafort.

In agosto, con un distacco tra i dodici e i diciassette punti dalla Clinton e nel vortice di una tempesta mediatica che lo massacrava ogni giorno, l’ipotesi di una vittoria sembrava più improbabile che mai. Aveva toccato il fondo, eppure Trump riuscì a sfruttare proprio la campagna perdente per fare cassa.

Il miliardario di destra Bob Mercer, sostenitore di Ted Cruz, era passato dalla sua parte con un finanziamento di cinque milioni di dollari. Convinto che la campagna di Trump fosse allo sbando, e nel fuggifuggi di altri potenziali finanziatori, Mercer e sua figlia Rebekah avevano viaggiato in controtendenza, partendo in elicottero dalla loro tenuta a Long Island per presenziare a una raccolta fondi organizzata negli Hamptons, nella residenza estiva di Woody Johnson, proprietario della squadra di football dei New York Jets ed erede della multinazionale Johnson & Johnson.

Trump non aveva un rapporto vero e proprio con loro: aveva avuto non più di qualche conversazione con Bob Mercer, che per parte sua parlava quasi solo a monosillabi, e, quanto a Rebekah, la loro intera relazione si riduceva a un selfie scattato insieme nella Trump Tower. Tuttavia, quando i due si offrirono di resuscitare la campagna, insediandoci i propri luogotenenti, Steve Bannon e Kellyanne Conway, Trump non sollevò obiezioni. Si limitò a esprimere un totale sconcerto sul perché volessero fare una cosa del genere. «È un gran casino» disse ai Mercer.

A giudicare da tutti gli indicatori significativi, quella che Steve Bannon avrebbe definito «una campagna sconclusionata» era funestata non soltanto dalla percezione di una sconfitta annunciata, ma anche dall’opinione condivisa che la vittoria fosse un’impresa assolutamente impossibile.

Persino il candidato, che pure si proclamava dieci volte miliardario, si era rifiutato di investirci i suoi soldi. A Jared Kushner – che quando Bannon si unì alla campagna era in vacanza in Croazia con la moglie e il nemico di Trump, David Geffen – Bannon disse che dopo il primo dibattito, in settembre, sarebbero serviti altri cinquanta milioni di dollari per arrivare fino al giorno delle elezioni.

«Senza la garanzia di una vittoria, cinquanta milioni non li scuciamo manco morti» fu la pragmatica risposta di Kushner.

«Allora facciamo venticinque» rilanciò Bannon.

«Solo se possiamo dire che la vittoria è più che probabile.»

Alla fine riuscirono a convincerlo a prestare dieci milioni, con la clausola che glieli avrebbero restituiti con le prime raccolte fondi. (Steve Mnuchin, al tempo direttore finanziario della campagna, si presentò di persona con i dati per il bonifico, per evitare che Trump «dimenticasse» di eseguirlo.)

Di fatto non c’era nessuna campagna, perché mancava una vera organizzazione, o quella che c’era era del tutto inefficiente. Roger Stone, primo direttore de facto, si era dimesso o era stato licenziato da Trump: entrambi, in pubblico, sostenevano di aver dato il benservito all’altro. Sam Nunberg, un assistente di Trump che aveva lavorato per Stone, era stato clamorosamente cacciato da Lewandowski, per poi essere querelato da Trump stesso: una mossa che aveva incrementato in modo esponenziale lo sbandieramento pubblico di panni sporchi. Lewandowski e Hope Hicks, la portavoce della campagna assunta per tramite di Ivanka Trump, avevano avuto una relazione culminata in una lite per strada, episodio citato da Nunberg nella sua risposta alla querela di Trump. La campagna sembrava pensata con lo scopo specifico di non vincere.

Persino dopo che Trump ebbe sbaragliato gli altri sedici candidati repubblicani, un risultato già di per sé impensabile, l’obiettivo di portarlo alla presidenza continuò ad apparire del tutto irreale.

E sebbene in autunno sembrasse acquisire un pizzico di credibilità in più, anche questa evaporò con lo scandalo Billy Bush. «È che provo un’attrazione automatica per le belle donne. Non resisto: devo baciarle» aveva detto Trump al conduttore della NBC, a microfoni aperti, nel bel mezzo del dibattito esploso in tutta la nazione sulle molestie sessuali. «È un’attrazione magnetica. Come le vedo, le bacio, senza aspettare neanche un secondo. Se sei uno che conta, loro te lo permettono. Puoi fare quello che vuoi… afferrarle per la fica. Qualunque cosa.»

