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Bannon e Scaramucci
L’appartamento di Bannon nella contea di Arlington, in Virginia, a una quindicina di minuti d’auto dal centro di Washington, era soprannominato «il covo», quasi a riprova della precarietà di Bannon nonché, con una certa ironia, della natura clandestina e persino romantica della sua politica: quelle canaglie dell’alt-right e la loro joie de guerre. Bannon era riparato lì dalla Breitbart Embassy, in A Street, sulla collina di Capitol Hill. Era un monolocale da studente universitario in un immobile a uso promiscuo sopra un gigantesco McDonald’s – quasi a voler nascondere le sue presunte ricchezze –, con cinque o seicento libri (molti dei quali testi divulgativi a carattere storico) impilati contro il muro privo di scaffali. Anche la sua luogotenente, Alexandra Preate, viveva nel palazzo, come pure l’avvocato americano di Nigel Farage, il leader britannico di destra, propugnatore della Brexit, che faceva parte dell’orbita più ampia di Breitbart.
La sera di giovedì 20 luglio, il giorno dopo la tumultuosa riunione sull’Afghanistan, Bannon stava offrendo una piccola cena a base di cibo cinese da asporto, organizzata dalla Preate. Era espansivo, di umore quasi festaiolo e tuttavia consapevole che, quando ci si sente in cima al mondo, nell’amministrazione Trump, ci si può attendere con buone probabilità di essere fatti fuori. Era lo schema ricorrente, e il prezzo della leadership individuale, quella di un uomo insicuro, quantomeno: se c’era un altro vincente lì accanto, andava ridimensionato.
Molti intorno a lui avevano la sensazione che Bannon stesse per entrare in un’altra spirale negativa. Al primo giro era stato punito per la copertina su «Time» e per il ritratto a Saturday Night Live del «presidente Bannon», la più crudele delle stoccate a Trump. Ora era uscito un libro, Devil’s Bargain (Patto con il diavolo), che sosteneva, spesso usando le parole di Bannon, che Trump non ce l’avrebbe fatta senza di lui. Il presidente era di nuovo contrariato.
Eppure Bannon pareva sentirsi ormai oltre le nuvole. Qualunque cosa fosse accaduta, aveva una visione chiara degli eventi, adesso, e all’interno della Casa Bianca regnava un tale caos che quella chiarezza, se non altro, lo avrebbe portato in vetta. Le sue priorità erano al primo posto, i suoi nemici relegati ai margini. Jared e Ivanka ricevevano colpi ogni giorno ed erano, al momento, anche troppo impegnati a difendere se stessi; Dina Powell si stava cercando un altro lavoro; McMaster si era fatto fuori da solo con la vicenda Afghanistan; Gary Cohn, un tempo temibile avversario, stava tentando disperatamente di farsi nominare presidente della FED e cercava di arruffianarselo («Viene a leccarmi il culo» chiosò Bannon con una risatina sommessa). In cambio del sostegno alla nomina, lui stava ottenendo l’appoggio di Cohn alla sua agenda.
I geni erano fottuti. Forse persino il presidente era fottuto. Ma Bannon aveva la visione e la disciplina, ne era certo. «Mi faccio il culo ogni giorno. L’agenda nazionalista… è roba nostra, cazzo. Sarò lì fino alla fine.»
Prima della cena, Bannon aveva fatto circolare un articolo uscito pochi giorni prima sul «Guardian» – il suo giornale preferito malgrado fosse tra le principali testate di sinistra in lingua inglese – sulle ripercussioni della globalizzazione. Il pezzo, del giornalista liberal Nikil Saval, avallava la premessa politica populista di Bannon – «la concorrenza tra i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo e di quelli sviluppati […] ha contribuito a ridurre salari e sicurezza del posto di lavoro nei Paesi sviluppati» – e la elevava al rango di scontro epocale del nostro tempo. Davos era morta, Bannon, invece, vivissimo. «Economisti che erano un tempo ardenti fautori della globalizzazione sono diventati tra i suoi critici principali» scriveva Saval. «E oggi ammettono, almeno in parte, che la globalizzazione ha prodotto diseguaglianze, disoccupazione e pressione al ribasso sui salari. Perplessità e valutazioni che gli economisti esprimevano solo nel privato dei loro seminari stanno infine venendo allo scoperto.»
