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Revocare e sostituire

Qualche giorno dopo le elezioni, Steve Bannon disse al neopresidente – in quella che Katie Walsh, alzando gli occhi al cielo, avrebbe definito l’ennesima «spacconata stile Breitbart» – che avevano i voti necessari per sollevare Paul Ryan dalla carica di speaker della Camera dei Rappresentanti e sostituirlo con Mark Meadows, capo del Freedom Caucus, ispirato al Tea Party, e sostenitore della prima ora di Trump. (La moglie di Meadows si era guadagnata il rispetto della cerchia del candidato per aver proseguito i comizi nella Bible Belt durante il weekend in cui era scoppiato lo scandalo Billy Bush.)

Quasi quanto la conquista della presidenza, sbarazzarsi di Ryan – anzi, umiliarlo – era uno dei massimi obiettivi che Bannon si era posto, nonché l’espressione più alta della fusione tra bannonismo e trumpismo. La campagna di Breitbart contro Paul Ryan era stata parte integrante di quella pro-Donald Trump. Il sostegno al tycoon e il coinvolgimento attivo di Bannon nella sua corsa elettorale, quattordici mesi dopo il suo inizio, erano stati in parte motivati proprio dal fatto che il candidato, gettando al vento ogni buonsenso politico, era disposto a guidare la carica contro Ryan e gli alti papaveri repubblicani. Tuttavia, il modo in cui Breitbart e Trump vedevano Ryan era molto diverso.

Per Breitbart, la rivolta che aveva costretto alle dimissioni l’allora speaker John Boehner e che puntava a trasformare la Camera in un centro di potere del nuovo repubblicanesimo radicale si era arenata con l’elezione di Ryan. Candidato alla vicepresidenza nel 2012, al fianco di Mitt Romney, Ryan – che era stato a capo di due commissioni fiscali della Camera – era un tecnico del conservatorismo fiscale e un emblema di inattaccabile rettitudine repubblicana vecchio stampo. Incarnava l’ultima e la migliore speranza ufficiale del partito. (Com’era nel suo stile, Bannon aveva capovolto l’identikit del repubblicano perfetto in uno slogan trumpista: «Ryan è stato concepito in provetta in un laboratorio della Heritage Foundation», uno dei principali think tank della dottrina neoliberista.) Se la rivolta del Tea Party aveva spinto il partito repubblicano verso una destra più radicale, Ryan era parte della zavorra che ne avrebbe impedito – o quantomeno rallentato – un’ulteriore evoluzione. Rappresentava la solidità e il senso di responsabilità, in contrasto con l’immaturità da bambino iperattivo e affetto da deficit dell’attenzione così tipica del Tea Party. E opponeva una resistenza stoica, quasi da martire, al movimento Trump.

Mentre l’establishment repubblicano esaltava la maturità e la sagacia di Ryan, l’ala Tea Party-Bannon-Breitbart aveva messo in atto una vera e propria campagna denigratoria, presentandolo come indifferente alla causa, inetto dal punto di vista strategico e inadatto al ruolo di leader. Lo trasformarono in una barzelletta: un fantoccio, tutto forma e niente sostanza, che suscitava scherno e imbarazzo.

Trump provava per lui un’avversione molto meno strutturata. Non aveva opinioni di sorta sulle sue capacità politiche e non si era mai interessato molto alle posizioni che prendeva. Per lui si trattava di una questione personale. Ryan lo aveva insultato, e in più di un’occasione. Aveva sempre scommesso contro di lui. Incarnava l’orrore e l’incredulità dell’establishment repubblicano nei suoi confronti. E per giunta il fatto che contestasse apertamente Trump pareva aver elevato la statura morale di Ryan. Insomma, oltre il danno la beffa: aveva guadagnato a sue spese e questo, per come era fatto Trump, equivaleva a un doppio affronto. Nella primavera del 2016 Ryan rappresentava ancora l’alternativa – l’unica ormai – a Trump come candidato del partito, e molti repubblicani erano certi che l’intera convention lo avrebbe appoggiato. Ryan, però, aveva azzardato un calcolo più machiavellico. Aveva lasciato che l’avversario conquistasse la nomination così da emergere come unica guida possibile del partito dopo la sua catastrofica sconfitta elettorale e la conseguente, inevitabile, purga dell’ala Tea Party-Trump-Breitbart.