La bufera che seguì assunse accenti melodrammatici. La mortificazione era stata tale che, convocato a New York da Washington per una riunione di emergenza alla Trump Tower, Reince Priebus, capo del Comitato nazionale repubblicano, non aveva avuto il coraggio di uscire dalla Penn Station. Lo staff di Trump aveva penato due ore per convincerlo a raggiungere il quartier generale.

«Fratello» gli aveva detto Bannon, implorandolo al cellulare, «magari poi non ci vedremo mai più, ma oggi devi venire qui, ed entrare dalla porta principale.»

L’umiliazione subita da Melania Trump, dopo la diffusione di quel video, un lato positivo ce l’aveva: adesso era assolutamente impossibile che suo marito diventasse presidente.

Il matrimonio di Donald Trump era un mistero per quasi tutti quelli che gli stavano intorno, o quantomeno per coloro che non avevano jet privati e svariate case. Il tempo che lui e Melania trascorrevano insieme era risibile. Passavano giorni interi senza nemmeno parlarsi, anche quando erano entrambi alla Trump Tower. Spesso lei non aveva idea di dove fosse il marito, e non sembrava preoccuparsene. Lui cambiava residenza come un comune mortale passa da una stanza all’altra. Oltre a essere all’oscuro dei suoi spostamenti, la moglie del tycoon lo era anche dei suoi affari, e se ne interessava pochissimo. Padre assente per i primi quattro figli, Trump era stato ancora più elusivo con il quinto, Barron, avuto da Melania. Giunto al suo terzo matrimonio, diceva agli amici di aver trovato la formula magica: vivi e lascia vivere. «Ciascuno dei due fa come gli pare.»

Già noto come sciupafemmine, durante la campagna elettorale era diventato il donnaiolo più famigerato del mondo. Nessuno avrebbe mai sostenuto che fosse dotato di una particolare sensibilità nei confronti delle donne, ma lui stesso aveva un ampio repertorio di idee su come andarci d’accordo, compresa la teoria che tanto più giovane è la tua compagna, tanto meno se la prende per un tradimento.

Ciononostante, non si trattava di un matrimonio di facciata. Donald parlava spesso di Melania quando lei non era presente e se c’era ne lodava apertamente la bellezza, anche a costo di metterla in imbarazzo. Si vantava, senza traccia di ironia, di avere una «moglie trofeo». E se anche non condivideva con lei la propria vita, era ben contento di spartirne il bottino. «Una moglie felice significa una vita felice» diceva, avallando un popolare cliché da uomo ricco.

Teneva anche alla sua approvazione (come a quella di tutte le donne della sua cerchia che, saggiamente, non gliela lesinavano). Nel 2014, quando aveva cominciato a prendere in seria considerazione l’ipotesi di candidarsi, Melania era stata tra i primi a dichiarare possibile la sua vittoria. La figlia di Trump, Ivanka, che aveva subito preso le distanze dalla campagna, la citava come una barzelletta. «Per capire chi è Melania» diceva agli amici, «basta sapere una cosa: è convinta che, se si candida, mio padre vincerà di sicuro.»

Tuttavia Melania era terrorizzata alla prospettiva che suo marito potesse davvero diventare presidente. Riteneva che la sua nomina avrebbe distrutto l’esistenza appartata che con tanta cura aveva costruito per se stessa – isolandosi soprattutto dalla famiglia allargata di Trump – e che ruotava quasi esclusivamente intorno a suo figlio.

Non fasciarti la testa, le rispondeva lui, divertito. Nel frattempo, però, quasi ogni giorno presenziava a comizi e imperversava sui media, facendo crescere lo sgomento e l’angoscia di Melania.

Gli amici la informarono delle dicerie, al tempo stesso crudeli e comiche, che circolavano sul suo conto a Manhattan. I suoi esordi nel mondo della moda erano finiti sotto la lente di ingrandimento e quando Trump ottenne la nomination, in Slovenia, Paese di origine di Melania, la rivista di gossip «Suzy» pubblicò le prime insinuazioni. Dopodiché, come assaggio nauseabondo di ciò che il futuro aveva in serbo per lei, il «Daily Mail» fece scoppiare il caso in tutto il mondo.

Il «New York Post» mise le mani sui provini di un servizio fotografico senza veli cui Melania si era prestata all’inizio della carriera: tutti, tranne lei, attribuirono quella fuga di notizie a Trump stesso.

