3

Day One

Il trentaseienne Jared Kushner si vantava della sua capacità di andare d’accordo con gli uomini più anziani. Quando Donald Trump si insediò alla Casa Bianca, Kushner era diventato l’intermediario designato tra il suocero e l’establishment, o quantomeno la parte di establishment disposta ad avere a che fare con lui: i repubblicani più moderati, gli industriali, i ricchi di New York. Le élite, allarmate da una situazione potenzialmente imprevedibile, erano ben contente di poter contare su qualcuno che sembrasse in grado di gestirla.

Molti nella cerchia più ristretta di suo suocero si confidavano anche con lui, spesso manifestando la propria preoccupazione per il loro amico e presidente neoeletto.

«Gli do ottimi consigli su come comportarsi e il giorno dopo lui li segue per tre ore, dopodiché se ne va dritto per la sua strada» si lagnò uno di loro con Kushner. Quest’ultimo, che per abitudine ascoltava tutto senza dire granché, rispose che capiva la sua esasperazione.

Ciascuno di quei potenti cercò di infondere a Trump almeno una vaga percezione di come funziona la politica nel mondo reale, che tutti loro ritenevano di conoscere molto meglio di lui. Temevano che Trump non avesse idea di ciò che lo aspettava. La sua follia era del tutto priva di metodo.

E ognuno di quegli interlocutori impartì a Kushner una sorta di lezione sui limiti del potere presidenziale, spiegandogli che Washington era pensata più per osteggiarlo e minarlo che per assecondarlo.

«Non permettergli di mettersi contro la stampa e il partito repubblicano e impediscigli di minacciare i membri del Congresso, perché se ci provi quelli ti fottono. Ma soprattutto non deve fare incazzare l’intelligence» gli disse un esponente dei repubblicani. «Se scherza con l’intelligence, quelli si vendicano e trascinano l’indagine sulla faccenda della Russia per due o tre anni, con fughe di notizie ogni giorno.»

Si sforzarono di scuotere l’impassibilità sovrumana di Kushner dipingendo a tinte fosche il mondo delle spie e il loro potere, la loro tendenza a divulgare segreti a ex membri dell’intelligence o ad altri alleati nel Congresso e persino a funzionari dell’esecutivo, per poi finire in pasto alla stampa.

Adesso Kushner parlava spesso anche con Henry Kissinger. Lo statista si era trovato in prima fila quando la comunità dell’intelligence si era rivoltata contro Richard Nixon e gli illustrò il genere di guai, o peggio, in cui poteva impantanarsi la nuova amministrazione.

Il deep state («Stato profondo»), ovvero la convinzione, trasversale a destra e a sinistra, di una perenne cospirazione tra il governo e le reti dell’intelligence, un concetto molto usato da Breitbart News, diventò uno slogan per la squadra di Trump: il presidente neoeletto aveva risvegliato l’orso dello Stato profondo.

I protagonisti della congiura avevano nome e cognome: il direttore della CIA John Brennan, il direttore dell’Intelligence nazionale James Clapper, l’esuberante consigliere per la Sicurezza nazionale Susan Rice e il suo vice Ben Rhodes, prediletto di Obama.

Si disegnarono trame da film: una congrega di scagnozzi dell’intelligence, in possesso di innumerevoli prove della sventatezza e dei discutibili traffici di Trump, avrebbe impedito alla nuova amministrazione di governare con uno stillicidio di rivelazioni scandalose, imbarazzanti e depistanti fatte filtrare alla stampa.

Ciò che tutti ripetevano a Kushner era che il presidente doveva fare ammenda. Tendere un ramoscello d’ulivo. Rabbonire. Non si scherza con certi poteri, gli dicevano in tono grave e solenne.