«Comincio a essere stufo di vincere» era stato l’unico commento di Bannon, nella sua email con il link dell’articolo.
Camminando avanti e indietro, irrequieto, prese a raccontare come Trump avesse scaricato McMaster e ad assaporare l’esilarante assurdità della mossa dei geni, la scelta di Scaramucci. Ma a lasciarlo incredulo era soprattutto una cosa accaduta il giorno prima.
Senza informarne i vertici del suo staff o l’ufficio comunicazioni, se non con un’annotazione pro forma, il presidente aveva rilasciato un’importante intervista al «New York Times». L’avevano organizzata Jared e Ivanka, con l’aiuto di Hope Hicks. Maggie Haberman del «Times», la bestia nera di Trump («molto cattiva e per niente intelligente») eppure la giornalista della quale più ricercava l’approvazione, era stata chiamata a incontrarlo insieme ai colleghi Peter Baker e Michael Schmidt: ne era scaturita una delle interviste presidenziali più singolari e malconsigliate della storia, ad opera di un presidente che già deteneva vari primati in quel campo.
Nell’intervista, Trump aveva eseguito le volontà della figlia e del genero, ormai fuori di sé. Sebbene con una finalità non chiara e senza una strategia precisa, aveva mantenuto la sua linea d’azione, minacciando l’attorney general per la sua scelta di astenersi, spianando la strada a un procuratore speciale. Spingeva esplicitamente Sessions a dimettersi, insultandolo e prendendosi gioco di lui, sfidandolo a restare, se ne aveva il coraggio. Tutto ciò non sembrava giovare alla causa di nessuno, se non forse a quella del procuratore speciale. Ma l’incredulità di Bannon – «Jefferson “Beauregard” Sessions non se ne andrà mai» – si concentrava su un altro stupefacente passaggio: il presidente aveva ammonito l’ufficio del procuratore speciale Mueller a non varcare il confine delle sue finanze di famiglia.
«Eeeh… eeeh… eeeh…» gemette Bannon, imitando il suono di un allarme. «Non guardate qui! Diciamo al procuratore dove non deve andare a ficcare il naso!»
Descrisse la conversazione che aveva avuto con Trump quello stesso giorno. «Sono andato dritto da lui e gli ho chiesto: “Perché hai detto una cosa simile?”. E lui: “La cosa su Sessions?”. E io: “No, quella è brutta, ma è normale amministrazione”. Ho insistito: “Perché hai detto che le finanze della tua famiglia sono off limits?”. E lui: “Be’, è…”. Gli faccio: “Ehi, faranno quel che devono… Potrà non piacerti, ma ti sei appena garantito che se anche vorrai piazzare qualcun altro come procuratore speciale, ogni senatore gli farà giurare che per prima cosa verrà a chiederti con un mandato le tue stramaledette dichiarazioni dei redditi”.»
Sempre sconcertato, raccontò poi i dettagli di un recente articolo del «Financial Times» su Felix Sater, uno dei più ambigui tra gli ambigui personaggi associati a Trump, schierato con l’avvocato personale del presidente, Michael Cohen (a quanto si diceva, nel mirino dell’indagine di Mueller), e collegamento chiave della «pista dei soldi» con la Russia. Sater – «Senti questa… So che potrebbe sconvolgerti, ma aspetta…» – aveva avuto in precedenza gravi problemi con la legge, «beccato a Boca con un paio di tizi a riciclare denaro russo attraverso una boiler room». E ora saltava fuori che «fratello Sater» era stato indagato da – «Senti!» – Andrew Weissmann (il potente avvocato di Washington che dirigeva la divisione frodi penali del Dipartimento di Giustizia ed era stato assunto di recente da Mueller). «Miei cari Jarvanka, avete addosso il LeBron James delle indagini sul riciclaggio. Mi si stringe il culo!»
Bannon si batté i fianchi, poi tornò alla sua conversazione con il presidente. «E lui mi fa: “Non fa parte dei loro compiti”. Sei serio, amico?»