Invece, a uscire distrutto dalle elezioni, almeno agli occhi di Steve Bannon, era stato Ryan. Trump non soltanto aveva salvato il partito repubblicano, ma gli aveva garantito una larga maggioranza. Il sogno di Bannon si era realizzato: il movimento del Tea Party, con il volto e la voce di Trump, aveva conquistato il potere. Un potere quasi assoluto. Si era impadronito del partito. Perciò l’ovvio e necessario passo successivo era il pubblico annientamento di Paul Ryan.

Quel passo, però, rischiava di arenarsi. Se Bannon, infatti, il cui disprezzo per Ryan era di natura ideologica, lo giudicava incapace e poco propenso a portare avanti la nuova agenda politica targata Bannon-Trump, il presidente, che invece l’aveva presa sul personale, vedendo Ryan sconfitto e umiliato cominciò di colpo – e con profonda soddisfazione – a considerarlo debole, docile e utile. Mentre Bannon voleva sbarazzarsi dell’intero establishment repubblicano, a Trump bastava che gli si mostrasse deferenza.

«È intelligente» commentò Trump dopo il suo primo colloquio post-elezioni con lo speaker. «Un uomo molto serio e rispettato da tutti.»

Secondo uno degli assistenti più vicini a Trump, Ryan riuscì a ottenere un rinvio dell’esecuzione «con una plateale, e francamente imbarazzante, leccata di culo». Mentre Bannon continuava a sostenere la candidatura di Meadows – un personaggio molto meno malleabile di Ryan –, Trump iniziava a tentennare e alla fine non solo dichiarò che Ryan sarebbe rimasto al suo posto, ma affermò anche che sarebbe diventato il suo migliore alleato, il suo uomo. In un’ennesima dimostrazione dei bizzarri e imprevedibili effetti su Trump delle dirette relazioni personali – e di quanto fosse facile vendere a un venditore –, il presidente iniziò a sostenere di slancio il programma di Ryan invece del contrario.

«Chi poteva immaginare che il presidente gli avrebbe dato carta bianca?» osservò in seguito Katie Walsh. «Dall’odio inveterato della campagna elettorale, la loro diventò una tale luna di miele che il presidente era disposto ad assecondarlo in tutto.»

Per la verità Bannon non si sorprese fino in fondo di quel cambio di rotta: sapeva bene quanto è facile raccontare balle a un cacciaballe. E sapeva anche che l’avvicinamento a Ryan dipendeva in parte dalla nuova consapevolezza che Trump aveva del proprio ruolo. Non era stato solo lo speaker a inchinarsi al presidente, anche Trump era disposto a inchinarsi davanti alla paura di non sapere un accidente di ciò che comportava la sua carica. Se poteva contare su Ryan per gestire il Congresso, allora – fiuuu! – almeno questa era risolta.

A Trump importava poco o niente di uno dei principali obiettivi repubblicani: la revoca dell’Obamacare. Da settantenne sovrappeso e con svariate fobie sul proprio aspetto fisico (per esempio mentiva sulla sua altezza per evitare che il calcolo dell’indice di massa corporea lo bollasse come obeso), considerava sgradevole ogni conversazione sulla salute e i trattamenti medici. I dettagli della contestata riforma lo annoiavano a morte, e la sua mente cominciava a vagare fin dalle prime battute di una discussione sulle politiche di governo. Se qualcuno lo avesse interrogato sui singoli aspetti dell’Obamacare, il presidente si sarebbe limitato a ridere dell’ingenua convinzione del suo predecessore di garantire a tutti un proprio medico curante. Di certo non sarebbe stato in grado di illustrare le differenze – negative o positive – apportate dalla riforma di Obama al sistema sanitario.

Possiamo presumere che, prima delle elezioni, Trump non si fosse mai soffermato a riflettere sul funzionamento dell’assicurazione sanitaria. «In tutto il Paese, se non addirittura nel mondo intero, nessuno era estraneo quanto lui a questo argomento» affermò Roger Ailes. Durante la campagna elettorale, incalzato da un giornalista sull’importanza di revocare e riformare l’Obamacare, Trump si era dimostrato a dir poco incerto sulla propria posizione. «Senza dubbio un tema importante, però è anche vero che i temi importanti sono parecchi… Forse potremmo classificarlo tra i primi dieci. Ecco, magari sì. Ma ce ne sono talmente tanti altri che è difficile esserne sicuri. Forse rientra tra i primi dodici o quindici… Di certo nella top twenty.»

