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Comey
«È impossibile fargli capire che non può interferire con l’indagine» sbottò agli inizi di maggio Roger Ailes, membro esasperato dell’informale gabinetto di consultazione di Trump. «Un tempo era diverso, si poteva imporre agli investigatori di lasciar perdere, di non indagare su qualcuno. Ma se ci provi adesso, come d’incanto l’indagato diventi tu. Ma non c’è verso di spiegarglielo.»
All’origine del problema c’era la combriccola dei miliardari che ogni sera parlava al telefono con Trump e che, nel tentativo di tranquillizzarlo, di fatto lo stava aizzando. E il motivo del contendere era l’inchiesta dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia. Molti di quegli uomini facoltosi si consideravano esperti in materia. Nel corso delle loro carriere gli apparati di giustizia avevano procurato loro così tanti grattacapi da indurli a crearsi contatti e fonti all’interno del Dipartimento, per tenersi aggiornati sulle sue iniziative. Era giunta voce che Flynn stava per essere coinvolto, come pure Manafort. E in ballo non c’era soltanto la Russia. C’era Atlantic City. E Mar-a-Lago. E Trump SoHo.
Chris Christie e Rudy Giuliani – che a loro volta si consideravano particolarmente esperti in materia e sostenevano a spada tratta l’affidabilità delle proprie fonti – ripetevano al presidente che il Dipartimento di Giustizia gliel’aveva giurata: era tutto parte di un complotto di Obama.
E ancora più pressante era il timore di Charlie Kushner, filtrato attraverso il figlio e la nuora, che indagando su Trump gli inquirenti finissero per ficcare il naso anche nei suoi affari. A gennaio una fuga di notizie aveva mandato a monte un accordo dei Kushner con il colosso finanziario cinese Anbang Insurance Group, per il rifinanziamento del vasto debito di una delle principali proprietà immobiliari di famiglia, 666 Fifth Avenue. A fine aprile, grazie a fonti interne al Dipartimento di Giustizia, un articolo di prima pagina del «New York Times» aveva collegato Kushner a Beny Steinmetz, un miliardario israeliano con interessi nel settore dei diamanti, delle estrazioni minerarie e dell’immobiliare, in rapporti con i russi e indagato dalle polizie di tutto il mondo. (Alla reputazione di Kushner non aveva giovato il fatto che il presidente avesse raccontato senza farsi troppi problemi che Jared poteva risolvere in quattro e quattr’otto il problema del Medio Oriente, perché i Kushner conoscevano tutti i malavitosi di Israele.) La prima settimana di maggio, il «New York Times» e il «Washington Post» avevano scritto dei tentativi della famiglia di attirare investitori cinesi con la promessa di visti americani.
I «ragazzi» – Jared e Ivanka – avevano la netta e angosciatissima impressione che l’FBI e il Dipartimento di Giustizia avessero allargato le indagini dall’interferenza russa nelle elezioni alle finanze di famiglia. «Ivanka è terrorizzata» gongolò Bannon.
Al suo coro di miliardari Trump cominciò a domandare se non fosse il caso di licenziare il direttore del Bureau, Comey. Non che fosse la prima volta che ci pensava, ma in passato Comey veniva citato solo en passant insieme alla sfilza di altre persone di cui Trump minacciava sempre di sbarazzarsi. Secondo te dovrei licenziare Bannon? E McMaster? E Spicer? E Tillerson? Il rituale – lo sapevano tutti – serviva più da pretesto per fare sfoggio dei suoi poteri presidenziali che per intavolare una vera discussione sullo staff. Ma nel mondo al contrario di Trump, bastava che i miliardari prendessero anche solo lontanamente in considerazione la domanda per concludere che la risposta fosse sì. Secondo Icahn dovrei licenziare Comey (o Bannon, o Priebus, o McMaster, o Tillerson).