La Preate, mettendo in tavola il cibo cinese, disse: «Neanche far chiudere bottega alla Arthur Andersen durante la vicenda Enron era tra i loro compiti, ma questo non ha fermato Andrew Weissmann». Il capo delle indagini sul caso Enron.
«Capisci bene dove si va a parare» proseguì Bannon. «Riciclaggio di denaro. Mueller ha assoldato Weissmann e lui è specializzato in riciclaggio. La loro via per fottere Trump passa direttamente per Paul Manafort, Don Jr. e Jared Kushner… È lampante. Passa per la Deutsche Bank e per tutta quella merdata di Kushner. Lì sì che troveranno palate di letame. Andranno fino in fondo. Impacchetteranno quei due e diranno: Sputate il rospo o siete finiti. Ma… l’executive privilege!» scimmiottò Bannon. «Abbiamo l’executive privilege! Non esiste nessun executive privilege! Lo ha dimostrato il Watergate.»
Bannon parve di colpo aver esaurito le energie. Dopo una pausa, aggiunse in tono stanco: «Se ne stanno seduti sulla spiaggia pensando di poter fermare un uragano di categoria 5».
Con le mani di fronte a sé mimò qualcosa di simile a un campo di forza che lo avrebbe isolato dal pericolo. «Non mi riguarda. Ha i cinque geni, o no? Jarvanka, Hope Hicks, Dina Powell e Josh Raffel.» Alzò di nuovo le mani, questa volta come a dire: Io non mi immischio. «Io non conosco russi, non so niente di niente. Non sarò chiamato a testimoniare. Non assumerò un avvocato. Il mio culo non si siederà mai davanti ai microfoni della tv a rispondere alle domande. Hope Hicks è fottuta e manco ne ha idea. La faranno a pezzi. I media spremeranno Don Jr. come un limone. E lo stesso con Michael Cohen. Lui» – il presidente – «ha tenuto a dire che chiunque, al posto di Don Jr., sarebbe andato a quell’incontro con i russi. “Nessuno ci sarebbe andato” ho risposto io. “Io sono un ufficiale di marina. Non vado a incontrare cittadini russi, per giunta nella sede ufficiale, sei fuori di testa?” E lui mi fa: “Ma è un bravo ragazzo”. Non ci sono stati incontri di quel genere dopo che ho preso in mano io la campagna elettorale.»
Di fronte all’assurdità di quella situazione, il tono di Bannon passò dalla disperazione alla rassegnazione. «Se licenzia Mueller non farà che accelerare l’impeachment. Ma facciamolo, dai, perché no. Perché no? Cosa dovrei fare io? Andare a salvarlo? È Donald Trump. È lui che fa sempre le cose. Vuole un attorney general che non si astenga. Gli ho detto che se se ne va Jeff Sessions, se ne va Rod Rosenstein, seguito a ruota da Rachel Brand» – subito dopo Rosenstein nella gerarchia – «e noi ci ritroveremo a scavare fino a gente che ha fatto carriera nell’amministrazione Obama. Un uomo di Barack Obama farà da attorney general. Gli ho detto: “Non riuscirai ad avere Rudy”» – Trump aveva espresso di nuovo il desiderio che l’incarico fosse assunto dai suoi fedelissimi Rudy Giuliani o Chris Christie – «“perché avendo partecipato alla campagna elettorale dovrebbe anche lui astenersi, e anche Chris Christie, perciò queste sono solo seghe mentali, toglitele dalla mente. E ormai per essere confermati si dovrà prestare giuramento e garantire che si andrà avanti e non si licenzierà nessuno, perché tu ieri hai detto” – eeeh… eeeh… eeeh… – “‘le finanze della mia famiglia non si toccano’ e loro esigeranno che chiunque ci sia prometta e si impegni a inserire le finanze di famiglia nell’indagine”. Gli ho detto: “È una certezza matematica, sicuro come l’oro, perciò ti conviene sperare che Sessions rimanga”.»