Era un’altra delle sue affinità controintuitive con molti elettori: Obama e Hillary Clinton sembravano realmente interessati a sviscerare i problemi della sanità, mentre Trump, come gran parte della gente comune, no.

In linea di massima è probabile che preferisse l’idea che un buon numero di americani fosse coperto da un’assicurazione sanitaria e forse, messo alle strette, era addirittura più favorevole che contrario all’Obamacare. In più aveva fatto lui stesso una serie di impulsive promesse elettorali ispirate al suo predecessore, al punto da dichiarare che nel futuro piano Trumpcare nessuno avrebbe perso la copertura sanitaria, e che tutti avrebbero continuato a godere delle stesse agevolazioni. (Bisognò penare parecchio per dissuaderlo da quel rebranding: gli analisti politici gli spiegarono che non sempre era il caso di legare il proprio nome a qualcosa.) Non è da escludere che fosse il repubblicano più favorevole in assoluto a una sanità finanziata dallo Stato. «Per quale motivo l’assistenza sanitaria non può essere gratuita per tutti?» aveva chiesto, spazientito, ai suoi assistenti, che avevano badato bene a non battere ciglio davanti a una simile eresia.

Era Bannon a insistere sulla questione, ripetendo in tono severo che l’Obamacare era un banco di prova importante per i repubblicani. Considerando la solida maggioranza al Congresso, poi, ottenere la sua revoca sarebbe stato un gioco da ragazzi: inoltre, se non avesse obbedito a quell’imperativo, come avrebbe potuto Trump affrontare gli elettori repubblicani? Era un obiettivo imprescindibile e realizzarlo avrebbe avuto esiti molto soddisfacenti, persino catartici. Per non parlare della facilità con cui lo avrebbero conseguito, visto che pressoché tutti i repubblicani si erano già impegnati a votare per la sua abrogazione. Allo stesso tempo, però, Bannon era consapevole che il tema della sanità rischiava di indebolire il consenso del bannonismo-trumpismo presso le classi lavoratrici, per questo si tenne cautamente defilato nel dibattito. In seguito non si sarebbe nemmeno preso la briga di accampare scuse per il fatto di essersene lavato le mani, limitandosi a uno sbrigativo: «Non mi sono occupato della questione perché non è il mio campo».

Alla fine fu Ryan, con il suo «revocare e sostituire», a persuadere Trump. La prima parte dello slogan avrebbe soddisfatto i repubblicani, la seconda le avventate promesse del presidente durante la campagna elettorale. Prescindendo dall’alta probabilità che Trump intendesse il concetto di «revocare e sostituire» in modo molto diverso da Ryan, quella frase, che di fatto non veicolava alcun significato specifico, suonava come un ottimo messaggio propagandistico.

Una settimana dopo l’elezione, accompagnato da Tom Price – rappresentante della Georgia alla Camera e, in qualità di ortopedico, autorità di riferimento di Ryan su ogni tema sanitario –, lo speaker della Camera si recò nella tenuta di Trump a Bedminster, nel New Jersey, per presentare il progetto. I due riassunsero al presidente – che continuava a cambiare discorso, cercando di portare la conversazione sul golf – sette anni di pensiero legislativo repubblicano sull’Obamacare e le alternative proposte dal partito. Trump, che in genere tende ad assecondare chiunque sembri più informato di lui su una questione che non gli interessa particolarmente o che non ha intenzione di approfondire troppo nel dettaglio, commentava con un «Ottimo!», o esclamazioni analoghe, alla fine di ogni frase, cercando in tutti i modi un pretesto per tagliare la corda. Così aderì su due piedi alla proposta di Ryan di delegare a lui la stesura del disegno di legge e di nominare Price ministro della Salute e dei Servizi umani.