Ma la figlia e il genero, i cui timori erano intensificati da quelli di Kushner senior, la pensavano davvero così. Insistettero con il presidente che, se una volta si poteva ancora sperare di conquistarlo, adesso Comey era diventato una mina vagante, un avversario pericoloso la cui vittoria avrebbe inevitabilmente significato una sconfitta per loro. Quando Trump si agita per qualcosa, osservò Bannon, è perché c’è sempre qualcuno a istigarlo, e in quei giorni la famiglia non parlava d’altro: Comey era ambizioso, ripetevano, in toni sempre più concitati e febbrili, e si sarebbe fatto un nome distruggendo loro. Il rullo dei tamburi era sempre più assordante.
«Quel figlio di puttana si è messo in testa di licenziare il capo dell’FBI» disse Ailes.
La prima settimana di maggio, il presidente fece una sfuriata a Sessions e al suo vice, Rod Rosenstein. Li mortificò entrambi, sbraitando che non erano capaci di controllare i propri sottoposti, e che dovevano trovare una scusa per licenziare Comey, anzi, li accusò per non averlo già fatto mesi prima (scaricando su di loro la responsabilità di non aver deciso il cambio della guardia al momento dell’insediamento).
Sempre quella settimana, il presidente, Jared, Ivanka, Bannon e Priebus convocarono nello Studio Ovale il consigliere legale della Casa Bianca, Don McGahn. L’incontro avvenne a porte chiuse, il che lo rese ancora più sospetto, dato che quella porta era sempre aperta.
I democratici odiano Comey in blocco, dichiarò il presidente, formulando il parere che più gli tornava comodo come fosse una realtà di fatto. E anche gli agenti dell’FBI: il settantacinque per cento di loro non lo sopporta proprio. (Era stato Kushner a scovare chissà dove quella percentuale, e Trump non aveva esitato a usarla.) Licenziarlo sarà un vantaggio enorme in termini di raccolta fondi, aggiunse poi, proprio lui che di raccolta fondi non voleva mai nemmeno sentir parlare.
McGahn cercò di spiegargli che non era Comey a dirigere l’indagine sulla Russia, e che l’inchiesta sarebbe proseguita anche senza di lui. In virtù del suo incarico, McGahn si trovava spesso nella necessità di raccomandare cautela al presidente, e di conseguenza era un bersaglio frequente delle sue ire. Di solito le sfuriate di Trump sembravano quasi studiate ad arte, ma i segnali di una collera genuina c’erano tutti: perdeva completamente il controllo, gli si deformavano i tratti e si gonfiavano le vene. Uno spettacolo impressionante. E stava per succedere anche adesso.
Incenerendo il consigliere legale con uno sguardo, Trump sbottò: «Comey è un traditore». C’erano traditori ovunque e andavano annientati. John Dean, John Dean, ripeté. «Lo sai che cos’ha fatto John Dean a Nixon?»
Trump, che vedeva la storia in termini di personaggi – alcuni simpatici, altri detestabili –, era fissato con John Dean. Dava di matto quando, ai talk show, un Dean molto invecchiato e ingrigito paragonava il Trumpgate al Watergate. Gli bastava vederlo per dimenticare tutto il resto e lanciarsi in un inarrestabile monologo in cui inveiva contro la slealtà delle persone e le cose che erano disposte a fare pur di apparire in televisione, di solito accompagnando l’invettiva con varie teorie revisioniste sul Watergate e sul fatto che in realtà Nixon era stato incastrato. E sui traditori. Gente pronta a calpestarti per farsi strada. Parassiti che bisogna eliminare. E la Casa Bianca ne era infestata. (In seguito sarebbe stato Bannon a prenderlo da parte, per ricordargli che nell’amministrazione Nixon John Dean era stato proprio consigliere legale, e che quindi forse era il caso di dare un po’ di tregua a McGahn.)
Alla riunione, Bannon, prima completamente isolato ma ora unito a Priebus dalla comune avversione a Jarvanka, colse l’opportunità per argomentare con passione che Comey bisognava lasciarlo stare: tesi che, pur senza farne i nomi, era anche un atto d’accusa contro Jared, Ivanka e quei «geni» dei loro alleati. («Genio» era un termine che Trump usava in senso derisorio per bollare chiunque lo infastidisse o si considerasse più intelligente di lui, e Bannon se n’era appropriato per denigrare la sua stessa famiglia.) In tono fosco e minaccioso, Bannon avvertì Trump: «La questione della Russia per ora è soltanto un trafiletto, ma se licenzi Comey finirà in prima pagina sui giornali di tutto il mondo».