Per l’intera campagna e in modo ancora più intenso in seguito, Trump aveva preso di mira la comunità dell’intelligence americana – la CIA, l’FBI, il Consiglio per la Sicurezza nazionale (NSC) e un totale di diciassette diverse agenzie – sparando accuse di incompetenza e calunnia. (Quando entrava in argomento, disse un suo assistente, inseriva «il pilota automatico».) Era il più sostanzioso dei molti e contraddittori messaggi di Trump in contrasto con l’ortodossia conservatrice. Le accuse rivolte all’intelligence comprendevano le errate informazioni sulle armi di distruzione di massa che avevano preceduto la guerra in Iraq, una litania di fiaschi sotto l’amministrazione Obama nella gestione delle guerre in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia e altri conflitti e, ultima per tempistica ma non certo per importanza, la fuga di notizie relativa all’indagine sui suoi presunti intrallazzi e sotterfugi in Russia.

Le sue critiche sembravano allinearlo con la sinistra che per mezzo secolo aveva additato le agenzie di intelligence americane come il cattivo per eccellenza. Tranne che adesso, con un capovolgimento notevole, l’ostilità condivisa nei confronti di Donald Trump aveva tramutato i liberal in alleati dell’intelligence. Buona parte della sinistra, che aveva respinto a gran voce e con indignazione il giudizio secco della comunità dell’intelligence su Edward Snowden (non disinteressato paladino della verità e della libertà ma traditore di segreti nazionali), di colpo dichiarava perfettamente attendibili le ipotesi dei torbidi rapporti fra Trump e i russi avanzate dall’intelligence stessa.

Trump era pericolosamente isolato.

Perciò a Kushner sembrò ragionevole inserire tra le priorità più urgenti della nuova amministrazione un tentativo di riconciliazione con la CIA.

Trump non si divertì per niente alla sua cerimonia di insediamento. Aveva sperato in una festa faraonica. Tom Barrack, aspirante uomo di spettacolo – oltre al Neverland Ranch di Michael Jackson, aveva comprato anche la Miramax dalla Disney, in società con l’attore Rob Lowe –, aveva declinato l’offerta di diventare capo di gabinetto ma, come parte del suo coinvolgimento ombra nella Casa Bianca dell’amico, aveva raccolto i fondi necessari alla cerimonia e promesso un evento «voluttuoso» e «poetico», elementi non soltanto in contrasto con la personalità del nuovo presidente, ma anche con il desiderio di Bannon di dare all’occasione un tono austero e populista. Trump implorò gli amici di usare la loro influenza per convincere a esibirsi almeno alcune delle star di prima grandezza che stavano snobbando l’evento, salvo poi sentirsi offeso e infuriarsi perché quelle star sembravano determinate a metterlo in imbarazzo. Bannon, abile a tranquillizzare oltre che a sobillare, cercò di calmarlo spiegando al nuovo presidente che il suo trionfo era stato così clamoroso e imprevisto che adesso i media e i liberal dovevano per forza giustificare in qualche modo il proprio fallimento.

Nelle ore che precedettero la cerimonia, tutta Washington sembrava tenere il fiato sospeso. La sera prima del giuramento, Bob Corker, senatore repubblicano del Tennessee e presidente del Comitato per le relazioni estere del Senato, aprì il suo intervento a un convegno al Jefferson Hotel con un quesito esistenziale: «Dove stiamo andando?». Fece una pausa, poi rispose, con aria profondamente sgomenta: «Non ne ho idea».

Più tardi, quella sera, vista la penuria di star al concerto organizzato al Lincoln Memorial, dovuta anche alla ben nota difficoltà nel far entrare a Washington la cultura pop, fu Trump stesso a salire sul palco, dopo aver detto con rabbia ai suoi collaboratori che sarebbe stato in grado di richiamare più pubblico di qualsiasi star.

Dissuaso dal suo staff dal soggiornare al Trump International Hotel di Washington, e già pentito della decisione, il giorno della cerimonia iniziò con le sue rimostranze sulla sistemazione. La suite della Blair House, l’albergo ufficiale, proprio di fronte alla Casa Bianca, era troppo calda, la pressione dell’acqua in bagno era pessima, il letto scomodo.