Disperata, Melania affrontò il marito. Gli disse che, se era questo ciò che dovevano aspettarsi, lei non credeva di farcela.

Trump rispose alla sua maniera – «Quereliamoli!» – e ingaggiò un team di avvocati, ma si dimostrò anche insolitamente accomodante. Assicurò alla moglie che era questione di poco, poteva starne certa: bastava aspettare novembre, poi sarebbe tornato tutto come prima. Le fece una promessa solenne: non c’era la minima possibilità che diventasse presidente. E, pur essendo un fedifrago cronico – persino patologico, per sua stessa ammissione –, quella promessa sembrava proprio deciso a mantenerla.

Forse in modo non del tutto involontario, la campagna di Trump aveva ricalcato le orme della trama del classico di Mel Brooks Per favore, non toccate le vecchiette. Gli ingenui e truffaldini protagonisti, Max Bialystock e Leo Bloom, decidono di frodare i finanziatori dello spettacolo di Broadway che stanno producendo. In sostanza i due si impegnano a mettere in scena un fiasco: impiegando solo una minima quota del capitale degli investitori nella produzione, infatti, avrebbero potuto tenerne per sé la maggior parte. Manco a dirlo, il musical si rivela talmente sopra le righe da fare il botto al botteghino, spedendoli entrambi in galera.

I candidati che arrivano alla presidenza – animati dalla hybris, dal narcisismo o da un senso soprannaturale del proprio destino – molto spesso hanno dedicato una quota sostanziale della loro carriera – se non addirittura tutta la vita, dall’adolescenza in poi – a prepararsi per quel ruolo. Danno la scalata alle cariche elettive. Lustrano la loro immagine pubblica. Profondono un’energia maniacale nella creazione di contatti, dato che il successo in politica dipende in larga parte dagli alleati che ti scegli. Studiano come forsennati (persino lo svogliato George W. Bush, che peraltro incaricò i galoppini del padre di studiare per lui). E cancellano con cura le proprie tracce, o come minimo si ingegnano a coprirle. Insomma, si addestrano a vincere e a governare.

Il calcolo di Trump, nel senso più proprio del termine, era di tutt’altro genere. Il candidato e i suoi consiglieri più stretti ritenevano di poter raccogliere tutti i frutti dell’essere quasi arrivati alla presidenza, senza dover cambiare di una virgola il proprio comportamento o la loro visione del mondo: non avevano bisogno di mostrarsi diversi da ciò che erano, tanto non c’era speranza di vittoria.

Molti candidati alla presidenza hanno tramutato in virtù il fatto di essere degli outsider a Washington, strategia che favorisce i governatori rispetto ai senatori. Per quanto possa sentirsene distante, detestarla persino, un aspirante che si rispetti non può non avvalersi dei consigli e del sostegno degli insider della capitale. Ma, nel caso di Trump, quasi nessuno della sua cerchia aveva mai lavorato in politica a livello nazionale, anzi, i suoi consiglieri più stretti con la politica non avevano proprio niente a che fare. Trump non aveva mai avuto molti amici, ma all’inizio della sua campagna elettorale di amici tra le alte sfere della politica non ne contava nessuno. Gli unici due politici con cui avesse intrattenuto rapporti erano Rudy Giuliani e Chris Christie, entrambi a loro modo personaggi atipici e isolati. E definirlo del tutto ignaro dei rudimenti intellettuali del mestiere sarebbe stato un eufemismo. All’inizio della campagna, in una scena davvero degna di Per favore, non toccate le vecchiette, Sam Nunberg fu incaricato di spiegargli la Costituzione: «Già al Quarto Emendamento ha cominciato a tirarsi il labbro inferiore con le dita e ad alzare gli occhi al cielo».

Quasi tutti nel suo staff erano invischiati in un groviglio di conflitti di interessi capace di distruggere qualsiasi amministrazione. Mike Flynn, il futuro consigliere per la Sicurezza nazionale che lo intratteneva dicendo peste e corna della CIA e dell’inettitudine delle spie americane, era stato messo in guardia da amici che non era una buona idea accettare 45.000 dollari dai russi per tenere un discorso. «Be’, sarebbe un problema solo in caso di vittoria» aveva risposto lui. Dunque il dubbio non si poneva affatto.