Lui e Priebus uscirono dalla riunione convinti di aver prevalso. Ma già nel fine settimana, davanti all’angoscia della figlia e del genero, il presidente ricominciò a masticare bile. I Trump stavano passando il weekend a Bedminster, nel New Jersey, e avevano invitato anche Stephen Miller. Il tempo era pessimo e, non potendo giocare a golf, il presidente era inevitabilmente tornato sulla questione Comey. Secondo gli estranei alla cerchia di Jarvanka, fu Jared a spingerlo all’azione, fomentando la sua rabbia. Nella loro versione, Kushner, con l’assenso del presidente, suggerì a Miller alcuni possibili estremi per la cacciata del direttore dell’FBI e gli chiese di stendere la bozza di una lettera di licenziamento. Miller, che a scrivere aveva qualche difficoltà, chiese aiuto alla Hicks, a sua volta priva di talenti troppo spiccati. (In seguito Miller sarebbe stato rimproverato da Bannon per essersi lasciato coinvolgere e potenzialmente compromettere dall’intrigo Comey.)
Scritta in fretta e furia, e secondo le direttive di Kushner o del presidente stesso, la lettera era un assurdo guazzabuglio di tutti gli elementi che la famiglia Trump avrebbe usato per giustificare il licenziamento: il modo in cui Comey aveva gestito l’inchiesta su Hillary Clinton, il fatto (inserito su richiesta di Kushner) che persino l’FBI lo detestava e l’ossessione principale del presidente, il rifiuto di Comey di smentire ufficialmente le voci del suo coinvolgimento nell’inchiesta. Insomma, tutto tranne il fatto che il Bureau stesse effettivamente indagando sul presidente.
La fazione di Kushner avrebbe contestato aspramente la versione che indicava Jared come motore o eminenza grigia dell’operazione, scaricando ogni responsabilità – il testo della lettera quanto la volontà di sbarazzarsi di Comey – sulle spalle del presidente, e assegnando al genero la parte di testimone passivo (in questi termini: «Kushner era a favore della decisione?». «Sì.» «Era stato informato del licenziamento imminente?» «Sì.» «Ha caldeggiato la decisione?» «No.» «Ha esercitato pressioni per settimane o mesi per estromettere Comey?» «No.» «Si è opposto all’estromissione?» «No.» «Aveva messo in guardia il presidente sul rischio che finisse male?» «No»).
Inorridito dalla lettera, McGahn dichiarò recisamente che andava cestinata. Nonostante la raccomandazione del legale, la bozza fu consegnata a Sessions e Rosenstein, che si affrettarono a prepararne un’altra, interpretando a modo loro i desideri espliciti di Kushner e del presidente.
«Lo sapevo che appena tornato avrebbe fatto scoppiare la bomba» disse Bannon dopo il rientro del presidente dal weekend a Bedminster.
La mattina di lunedì 8 maggio, nel corso di una riunione nello Studio Ovale, il presidente informò Priebus e Bannon di aver preso una decisione: il direttore Comey andava licenziato. Entrambi lo implorarono di non farlo, chiedendogli quantomeno di rifletterci ancora un po’. È una tecnica chiave per gestire il presidente: rinviare. Rimandando un’iniziativa si apre la possibilità che intervenga qualcos’altro – un fiasco equivalente o persino peggiore – a prevenire il disastro imminente. E poi la strategia sfrutta abilmente la bassissima soglia di attenzione di Trump: qualunque cosa abbia in mente viene presto soppiantata da una nuova ossessione. Al termine dell’incontro, Priebus e Bannon erano certi di aver almeno guadagnato un margine di respiro.
Più tardi, lo stesso giorno, Sally Yates e James Clapper, ex direttore dell’Intelligence nazionale, comparvero dinanzi alla sottocommissione del Senato per le inchieste penali e il terrorismo, scatenando una furibonda bufera di tweet di Trump.