Il suo umore non migliorò. Per l’intera mattinata litigò davanti a chiunque con la moglie, che sembrava a un passo dallo scoppiare a piangere e che il giorno dopo se ne sarebbe tornata a New York: ogni volta che le rivolgeva la parola, era per criticarla o impartirle un ordine. Kellyanne Conway aveva fatto delle pubbliche relazioni di Melania Trump una missione personale, promuovendo la nuova First Lady come un pilastro di sostegno per il presidente e a sua volta una voce meritevole di essere ascoltata, e stava cercando di convincere Trump che la moglie potesse svolgere un ruolo importante alla Casa Bianca. Ma, in generale, il rapporto dei Trump rientrava nel novero degli argomenti in cui era meglio non addentrarsi: un’altra misteriosa variabile negli umori del presidente.

All’incontro cerimoniale tra il presidente uscente e quello entrante, che avvenne alla Casa Bianca poco prima che entrambi raggiungessero il luogo del giuramento, Trump ebbe l’impressione che gli Obama avessero trattato con sufficienza – «Molto arroganti» fu il suo commento – sia lui sia Melania. Invece di fare buon viso a cattivo gioco, ostentò quella che alcuni nel suo entourage avevano cominciato a chiamare la sua «faccia da golf»: espressione bieca e bellicosa, andatura a passo di marcia, con spalle ingobbite e braccia ciondolanti, fronte corrugata, labbra strette in un broncio. Era diventato quello il suo personaggio pubblico: Trump il truculento.

Le cerimonie di insediamento dovrebbero essere un’occasione pacifica e distesa. I media ne parlano sempre in toni lusinghieri e ottimistici. Per i fedeli del partito sono il segno che sono tornati i bei tempi. Per la «palude» – la burocrazia federale e l’establishment di Washington – è l’occasione di ingraziarsi i nuovi arrivati e cercare di trarne vantaggio. Per il Paese sono un’incoronazione. Ma Bannon aveva tre messaggi o temi che voleva ficcare in testa al suo capo: che la presidenza Trump doveva essere diversa, più di qualsiasi altra dai tempi di Andrew Jackson (personaggio sul conto del quale stava cercando di erudire il non proprio colto neopresidente a furia di libri e citazioni); che loro sapevano bene chi fosse il nemico e non avrebbero commesso l’errore di cercare di accattivarselo, perché sarebbe comunque stata un’impresa impossibile; e infine che, proprio per questo, fin dal primo giorno si sarebbero considerati sul piede di guerra. Se da una parte quel tipo di discorso compiaceva il lato combattivo di Trump, dall’altra lo feriva nel suo bisogno di sentirsi apprezzato. Bannon riteneva di poter gestire i due impulsi pungolando il primo e spiegando al suo capo che il fatto di avere nemici a Washington gli avrebbe guadagnato molti più amici altrove.

Per come andarono le cose, il pessimo umore di Trump si rivelò perfetto per l’acrimonioso discorso inaugurale scritto da Bannon. Buona parte dei sedici minuti di arringa consisteva negli ormai quotidiani tic verbali da joie de guerre del suo capo stratega: Riprendiamoci il Paese, America First – l’America prima di tutto –, e guerra senza quartiere. Ma il discorso diventò persino più cupo e aggressivo quando, in tono con il livore provato da Trump, venne pronunciato con la sua faccia da golf. L’amministrazione debuttò intenzionalmente con toni minacciosi, un monito lanciato da Bannon alla fazione opposta: Preparatevi, perché da oggi cambia tutto. L’orgoglio ferito di Trump, il fatto che si fosse sentito disprezzato e respinto proprio nel giorno in cui diventava presidente, contribuì a veicolare il messaggio. Quando, finito di parlare, il presidente scese dal podio, continuava a ripetere: «Questo discorso di certo non se lo scordano».

Più probabile che il suo discorso inaugurale passi alla storia con la nota a piè di pagina fornita da George W. Bush, presente sul palco: «Proprio assurdo, questo discorso».

Per quanto deluso dall’incapacità di Washington di accoglierlo e celebrarlo a dovere, Trump era un venditore, e perciò un inguaribile ottimista. I venditori, la cui caratteristica dominante e risorsa principale è la capacità di continuare a vendere, non smettono mai di ridipingere il mondo di rosa. Ciò che gli altri trovano scoraggiante per loro è un motivo in più per ritoccare la realtà.