Kushner, che durante la fase di dibattito si era tenuto in disparte, a decisione presa sembrò pubblicamente rassegnarsi al fatto che un’amministrazione repubblicana non potesse esimersi dall’affrontare l’Obamacare; in privato, però, non fece mistero di essere contrario sia all’abrogazione di quella riforma, sia alla sua sostituzione. Sull’argomento lui e la moglie abbracciavano la visione dei democratici (cioè che l’Obamacare fosse comunque meglio delle alternative, e che le sue pecche si potessero correggere nel tempo) e ritenevano più strategico per la nuova amministrazione incassare qualche facile vittoria prima di affrontare le battaglie più dure o le crociate impossibili. (Senza contare che il fratello di Kushner, Josh, era a capo di una compagnia assicurativa la cui sopravvivenza dipendeva interamente dall’Obamacare.)

Perciò, per l’ennesima volta, la Casa Bianca si trovava divisa. Bannon era fermo sulla sua posizione, Priebus era allineato con Ryan a sostegno della leadership repubblicana e Kushner, senza che questo lo turbasse in maniera particolare, sosteneva una visione da democratico moderato. Quanto a Trump, il suo unico obiettivo era liquidare una questione che lo lasciava pressoché indifferente.

Le doti di persuasione di Ryan e Priebus promettevano anche di sollevare il presidente Trump da altri fastidi. Secondo lo speaker, la riforma sanitaria sarebbe stata una sorta di bacchetta magica. Una volta approvata al Congresso, avrebbe sbloccato i fondi necessari a coprire i tagli fiscali garantiti da Trump, e questi – a loro volta – avrebbero reso possibili tutti gli investimenti in infrastrutture promessi durante la campagna elettorale.

In questo scenario – secondo cui l’amministrazione, grazie a una specie di effetto domino, avrebbe mietuto un successo dopo l’altro fino alla pausa di agosto, passando alla storia come una delle più incisive dei tempi moderni –, Ryan avrebbe conservato la carica di speaker e da reietto qual era si sarebbe trasformato in uomo di fiducia del presidente a Capitol Hill. E Trump, ben consapevole della propria inesperienza e di quella del suo staff in ambito legislativo (nessuno dei suoi aveva la più pallida idea di come si redige una legge), aveva risolto il problema delegandolo al suo ex acerrimo nemico.

La rapidità con cui Ryan aveva messo le mani su quel disegno di legge già durante la transizione pose Bannon di fronte a un immediato problema di Realpolitik. Se il presidente era disposto a delegare la gestione delle iniziative più importanti, lui doveva passare al contrattacco e architettare nuove spacconate stile Breitbart. Kushner, invece, la prese con filosofia: il presidente era fatto a modo suo, e bisognava assecondarlo. Quanto a Trump, ormai era evidente, scegliere tra approcci politicamente opposti non rientrava nel suo stile di leadership. Lui si limita a sperare che le decisioni complicate si prendano da sé.

Bannon non disprezzava solo il pensiero politico di Ryan, ma anche il suo modo di fare politica. Dal suo punto di vista, la nuova maggioranza repubblicana aveva bisogno di un uomo alla John McCormack, lo speaker democratico della Camera quando lui era ragazzo che aveva portato al voto le proposte di legge del progetto «Great Society» del presidente Johnson. Erano questi i suoi veri eroi politici, McCormack e gli altri democratici degli anni Sessanta, persino Tip O’Neill era stato accolto nel suo personalissimo pantheon. Da cattolico irlandese di origini operaie, Bannon si sentiva distante, dal punto di vista ideologico, da aristocratici e possidenti, e non nutriva alcuna aspirazione a diventare come loro. Venerava i politici vecchio stampo – fisicamente ci somigliava persino: macchie epatiche, guance cascanti, edema – e disprezzava quelli moderni, così privi di talento e autenticità, tutti burocrati senz’anima. A sua volta cattolico di origini irlandesi, da bambino Ryan era stato chierichetto, e agli occhi di Bannon era rimasto tale. Non avrebbe mai potuto fare il delinquente, lo sbirro, il prete, né il politico vero.

Era uno sprovveduto, incapace di guardare più in là del proprio naso. Aveva a cuore solo la riforma fiscale, ma per arrivarci non vedeva altra via che passare da quella della riforma sanitaria. Quest’ultima, però, gli interessava così poco che – scaricando il barile, esattamente come la Casa Bianca aveva fatto con lui – delegò l’effettiva stesura del disegno di legge alle compagnie assicurative e ai lobbisti di Washington.