Un altro esempio, osservò Bannon, del problema fondamentale di Trump: il vizio di prendere ogni cosa sul personale. Il presidente interpreta tutto secondo la logica tipica del mondo degli affari o dello spettacolo. C’è sempre qualcuno che cerca di fregarti, rubandoti un cliente o la scena. La vita è una battaglia continua per impedire a chi ha meno di te di sottrarti ciò che è tuo. Per Bannon il fatto di ridurre la politica a duelli e polemiche sminuiva la portata storica dell’impresa compiuta da Trump e dalla sua amministrazione. Ma mascherava anche i veri poteri che li avversavano. Non erano le persone il nemico, ma le istituzioni.
Quanto a Trump, il suo nemico era Sally Yates, «quella puttana».
Dopo il suo licenziamento, il 30 gennaio, la Yates aveva conservato un riserbo altamente sospetto. Avvicinati dai giornalisti, lei e i suoi intermediari spiegavano che gli avvocati avevano imposto il silenzio stampa. Il presidente era certo che stesse soltanto preparando il suo agguato. Nelle telefonate agli amici, si interrogava sul «piano», la «strategia» della sua avversaria, e continuava a incalzare le sue fonti del dopocena, chiedendo loro quale potesse essere «l’asso nella manica» della Yates e di Ben Rhodes, ai suoi occhi il principale complice di Obama nel «complotto».
Rispetto ai suoi nemici – e, per la verità, anche agli amici –, la questione che più lo preoccupava era la strategia mediatica. Erano i media il campo di battaglia. Trump dà per scontato che chiunque al mondo non aspiri ad altro che ai proverbiali quindici minuti di celebrità, e quindi tenga in serbo un piano da mettere in atto quando, finalmente, abbia conquistato le luci della ribalta. Se sulla stampa non puoi diventare un protagonista, allora diventi un informatore. Niente è casuale, nel mondo dei media. Tutto è manipolato e pianificato, una montatura o una macchinazione. Tutte le news sono in una certa misura fake, di questo Trump è sicuro, dato che lui stesso ne ha fabbricate in quantità industriali durante la sua carriera. Per questo ha aderito subito al concetto di fake news. «È da una vita che invento balle e la stampa le pubblica regolarmente» è un suo vanto.
Il ritorno di Sally Yates e la sua comparizione davanti alla sottocommissione d’inchiesta non potevano essere che la battuta d’inizio di un’incisiva e ben organizzata campagna di marketing a vantaggio dell’ex viceattorney general. (L’ipotesi fu confermata alla fine di maggio dal generoso e celebrativo profilo della Yates pubblicato dal «New Yorker». «Qui voleva arrivare, quella» fu il commento del presidente. «Era già tutto architettato. E questa è la sua ricompensa.») «La Yates è famosa solo grazie a me» si lamentò, inasprito. «Senza di me, non è nessuno.» Davanti al Congresso, quel lunedì mattina, la Yates rese una performance da Oscar – fredda, controllata, dettagliata, senza traccia di protagonismo –, fomentando la collera e l’agitazione del presidente.
La mattina di martedì 9 maggio, con il presidente ancora fissato sul licenziamento di Comey, e Kushner e la figlia a spalleggiarlo, Priebus insistette per un nuovo rinvio. «Esiste un protocollo per questo genere di cose» spiegò a Trump. «Non è il caso che Comey venga a saperlo dalla televisione. Lo ripeto per l’ultima volta: questa non è la strada giusta. Se proprio volete licenziarlo, bisogna dirglielo di persona. È questo il comportamento corretto e professionale.» Di nuovo il presidente sembrò placarsi per concentrarsi sulla procedura necessaria.
Ma era un’illusione. In realtà, quando vuole svicolare dalle procedure convenzionali – o, come in quel caso specifico, ignorare ogni relazione tra causa ed effetto –, il presidente si limita a escludere ogni altro interlocutore dalle sue personali procedure. Anche quella volta, all’insaputa di tutti, aveva deciso di fare di testa sua. È possibile che il licenziamento di James Comey dalla direzione dell’FBI passi agli annali come la più esplosiva decisione unilaterale di un presidente moderno.