Già l’indomani mattina Trump cominciò a chiedere conferma della sua convinzione che la cerimonia di insediamento fosse stata un grande successo. «C’era un sacco di gente. Sarà stato più di un milione di persone, vero?» Telefonò a una sfilza di amici che in gran parte decisero di assecondarlo. Kushner confermò che l’affluenza era stata notevole. La Conway non fece alcun tentativo di dissuaderlo. Priebus concordò con lui. Bannon si limitò a una battuta.

Uno dei primi atti di Trump da presidente fu di rimpiazzare una serie di foto motivazionali appese nella West Wing con scatti del pubblico alla sua cerimonia inaugurale.

Bannon aveva escogitato un modo per razionalizzare l’inclinazione di Trump a distorcere la realtà. Le sue iperboli, i voli pindarici, le improvvisazioni e la sua pressoché totale indifferenza ai fatti erano il risultato della sua indole naïve e di quella propensione alla teatralità che contribuiva a creare l’immediatezza e la spontaneità che avevano fatto presa su molti dei suoi spettatori ai comizi. E che in pari misura avevano inorridito tanti altri.

Per Bannon, Obama era la stella polare del distacco. «La politica» diceva, in un tono sorprendentemente autorevole per un uomo che fino a quell’agosto in politica non aveva mai lavorato, «richiede un’immediatezza che a lui manca del tutto.» Trump, al contrario, era un William Jennings Bryan redivivo. (Bannon sosteneva da tempo che alla destra servisse un nuovo William Jennings Bryan, e gli amici davano per scontato che si riferisse a se stesso.) Alla fine dell’Ottocento, Bryan – tre volte candidato alla presidenza per i democratici e in seguito segretario di Stato di Woodrow Wilson – aveva incantato le rozze platee di campagnoli con il suo eloquio appassionato ed estemporaneo. Secondo la teoria di alcuni intimi, Bannon compreso, Trump compensava le proprie difficoltà di lettura, scrittura e concentrazione con uno stile improvvisato che, se pure non eguagliava i discorsi di Bryan, di certo produceva un effetto esattamente opposto rispetto a Obama.

In parte esortativo, in parte testimonianza personale, in parte spacconate da bar, il suo approccio alla chissenefrega, farneticante, disarticolato e divagante combinava aspetti delle piazzate sulla televisione via cavo, del revivalismo religioso da tendone, dei discorsi motivazionali e dei videoblog su YouTube. Nella politica americana di oggi il carisma è inteso come una combinazione di fascino, arguzia e stile. Ma esiste anche un altro tipo di carisma, che ricorda più il cristianesimo evangelico, uno spettacolo emotivo ed esperienziale.

Il fulcro della campagna elettorale di Trump erano stati i grandi comizi che attiravano decine di migliaia di persone, un fenomeno politico che i democratici avevano sottovalutato e considerato la prova dei limiti dell’appeal di Trump. Per la sua squadra, quello stile, quell’intesa non mediata – i suoi discorsi, i tweet, le telefonate estemporanee ai programmi radiofonici e televisivi e, spesso, a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo – era una rivelazione, una forma di politica nuova, personale e trascinante. Per la fazione opposta, era una rozza pagliacciata che, nella migliore delle ipotesi, aspirava al tipo di demagogia cruda e autoritaria già da un pezzo screditata e consegnata al dimenticatoio della storia, e che comunque nella politica americana non aveva mai funzionato.

Ma, per quanto giudicato vantaggioso dal suo entourage, lo stile oratorio di Trump presentava anche un deterrente notevole, perché spesso – anzi, sempre – si abbandonava a dichiarazioni del tutto false.