In realtà Ryan si era sforzato di interpretare la parte di un McCormack o un O’Neill, garantendo di avere tutto sotto controllo. La nuova legge, ripeteva al presidente durante le sue telefonate quotidiane, era «cosa fatta». Trump ormai si fidava di lui, e arrivò a convincersi che la sua Casa Bianca aveva, in una certa misura, preso il sopravvento sul Congresso. Tutto procedeva a gonfie vele, ammesso che il presidente fosse preoccupato, non aveva più nulla da temere. L’amministrazione stava per intascare un grosso successo, si vantò Kushner, pronto a salire sul carro dei vincitori a dispetto della sua avversione al disegno di legge.

Il sentore che la faccenda avesse preso tutt’altra piega si cominciò ad avvertire all’inizio di marzo. Katie Walsh, che adesso Kushner definiva «esigente e petulante», fu la prima a lanciare l’allarme. Ma ogni suo tentativo di indurre il presidente a impegnarsi in prima persona nella raccolta dei voti al Congresso fu bloccato da Kushner, attraverso una successione di scontri sempre più aspri. Il disastro era alle porte.

Trump continuava a liquidare la faccenda russa come «una montagna di idiozie». Ma il 20 marzo il direttore dell’FBI, James Comey, la presentò alla Commissione intelligence della Camera sotto una luce completamente diversa:

Il Dipartimento di Giustizia mi ha autorizzato a confermare che l’FBI, nel contesto di una missione di controspionaggio, sta indagando sui tentativi del governo russo di interferire con le elezioni presidenziali del 2016. Ciò implica l’analisi della natura degli eventuali rapporti tra il comitato elettorale di Trump e il governo russo, e l’accertamento dell’esistenza di una possibile intesa tra le due parti. Come in ogni indagine di controspionaggio, verranno valutate le ipotesi di reato. Poiché l’indagine è ancora in corso – e dunque protetta dal segreto istruttorio –, non posso aggiungere nulla sulle attività che stiamo svolgendo né su chi siano i soggetti la cui condotta è al nostro vaglio.

In realtà non c’era bisogno di aggiungere altro. Fino a quel momento c’erano solo voci, fughe di notizie, teorie, insinuazioni e aria fritta che, al massimo, potevano far sperare in uno scandalo. Invece Comey, sulla base di quegli elementi, aveva avviato un’inchiesta ufficiale sulla Casa Bianca. Tutti i tentativi di smontare il caso – bollarlo come fake news, tirare in ballo (per sua stessa ammissione) la germofobia del presidente contro le illazioni delle piogge dorate, lo sprezzante licenziamento di alcuni collaboratori e tirapiedi, l’insistenza sul fatto che nessuno dello staff era stato accusato di alcun crimine e persino la dichiarazione di Trump di essere stato vittima delle intercettazioni illegali di Obama – avevano fallito. Comey stesso escluse l’ipotesi delle intercettazioni. Già la sera del suo intervento davanti alla Commissione risultò evidente che la faccenda russa non si era sgonfiata, anzi, era sempre più pericolosa.

Kushner, segnato dai precedenti di suo padre con la giustizia, era angosciatissimo al pensiero dell’attenzione rivolta da Comey alla Casa Bianca. «Cosa possiamo fare per togliercelo di torno?» diventò una specie di ritornello con cui iniziò ad assillare tutti, in particolare Trump.

La questione però – come Bannon cercò di spiegare senza grande successo ai colleghi e al presidente – era anche strutturale. Era una mossa dell’opposizione. Potevi sorprenderti di quanto feroci, creative e diaboliche fossero le trovate dei tuoi avversari, ma non che questi cercassero di danneggiarti. Certo, era uno scacco al re, ma non certo un matto. Dovevano continuare a giocare, tenendo a mente che la partita sarebbe stata lunga. L’unico modo di vincerla, per Bannon, era seguire una precisa strategia.

Ma il presidente è un ossessivo, non uno stratega. Per lui non si trattava di affrontare un problema, ma di concentrarsi su una persona: Comey. Trump dichiarò guerra all’avversario. Per lui il direttore dell’FBI rappresentava un mistero: prima aveva lasciato cadere l’indagine sulle email della Clinton, poi, a pochi giorni dalle elezioni, aveva praticamente salvato la sua campagna annunciando la riapertura dell’inchiesta.