Intanto, al Dipartimento di Giustizia, l’attorney general Sessions e il suo vice Rosenstein stavano a loro volta montando un caso contro Comey. Avrebbero adottato la linea decisa a Bedminster, imputandogli gli errori commessi nella gestione della faccenda delle email della Clinton: un’accusa poco credibile perché, se fosse davvero stata quella la questione, per quale motivo Comey non era stato licenziato subito, all’insediamento dell’amministrazione Trump? Comunque Sessions e Rosenstein si stavano affannando invano. Il presidente aveva già deciso di fare a modo suo.
Jared e Ivanka continuavano a spronarlo, ma nemmeno loro sapevano che la mannaia stava per abbattersi. Hope Hicks, l’ombra fedele di Trump, in genere al corrente di ogni suo pensiero – se non altro perché lui è incapace di tenerseli per sé –, era ignara di tutto. Come pure Steve Bannon, per quanto convinto che la bomba sarebbe scoppiata da un momento all’altro. Il capo di gabinetto era all’oscuro. E anche l’ufficio stampa. Indifferente a qualsiasi regola, il presidente stava per lanciare una crociata personale, dichiarando guerra all’FBI, al Dipartimento di Giustizia e a molti membri del Congresso.
A un certo punto del pomeriggio, Trump informò la figlia e il genero del suo piano. I due aderirono all’istante, diventarono suoi complici e tennero alla larga dal presidente chiunque fosse contrario al licenziamento.
Per una sinistra coincidenza, quel giorno il lavoro nella West Wing stava procedendo in modo ordinato e senza intoppi. Mancava poco alle cinque e nell’atrio c’era il solito viavai: il cronista politico e commentatore di campagne elettorali Mark Halperin attendeva Hope Hicks, Howard Kurtz di Fox era lì per vedere Sean Spicer e l’assistente di Reince Priebus era andato ad avvertire la persona che lo stava aspettando che il suo capo avrebbe tardato qualche minuto.
Fu allora che, informato sbrigativamente McGahn delle sue intenzioni, il presidente premette il grilletto. Le cinque erano passate da pochi minuti quando la sua guardia del corpo personale, Keith Schiller, si presentò nella sede dell’FBI per consegnare all’ufficio di Comey la lettera di licenziamento. La seconda frase del testo comprendeva queste parole: «Con la presente si certifica il suo decadimento dall’incarico, con decorrenza immediata».
A causa di un servizio raffazzonato, trasmesso da Fox News, per qualche momento lo staff della West Wing si illuse che Comey avesse rassegnato le dimissioni. Poi, viaggiando attraverso i vari uffici, la realtà soppiantò l’equivoco.
«Quindi adesso tocca a un procuratore speciale?» esclamò Priebus, incredulo e come tra sé, appena lo informarono dell’accaduto.
Spicer, che in seguito sarebbe stato aspramente rimproverato per non aver saputo presentare la faccenda in una luce favorevole al presidente, ebbe appena il tempo di assimilare la notizia prima dell’aggressione della stampa.
Non solo il presidente aveva preso la decisione senza consultare nessuno, tranne la sua strettissima cerchia familiare, ma furono lui, Ivanka e Kushner a gestire quasi da soli anche la narrazione dei fatti, la loro spiegazione, persino le giustificazioni legali. Il pretesto adottato da Sessions e Rosenstein per il licenziamento fu inserito quasi all’ultimo secondo nel comunicato ufficiale, e a quel punto, su indicazione di Kushner, il motivo del licenziamento diventò che il presidente aveva agito su loro raccomandazione. Il compito ingrato di presentare quell’improbabile versione dei fatti toccò a Spicer e al vicepresidente. Ma la tesi di facciata crollò ben presto, se non altro perché quasi tutti nella West Wing, affrettandosi a prendere le distanze dal disastro, contribuirono a smontarla.