«Stava chiamando gente a New York ieri sera, chiedendo cosa fare» aggiunse la Preate (quasi tutti alla Casa Bianca ricostruivano il pensiero di Trump in base alle persone a cui aveva telefonato la sera prima).
Bannon si appoggiò allo schienale e, fumante per la frustrazione – pareva quasi uscito da un cartone animato –, tratteggiò la sua strategia legale in stile Clinton. «Si sono messi in assetto da combattimento con straordinaria disciplina. Hanno sgobbato un sacco.» Ma quella era una questione di disciplina, sottolineò, e Trump, disse, puntualizzando l’ovvio, era l’uomo meno disciplinato in politica.
Era chiaro dove Mueller e il suo team sarebbero andati a parare, continuò: avrebbero rintracciato una pista di denaro attraverso Paul Manafort, Michael Flynn, Michael Cohen e Jared Kushner e ricondotto uno di loro, o tutti, al presidente.
«Ha un che di shakespeariano» disse, elencando i cattivi consigli della cerchia familiare: «Sono i geni, le stesse persone che lo hanno convinto a licenziare Comey, le stesse che sull’Air Force One hanno tagliato fuori il suo team legale esterno e, pur sapendo delle email, che le prove esistevano, hanno fatto uscire la dichiarazione su Don Jr., che l’incontro riguardava solo le adozioni… Sono gli stessi geni che hanno cercato di far silurare Sessions.
«Kasowitz lo conosce da venticinque anni. Lo ha tolto da un sacco di casini. In campagna elettorale c’erano… quante? Un centinaio di donne? Kasowitz si è occupato di ognuna di loro. E adesso dura quanto? Quattro settimane? Neanche il tempo di carburare. Questo è l’avvocato più tosto di New York, ed è a pezzi. Mark Corallo, il figlio di puttana più tosto che abbia mai conosciuto, non ce la fa».
«Jared e Ivanka credono» disse ancora Bannon «che se sosterranno la riforma carceraria e salveranno il DACA» – il programma volto a tutelare i figli degli immigrati irregolari – «i liberal scenderanno in loro difesa.» Fece una breve digressione sull’acume legislativo di Ivanka Trump e sulla sua difficoltà, diventata una preoccupazione non da poco alla Casa Bianca, a ottenere appoggi per la sua proposta sul congedo parentale retribuito. «Il motivo, continuo a ripeterle, è che politicamente non ha i numeri. Sai com’è facile farsi sponsorizzare un disegno di legge? Qualunque idiota può riuscirci. Sai perché il tuo non raccoglie adesioni? Perché la gente vede quanto è stupido.» Non a caso, disse, strabuzzando gli occhi e spalancando la bocca, era stata un’idea di Jarvanka cercare di barattare l’amnistia con il muro di confine. «Se non è l’idea più stupida della civiltà occidentale, di sicuro è tra le prime tre. Questi geni sanno almeno chi siamo?»
Proprio allora Bannon ricevette una chiamata, con la notizia che, a quanto pareva, Scaramucci avrebbe davvero potuto ricoprire il ruolo di direttore delle comunicazioni. «Non prendermi in giro, amico» rise. «Non ci provare nemmeno!»
Chiuse la telefonata, esprimendo di nuovo il proprio stupore, misto a disprezzo, per il mondo di fantasia in cui vivevano i geni. «Io neanche ci parlo. Sai perché? Penso ai cazzi miei e con quelli loro non ci hanno a che fare. Non mi interessa cosa combinano, non me ne importa… Non ho intenzione di restare da solo con loro, né di trovarmi con loro nella stessa stanza. Ivanka è entrata nello Studio Ovale, oggi, e appena è arrivata, io l’ho guardata e sono uscito… Non ci resto in una stanza… non voglio. È entrata Hope Hicks e io me ne sono andato.»
«L’FBI ha sbattuto in carcere il padre di Jared» disse la Preate. «Non capiscono che non ci si immischia…»
«Charlie Kushner» la interruppe Bannon, dandosi una manata sulla fronte. «Sta dando di matto perché scaveranno a fondo nei suoi affari per capire come ha finanziato ogni cosa… I rabbini con i diamanti e tutta quella merda proveniente da Israele… e tutta questa gente che arriva dall’Europa orientale… questi russi… e gente del Kazakistan… E lui non può rinegoziare il debito sul 666 [Fifth Avenue], quando andrà in bancarotta, il prossimo anno, cadrà anche tutto il resto… È annientato, finito, andato… senza scampo.»