Di persona Trump lo aveva trovato rigido: niente battute, nessuna disinvoltura. Tuttavia, convinto come suo solito di essere irresistibile, credeva che Comey apprezzasse il suo senso dell’umorismo e savoir-faire. Quando, all’inizio del mandato, Bannon e altri avevano cercato di convincere il presidente a licenziare il direttore dell’FBI, Kushner si era opposto e Bannon aveva aggiunto un’altra voce al lungo elenco di pessimi consigli dati dal suo rivale. In quell’occasione, la risposta di Trump era stata: «Non preoccupatevi, a lui ci penso io». Non aveva alcun dubbio che, corteggiandolo e adulandolo a dovere, lo avrebbe indotto a un atteggiamento più amichevole, se non addirittura servile.

Esistono diversi tipi di seduttori. Quelli dotati di un fiuto soprannaturale nell’intuire le reazioni delle persone che cercano di conquistare e quelli talmente spudorati che, per la legge dei grandi numeri, spesso ci riescono (ma forse, in questo caso, la definizione corretta sarebbe «molestatori»). Con le donne, Trump si comportava così: era soddisfatto quando aveva successo, indifferente in caso contrario (oppure convinto di essere andato a segno, anche a dispetto dell’evidenza). Con Comey adottò la stessa tecnica.

Dai loro numerosi incontri dopo l’insediamento – il 22 gennaio, quando Comey ricevette l’abbraccio presidenziale; il 27 gennaio, alla cena in cui il presidente gli chiese di restare a capo dell’FBI; il 14 febbraio, quando rimasero a tu per tu dopo aver cacciato dall’ufficio tutti gli altri, compreso Sessions, formalmente il superiore di Comey –, Trump si era convinto di aver fatto colpo. Era certissimo che Comey, sapendo che lui gli aveva coperto le spalle (cioè gli aveva permesso di tenersi il lavoro), lo avrebbe ricambiato con la stessa moneta.

Come spiegare, dunque, la testimonianza resa davanti alla Commissione? Non aveva il minimo senso. L’unico movente possibile era la mania di protagonismo. Comey sbavava per l’attenzione dei media, atteggiamento che Trump conosceva bene. D’accordo, dunque: se voleva la guerra, lo avrebbe accontentato.

L’irritante complessità della riforma sanitaria – che, già di suo una seccatura, lo stava diventando ancora di più, davanti all’evidenza che Ryan non sarebbe riuscito a portare a casa il risultato – fu spazzata via dalla questione Comey, e dalla furia, la bile e l’astio che Trump e i suoi familiari riversavano su di lui.

Era Comey il vero problema e l’unica soluzione era abbatterlo. Diventò una missione.

Con una goffaggine degna dei maldestri poliziotti delle comiche, la Casa Bianca coinvolse Devin Nunes – presidente della Commissione intelligence della Camera – in un tentativo farsesco di screditare il direttore dell’FBI e suffragare la teoria delle intercettazioni. Il piano non impiegò molto a coprirsi di ridicolo.

Bannon, che si era defilato sia rispetto all’Obamacare sia a Comey, cominciò a suggerire ai reporter che la vicenda da seguire con maggiore interesse non riguardasse la riforma sanitaria, ma la Russia. Una posizione ambigua: non si capiva se Bannon stesse cercando di distogliere l’attenzione dall’imminente débâcle sulla sanità oppure se volesse sommare un disastro all’altro, allo scopo di scatenare il genere di caos dal quale era abituato a trarre beneficio.

Su una cosa, tuttavia, fu chiarissimo. «Con gli sviluppi della vicenda russa» raccomandò ai reporter, «tenete d’occhio Kushner.»

A metà marzo, il compito di evitare il naufragio del disegno di legge sulla sanità fu affidato a Gary Cohn. È possibile che agli occhi di Cohn, persino più a digiuno degli altri in materia legislativa, quel reclutamento fosse parso una sorta di rito d’iniziazione.

Venerdì 24 marzo, la mattina in cui in teoria la Camera avrebbe dovuto votare sulla sanità, Playbook, la rubrica di «Politico», attribuì alla possibilità che la votazione si tenesse davvero una probabilità «da testa o croce». Alla riunione dello staff qualcuno chiese a Cohn un parere sulla situazione, e prontamente lui rispose: «Dipenderà dal lancio della monetina».

Cosa? pensò Katie Walsh. Sarebbe questa la tua valutazione?