Paul Manafort, lobbista e consulente politico internazionale assunto da Trump per guidare la campagna dopo il licenziamento di Lewandowski – e che accettò l’incarico senza compenso, moltiplicando gli interrogativi su ciò che si aspettava in cambio –, per trent’anni aveva reso i propri servigi a dittatori e despoti corrotti, accumulando milioni di dollari e lasciandosi dietro una pista di denaro che già da un pezzo aveva attirato l’attenzione degli inquirenti americani. Per di più, al momento di unirsi alla campagna, era perseguito legalmente, e sorvegliato in ogni mossa finanziaria, dall’oligarca e miliardario russo Oleg Deripaska, che gli aveva giurato vendetta per una frode immobiliare costatagli diciassette milioni di dollari.

Per ovvi motivi, prima di Trump nessun presidente e pochissimi politici erano emersi dal campo immobiliare, un settore scarsamente regolamentato, basato sul debito ed esposto alle frequenti fluttuazioni di mercato, che spesso dipende dagli aiuti dello Stato e rappresenta la destinazione prediletta per i patrimoni di dubbia provenienza, ovvero per il riciclaggio di denaro sporco. Oltre a Trump stesso, il genero Jared Kushner, il consuocero Charlie Kushner, i figli Don Jr., Eric e Ivanka avevano tutti tenuto a galla le proprie imprese d’affari operando in vario grado nella zona grigia dei flussi di contanti e dell’evasione fiscale. Jared Kushner, marito della figlia e braccio destro di Trump, era legato a doppio filo all’impresa immobiliare di suo padre Charlie, che a più riprese aveva scontato condanne federali per evasione fiscale, corruzione di testimoni e finanziamento illegale di campagna elettorale.

Nella politica moderna, è prassi che un candidato incarichi il proprio staff di prevenire l’opposizione, conducendo indagini puntigliose su di lui e i suoi collaboratori. Se anche Trump avesse seguito la regola, sarebbero stati in parecchi nella sua squadra ad avere ragionevoli motivi di temere il minuziosissimo esame delle authority etiche nel dopo-campagna. Lui però non volle saperne. Roger Stone, suo storico consigliere politico, spiegò a Steve Bannon che esaminarsi a fondo non era nell’indole di Trump. Né avrebbe tollerato che altri sapessero troppo di lui: come si dice, l’informazione è potere. E comunque, perché prendersi la briga di un esercizio tanto sgradevole e potenzialmente pericoloso, quando non c’era alcuna possibilità di vincere le elezioni?

E non soltanto Trump ignorò i potenziali conflitti di interessi derivanti dalle sue attività e proprietà immobiliari. Si rifiutò categoricamente anche di rendere pubblica la sua dichiarazione dei redditi. A quale scopo, se tanto la vittoria era fuori portata?

Di più: evitò di soffermarsi anche un solo istante sulla questione della transizione della squadra di governo, sostenendo che «portava male», ma intendendo in realtà che era una perdita di tempo.

Tanto non avrebbe vinto! O meglio, lui avrebbe vinto perdendo.

Il suo obiettivo era diventare l’uomo più famoso del mondo, il martire della corrotta Hillary Clinton.

Al suo seguito, la figlia Ivanka e il genero Jared sarebbero passati da ragazzini relativamente ignoti a celebrità internazionali e ambasciatori del marchio Trump.

Steve Bannon avrebbe assunto la guida de facto del movimento del Tea Party.

Kellyanne Conway sarebbe diventata la nuova star dei notiziari via cavo.

Reince Priebus e Katie Walsh avrebbero ripreso le redini del partito repubblicano.

Melania Trump sarebbe potuta tornare nell’ombra.

Questo era l’esito rassicurante che si aspettavano dall’8 novembre 2016. Tutti loro avrebbero guadagnato dalla sconfitta.

Quella sera, quando, poco dopo le otto, l’impensato sembrò diventare realtà – c’era davvero il rischio che Trump vincesse le elezioni –, Don Jr. disse a un amico che suo padre, o «DJT», come lo chiamava lui, era pallido come un morto. Melania, cui il marito aveva giurato che mai e poi mai sarebbe diventato presidente, piangeva a dirotto. E non erano lacrime di gioia.

Nel giro di poco più di un’ora, sotto gli occhi piuttosto divertiti di Steve Bannon, il suo candidato passò dallo sconcerto all’incredulità e infine al terrore. Ma mancava ancora la metamorfosi finale: presto Donald Trump si sarebbe convinto non soltanto di aver meritato la vittoria, ma anche di avere tutte le carte in regola per essere il nuovo presidente degli Stati Uniti.