Ora la frattura interna alla Casa Bianca vedeva da un lato il presidente e la sua famiglia, e dall’altro tutto lo staff, incredulo, allibito, ammutolito.
Trump sembrò persino voler smentire la tesi precedente sulle insistenze di Rosenstein e Sessions. Ci teneva a far sapere al mondo quanto era pericoloso quando veniva provocato: era stato lui e soltanto lui ad abbattere Comey. Era una faccenda personale. Si atteggiò a presidente potente e vendicativo, pronto a colpire senza pietà quanti cercavano di sfidarlo, e implacabile nel proteggere la sua famiglia.
«La figlia rovescerà il padre» commentò Bannon, dando alla vicenda una cupa sfumatura shakespeariana.
Ancora stranito, lo staff della West Wing continuava a ripetere che si sarebbe potuto fare diversamente. Dovevano pur esistere sistemi più diplomatici per sbarazzarsi di Comey, e al presidente di fatto erano stati suggeriti. (Una delle proposte più involute, e che in seguito avrebbe assunto una valenza ironica, era sollevare il generale Kelly dalla carica di ministro della Sicurezza interna e insediare Comey al suo posto.) Ma la verità era che Trump quegli scenari alternativi li aveva respinti tutti per un motivo ben preciso: il suo intento era punire e umiliare il direttore dell’FBI. La crudeltà è una delle sue prerogative.
Per questo il licenziamento era avvenuto nel modo più pubblico possibile, e davanti agli occhi della famiglia di Comey, colto in contropiede dalla notizia mentre teneva un discorso in California. Dopodiché il presidente rese ancora più personale la faccenda con una violenta invettiva contro il direttore, in cui tra l’altro insinuava che l’intero Bureau disprezzasse Comey quanto lui.
Il giorno dopo, come per dare ulteriore risalto e bearsi ancora di più sia dell’insulto sia della propria impunità, ricevette nello Studio Ovale una delegazione di pezzi grossi russi, compreso l’ambasciatore Kisljak, a sua volta al centro dell’inchiesta sul Trumpgate. Ai suoi ospiti il presidente dichiarò: «Ho appena licenziato il capo dell’FBI. Era un matto, un vero squinternato. Ho subito grandi pressioni per via della Russia. Adesso la questione è risolta». Poi, non contento, rivelò un’informazione fornita agli Stati Uniti da Israele, attraverso un suo agente in Siria, su un nuovo metodo messo a punto dall’ISIS per nascondere bombe nei laptop da portare in aereo; e così facendo si addentrò in dettagli sufficienti a far saltare la copertura dell’agente israeliano. (L’episodio non contribuì a ingraziargli le cerchie dell’intelligence: nel mondo delle spie, l’identità delle fonti è il segreto più classificato in assoluto.)
«È Trump» disse Bannon. «Crede di poter silurare tutto il Bureau.»
Il presidente era convinto che il licenziamento di Comey l’avrebbe reso un eroe agli occhi del mondo. Nelle ventiquattro ore successive presentò la sua versione dei fatti a vari amici. La storia era semplicissima: aveva tenuto testa all’FBI. Aveva dimostrato la volontà di sfidare i poteri dello Stato. L’outsider contro gli insider. In fondo non era proprio per questo che la gente l’aveva votato?
In un certo senso aveva ragione. Uno dei motivi per cui i presidenti non licenziano i direttori dell’FBI è il timore delle conseguenze. È la sindrome di Hoover: tutti i presidenti possono diventare ostaggio delle informazioni di cui è in possesso l’FBI, e se si azzardano a non trattarlo con deferenza lo fanno a proprio rischio e pericolo. Trump, invece, aveva sfidato il Bureau: si era scagliato da solo contro un potere arbitrario da sempre oggetto delle contestazioni della sinistra e, in tempi più recenti, anche della destra. «Non capisco» diceva il presidente agli amici, in tono sempre più implorante. «Perché non fanno tutti il tifo per me?»