Si prese per un momento il volto tra le mani, poi rialzò gli occhi. «Sono piuttosto bravo a escogitare soluzioni, ne ho tirata fuori una per quella sua campagna sgangherata più o meno in un giorno, ma in questa faccenda non ne vedo. Non mi viene nessuna idea per uscirne. Be’, un’idea gliel’ho data; ho detto: “Spranga la porta dello Studio Ovale, rispedisci a casa i due ragazzi, sbarazzati di Hope, di tutti quei parassiti, e comincia a dar retta al tuo team legale. Kasowitz, Mark Dowd, Jay Sekulow e Mark Corallo. Sono professionisti che hanno fatto mille volte cose del genere. Dai ascolto a loro e non riparlare mai più di questa roba, comportati semplicemente da comandante in capo e, allora, potrai fare il presidente per otto anni… Altrimenti, no: semplice”. Ma è lui il presidente, gli viene data una possibilità e sta chiaramente scegliendo di seguire un’altra strada… E non c’è modo di fermarlo. Quell’uomo giocherà a modo suo. È Trump…»
Poi giunse un’altra chiamata, di Sam Nunberg questa volta. Anche lui telefonava a proposito di Scaramucci e le sue parole provocarono in Bannon qualcosa di simile allo sbigottimento: «Non può, cazzo, non può essere vero».
Bannon concluse la telefonata e disse: «Gesù, Scaramucci. Non so nemmeno cosa rispondere. È una cosa kafkiana. Jared e Ivanka avevano bisogno di qualcuno che spiegasse bene le loro merdate. È follia. Resterà su quel podio due giorni e lo faranno talmente a fette che gronderà sangue a litri. Scoppierà, nel senso letterale del termine, nel giro di una settimana. Ecco perché non prendo seriamente questa roba. Assumere Scaramucci? Non è qualificato per fare un cazzo. Gestisce un fondo di fondi. Lo sai che cos’è un fondo di fondi? Non è un fondo. Amico, è pazzesco. Ci facciamo la figura dei pagliacci».
I dieci giorni di Anthony Scaramucci furono inaugurati, il 21 luglio, dalle dimissioni di Sean Spicer, che, stranamente, sembrarono cogliere tutti di sorpresa. In una riunione con Scaramucci, Spicer e Priebus, il presidente – che, annunciando l’assunzione del nuovo direttore delle comunicazioni, lo aveva promosso non solo al di sopra di Spicer, ma di fatto anche al di sopra di Priebus, capo di gabinetto – osservò che i tre sarebbero dovuti riuscire a risolvere la cosa insieme.
Spicer se ne tornò nel suo ufficio, stampò la lettera di dimissioni e andò a consegnarla all’esterrefatto presidente, che cercò di dissuaderlo. Spicer, però, probabilmente l’uomo più sbeffeggiato d’America, capiva che gli si era presentata un’occasione d’oro. I suoi giorni alla Casa Bianca erano finiti.
Per Scaramucci era il momento della rivincita. Attribuiva i suoi umilianti sei mesi nel dimenticatoio soprattutto a Reince Priebus. Dopo aver annunciato che lo attendeva un radioso futuro alla Casa Bianca e venduto la sua società in previsione dell’evento, non aveva ottenuto nulla… Nulla, almeno, che valesse davvero. Ma ora, con un capovolgimento degno di un vero «drago» di Wall Street – degno, in effetti, dello stesso Trump –, si ritrovava di colpo alla Casa Bianca, più grande e splendente di quanto lui stesso avrebbe avuto la sfacciataggine di immaginare. E Priebus era spacciato.