Bannon, che condivideva con la Walsh il disprezzo per il tentativo di salvataggio messo in atto dalla Casa Bianca, prese di mira Kushner, Cohn, Priebus, Price e Ryan in una serie di telefonate ai giornalisti. Al primo intoppo, profetizzò, Kushner e Cohn avrebbero abbandonato il campo. (In effetti Kushner aveva trascorso buona parte della settimana a sciare in montagna.) Priebus ripeteva gli slogan e le scuse di Ryan. Price, il presunto esperto di sanità, era un ottuso impostore: i suoi interventi alle riunioni non erano altro che un cumulo di sciocchezze a malapena comprensibili.

Erano loro i cattivi, per colpa dei quali l’amministrazione avrebbe perso il consenso del Congresso nel 2018, garantendo di conseguenza l’impeachment del presidente. Era un classico esempio di analisi alla Bannon: un’apocalisse politica certa e immediata, sostenuta in parallelo con l’ipotesi di mezzo secolo di regno incontrastato del bannonismo-trumpismo.

Convinto di conoscere la direzione giusta, acutamente consapevole della propria età e dei limiti alle opportunità ancora a disposizione, e vedendosi come un campione del corpo a corpo politico – per quanto in sostanza mai testato sul ring –, Bannon cercò di tracciare un confine tra fedeli e traditori. Per vincere doveva isolare le fazioni di Ryan, Cohn e Kushner.

Pur prevedendo una sconfitta certa, la sua fazione tenne duro sulla necessità di costringere la Camera a votare sul disegno di legge. «Mi serve per valutare il lavoro svolto da Ryan come speaker» disse Bannon. Cioè come la prova di una disfatta completa.

Il giorno in cui era prevista la votazione, Pence fu inviato a Capitol Hill per un appello dell’ultimo minuto al Freedom Caucus di Meadows. (I collaboratori di Ryan erano convinti che Bannon, a dispetto dell’ordine perentorio di votare la revoca, impartito all’inizio della settimana – «una stupida esibizione delle sue», nelle parole della Walsh –, avesse in segreto continuato a sobillare i membri del Caucus affinché si astenessero.) Alle tre e mezzo Ryan telefonò al presidente per informarlo che mancavano tra i quindici e i venti voti, e che perciò bisognava annullare la votazione. Bannon, sostenuto da Mulvaney – che nel frattempo era diventato l’uomo della Casa Bianca a Capitol Hill –, continuò a spingere per andare subito al voto. Una sconfitta sarebbe stata un colpo durissimo per la leadership repubblicana, e questo a Bannon andava benissimo: che fallissero pure.

Il presidente, però, si tirò indietro. Di fronte all’opportunità unica di mettere in un angolo la leadership repubblicana, additandola come il problema, Trump vacillò, provocando la furia non proprio muta di Bannon. Ryan in seguito lasciò trapelare alla stampa l’informazione che era stato il presidente a chiedergli di annullare la votazione.

Durante il fine settimana, Bannon telefonò a un lungo elenco di reporter, dichiarando, a microfoni spenti, ma quasi accesi: «Dubito che Ryan resterà in circolazione ancora a lungo».

Quel venerdì, dopo il ritiro della proposta di legge, Katie Walsh, furibonda e disgustata, annunciò a Kushner che intendeva dimettersi. Riassumendo quella che considerava una desolante sconfitta della Casa Bianca, parlò con sferzante schiettezza delle aspre rivalità che serpeggiavano tra i membri dello staff, alle quali si univano un’abissale incompetenza e un programma nebuloso. Kushner, intuendo che bisognava subito screditarla, fece girare la voce che la Walsh era una talpa della stampa e dunque andava cacciata.

Domenica sera, la Walsh cenò con Bannon nel suo fortino di Capitol Hill, la Breitbart Embassy. Lui la implorò di restare, ma non ci fu niente da fare. Lunedì, la Walsh definì i dettagli organizzativi con Priebus: lasciata la Casa Bianca, si sarebbe alternata tra il Comitato nazionale repubblicano e il (c)(4), il gruppo di consulenza esterna durante la campagna elettorale di Trump. Il giovedì era già sparita.

In dieci settimane dall’inizio del mandato, dopo Michael Flynn, l’amministrazione Trump aveva perso il suo secondo membro di vertice. Quello che aveva il compito di ottenere risultati concreti.