Anche questo è un suo tratto fondamentale: l’incapacità di vedere il suo comportamento dalla prospettiva degli altri. O di comprendere fino in fondo cosa gli altri si aspettano da lui. Il concetto della presidenza come ruolo istituzionale e politico che richiede di attenersi a un certo rituale, nonché alla correttezza e cura semiotica del messaggio – l’arte del governo, insomma –, gli è completamente estraneo.
Nel governo la notizia del licenziamento di Comey fu accolta da un moto di repulsione istintiva da parte di tutti gli apparati burocratici. Bannon aveva cercato di spiegare a Trump come sono fatti i funzionari di carriera nelle istituzioni, che si sentono al sicuro all’interno di organizzazioni egemoniche e credono in una causa comune: sono persone molto, molto diverse da chi punta a una distinzione individuale. E Comey era in primo luogo un burocrate. Cacciarlo con disonore equivaleva all’ennesimo insulto del presidente nei confronti dell’apparato burocratico.
Rod Rosenstein, autore della lettera che da principio aveva fornito la giustificazione per il licenziamento, si trovò nella linea di fuoco. A cinquantadue anni e con gli occhiali senza montatura – l’accessorio emblema del burocrate –, era il procuratore in servizio da più tempo del Paese. Ha sempre vissuto all’interno del sistema, con l’unica aspirazione di veder riconosciuto il suo rispetto indefettibile per tutte le regole. È un uomo schietto e trasparente, e tiene moltissimo a questa reputazione.
Adesso tutti quegli anni di lavoro erano ridotti in cenere. A furia di intimidazioni, un presidente prepotente e arrogante aveva indotto i due più alti rappresentanti della legge a condannare in modo sconsiderato, o quantomeno intempestivo, il direttore dell’FBI. Già prima Rosenstein si era sentito usato e sfruttato. E ora scopriva anche di essere stato imbrogliato. Era un allocco.
Trump aveva costretto lui e Sessions a fabbricare una giustificazione legale, senza poi reggere la messinscena burocratica. Dopo averli coinvolti nel suo piano, adesso mostrava che i loro sforzi di presentare un’argomentazione ragionevole e legittima erano in realtà una truffa e, potenzialmente, un reato di intralcio alla giustizia. Aveva chiarito senza mezzi termini di non aver licenziato il direttore dell’FBI perché si era comportato male nella faccenda della Clinton; lo aveva fatto perché il Bureau stava indagando con troppa aggressività su di lui e sulla sua amministrazione.
Più che ligio ai regolamenti, Rod Rosenstein – che fino a quel momento aveva incarnato la quintessenza del funzionario apolitico – diventò agli occhi di tutta Washington un ignaro strumento di Trump. La mortificazione era cocente. Ma la vendetta fu istantanea, devastante e (naturalmente) servita nel più assoluto rispetto delle regole.
Data la decisione dell’attorney general di ricusarsi dall’indagine sulla Russia, ora spettava al suo vice determinare se sussistesse un conflitto di interessi – ovvero se lui stesso fosse coinvolto nella vicenda al punto da non poter agire in modo obiettivo –, e in tal caso, a sua sola discrezione, nominare un procuratore speciale, esterno, con ampi poteri e prerogative, alla guida dell’indagine e, potenzialmente, del processo.
Il 17 maggio, otto giorni dopo il licenziamento di Comey, senza consultare la Casa Bianca o l’attorney general, Rosenstein nominò l’ex direttore dell’FBI Robert Mueller a capo dell’inchiesta sui legami fra Trump, il suo comitato elettorale, il suo staff, e la Russia. Se poco prima Michael Flynn era diventato l’uomo più potente di Washington per ciò che poteva rivelare sul conto del presidente, adesso Mueller lo era molto di più, perché aveva la facoltà di costringere Flynn e l’intera banda di sottoposti e amici storici di Trump a vuotare il sacco.
Naturalmente, e forse con una certa soddisfazione, Rosenstein sapeva di aver sferrato ciò che sarebbe potuto essere un colpo letale alla presidenza Trump.
Meravigliato, scuotendo la testa, Bannon commentò, in tono asciutto: «Trump non si rende conto di ciò che lo aspetta».