Quello era il segnale che il presidente aveva inviato a Scaramucci: Sistema questo casino. Nella visione di Trump, i problemi del suo mandato fino a quel momento erano dovuti solo ed esclusivamente al team: via il team, via i problemi. Perciò, Anthony aveva ricevuto i suoi ordini. Il fatto che il presidente ripetesse la stessa solfa sulla squadra scadente fin dal primo giorno, che quel ritornello fosse stato una costante dalla campagna elettorale in poi, che gli capitasse spesso di dire a tutti che li voleva fuori, salvo poi tornare sui suoi passi e chiarire che non intendeva sul serio, sfuggì del tutto a Scaramucci.
Cominciò a prendere in giro pubblicamente Priebus e nella West Wing adottò la linea dura nei confronti di Bannon («Non prendo ordini da lui»). Trump pareva approvare una simile condotta e Scaramucci era convinto di dover proseguire in quella direzione. Anche Jared e Ivanka erano compiaciuti: erano sicuri di aver fatto centro e che il nuovo arrivato li avrebbe protetti da Bannon e compagnia.
Bannon e Priebus non erano solo increduli, ma facevano fatica a trattenere le risate. Per entrambi Scaramucci poteva essere solo un’allucinazione – si domandavano se non bastasse chiudere gli occhi al suo passaggio – o, in alternativa, un ulteriore passo verso la follia.
Anche rispetto ad altre settimane campali alla Casa Bianca, quella del 24 luglio fu da sbattere la testa contro il muro. Innanzitutto si aprì con la nuova puntata di quella che era diventata la sitcom sul tentativo di revocare l’Obamacare al Senato. Come alla Camera, il nodo da sciogliere non riguardava tanto l’assistenza sanitaria quanto la disputa tra i repubblicani al Congresso e tra la leadership repubblicana e la Casa Bianca. L’elenco dei voti del partito repubblicano era diventato il simbolo della guerra intestina in corso tra le sue file.
Quel lunedì il genero del presidente apparve ai microfoni di fronte alla West Wing per un’anteprima della dichiarazione che avrebbe reso agli inquirenti del Senato in merito ai collegamenti della campagna elettorale di Trump con la Russia. Non avendo quasi mai parlato prima in pubblico, negò la sua colpevolezza nel pasticcio russo con sprovveduta ingenuità, voce stridula e un tono di autocommiserazione, dipingendosi come un novello Candido, che un mondo duro e spietato aveva privato di ogni illusione.
Poi, quella sera, il presidente si recò in West Virginia, per tenere un discorso ai boy scout d’America. Ancora una volta il tono del suo intervento fu in contrasto con il luogo, l’occasione e il buonsenso. Suscitò le scuse immediate dell’organizzazione ai suoi membri, ai loro genitori e al Paese in generale. La breve gita non parve migliorare l’umore di Trump: il mattino dopo, furibondo, attaccò di nuovo pubblicamente il suo attorney general e, per buona misura e senza un motivo evidente, twittò la sua messa al bando dei transgender dalle forze armate (gli erano state presentate quattro opzioni diverse relative alla politica da adottare in materia, e al solo scopo di impostare una discussione in merito, invece dieci minuti dopo, senza consultare nessuno, Trump twittò la sua decisione).
L’indomani, mercoledì, Scaramucci seppe di una fuga di notizie relativa a un documento con alcune informazioni finanziarie; presumendo di essere stato sabotato dai suoi nemici, diede direttamente la colpa a Priebus e lo accusò tra le righe di illecito. In realtà il documento era pubblico, quindi accessibile a chiunque.
Quel pomeriggio, Priebus disse al presidente che si rendeva conto di doversi dimettere e che sarebbe stato opportuno discutere della sua sostituzione.
La sera, poi, ci fu una piccola cena alla Casa Bianca, con varie personalità presenti e passate di Fox News, compresa Kimberly Guilfoyle, e la notizia trapelò. Scaramucci, che aveva bevuto più del solito nel disperato tentativo di mantenere riservati i catastrofici dettagli della sua vita personale (il legame con la Guilfoyle non avrebbe certo giovato alle trattative di divorzio con la moglie) e stremato dagli eventi oltre la sua capacità di sopportazione, telefonò a un reporter del «New Yorker» e vuotò il sacco.
Ne derivò un articolo surreale: così crudo nella sua virulenza che per quasi ventiquattro ore nessuno sembrò riuscire ad ammettere che Scaramucci aveva commesso un suicidio pubblico. Nel pezzo, che citava tra virgolette le sue precise parole, parlava senza mezzi termini del capo di gabinetto: «Reince Priebus, se proprio volete un’indiscrezione… Gli sarà chiesto molto presto di rassegnare le dimissioni». Precisando che aveva assunto il nuovo incarico «per servire il Paese» e «non in cerca di autopromozione», l’intervistato se la prendeva poi anche con Bannon: «Io non sono Steve Bannon, non cerco di farmi i pompini da solo». (Bannon seppe dell’articolo quando fu chiamato dalla redazione del magazine per un commento in merito all’affermazione del neodirettore delle comunicazioni.)
Scaramucci, che aveva di fatto pubblicamente licenziato Priebus, si era spinto così oltre che diventava impossibile dire chi sarebbe caduto per primo. Priebus, da tempo sul punto di essere silurato, si rese conto di essere stato troppo frettoloso ad accettare di dimettersi, visto che forse avrebbe avuto l’opportunità di sbattere fuori Scaramucci.
Il venerdì, mentre la revoca della riforma sull’assistenza sanitaria sprofondava in Senato, Priebus salì a bordo dell’Air Force One per accompagnare il presidente, diretto a New York per un discorso. C’era anche Scaramucci, il quale, per evitare le ripercussioni dell’articolo del «New Yorker», aveva detto a tutti di essere a New York in visita alla madre. Fino a quel momento si era in realtà nascosto al Trump Hotel di Washington, ma ora eccolo lì, con le valigie in mano (da sua madre, alla fine, ci sarebbe andato sul serio), a comportarsi come se niente fosse.
Durante il volo di ritorno, Priebus e il presidente discussero la tempistica della sua uscita di scena, con Trump che lo esortava ad agire con cautela e a prendersi il tempo necessario. «Mi dirai tu come ritieni meglio procedere» gli disse. «Facciamo le cose per bene.»
Qualche minuto dopo, mentre Priebus posava il piede sulla pista, una notifica sul cellulare gli annunciò che il presidente aveva appena pubblicato un tweet: era stato incaricato un nuovo capo di gabinetto, il ministro della Sicurezza interna John Kelly, e lui – Priebus – era fuori.
La presidenza Trump aveva solo sei mesi, ma la questione di un eventuale rimpiazzo per Priebus era stata argomento di dibattito fin quasi dal primo giorno. Tra i possibili candidati si facevano i nomi della Powell e di Cohn, i favoriti di Jarvanka, del direttore dell’ufficio per la gestione e il bilancio Mick Mulvaney, sostenuto da Bannon, e dello stesso Kelly.
Quest’ultimo – che di lì a poco si sarebbe scusato con Priebus per la mancanza della più elementare cortesia con cui erano state gestite le sue dimissioni – non era stato in realtà consultato. Il presidente aveva twittato la sua nomina prima che lui stesso ne fosse informato.
Ma davvero non c’era tempo da perdere. Il problema principale del governo di Trump era che qualcuno avrebbe dovuto licenziare Scaramucci e, poiché il Mooch si era in effetti sbarazzato di Priebus – la persona che, a rigor di logica, avrebbe dovuto eliminare lui –, occorreva un nuovo capo di gabinetto, più o meno seduta stante, per liberarsi del Mooch.
E sei giorni più tardi, giusto qualche ora dopo aver prestato giuramento, Kelly eseguì.
Redarguiti a loro volta, Ivanka e Jared, i geni che lo avevano assunto, temettero di vedersi attribuire, meritatamente, la colpa di una delle più grottesche se non catastrofiche scelte del personale nella storia moderna della Casa Bianca e si affrettarono a dichiarare che sostenevano con assoluta fermezza la decisione di licenziare Scaramucci.
«Quindi, ti do un pugno in faccia» commentò Sean Spicer da bordo campo, «e poi ti dico: “Oh, mio Dio, dobbiamo portarti all’ospedale!”.»