Questo aveva portato alla teoria della duplice realtà nella politica di Trump. In una delle due realtà, che comprendeva gran parte dei suoi sostenitori, la natura del neopresidente era compresa e apprezzata. Trump era l’anti-tecnico, il contro-esperto. Era l’uomo delle decisioni di pancia, l’uomo qualunque. Era il jazz (anche se alcuni, parlandone, dicevano «il rap»), mentre tutti gli altri erano una noiosa ballata folk. Nell’altra realtà, in cui viveva larga parte dei suoi avversari, tutte queste virtù non erano che difetti criminosi se non addirittura deficit patologici. E lo stesso valeva per i media che, avendo bollato la sua presidenza come illegittima e bastarda, credevano di poterlo sminuire, ferire (e aizzare) e infine privare di ogni credibilità, sottolineando in modo implacabile ogni suo passo falso.

Nel loro eccesso moralistico, i media non riuscivano a capacitarsi che la falsità fattuale delle sue affermazioni non bastasse a chiudere le discussioni. Com’era possibile che non se ne vergognasse? Come poteva il suo staff continuare a difenderlo? I fatti sono fatti! Chi li nega, li ignora o li travisa è un bugiardo, un truffatore e uno spergiuro. (Scoppiò una piccola controversia giornalistica: le sue sparate erano da definirsi errori o menzogne?)

Secondo Bannon: (1) Trump non sarebbe mai cambiato; (2) cercando di cambiarlo si sarebbe ottenuto solo di rovinare il suo stile; (3) i suoi sostenitori non lo consideravano un problema; (4) i media lo avrebbero odiato comunque; (5) meglio giocare contro i media che con loro; (6) la pretesa dei media di ergersi a garanti dell’onestà e della verità era essa stessa una truffa; (7) la rivoluzione di Trump era un attacco ai preconcetti e alle competenze convenzionali. In definitiva era meglio avallare il suo modo di fare che cercare di arginarlo o correggerlo.

Il guaio era che, a dispetto dell’incapacità di attenersi al copione («Il suo cervello non funziona in quel modo» era una delle giustificazioni che si erano dati nella sua cerchia interna), Trump desiderava disperatamente l’approvazione dei media. Ma, come sottolineato da Bannon, non sarebbe mai riuscito a non sbagliare i fatti, e tantomeno ad ammettere di essersi sbagliato, quindi quell’approvazione poteva sognarsela. Il che, e questo era il vantaggio, significava che lo si sarebbe dovuto difendere a spada tratta dalla disapprovazione dei media.

Peccato che più quella difesa era stentorea – e per giunta in merito a dichiarazioni facilissime da smentire –, più i media moltiplicavano i loro attacchi e le loro censure. Senza contare che Trump cominciava a incassare critiche anche dalla sua cerchia. E non si trattava soltanto delle telefonate degli amici preoccupati per lui; adesso erano addirittura i membri del suo staff a dirgli di «darsi una calmata». «A chi puoi rivolgerti nel tuo entourage?» lo incalzò Joe Scarborough, durante una telefonata. «Chi è la persona di cui ti fidi di più? Jared, magari? C’è qualcuno lì con cui puoi parlare a fondo prima di agire?»

«Be’, la risposta non ti piacerà» disse il presidente. «Quella persona sono io. Io stesso. Mi consulto tra me e me.»

E da quelle consultazioni, ventiquattro ore dopo la cerimonia inaugurale, era scaturito un milione di persone immaginarie. Trump incaricò il nuovo addetto stampa, Sean Spicer – il cui mantra personale sarebbe presto diventato: «Cose del genere uno non potrebbe inventarsele» –, di sostenere la sua tesi, e quel momento mediatico tramutò Spicer, di suo un dignitoso professionista della politica, in una barzelletta nazionale, un colpo da cui sembrava destinato a non riprendersi mai più. Dopodiché, aggiungendo il danno alla beffa, Trump se la prese con lui perché non era riuscito a far apparire reale quel milione di spettatori inesistenti.

Fu la prima dimostrazione in veste presidenziale di un fenomeno che gli addetti alla campagna elettorale avevano già osservato mesi prima: detto fuori dai denti, Trump se ne fotteva proprio. Come in seguito avrebbe riassunto Spicer: Potevi anche cercare di convincerlo, ma lui restava della sua idea, e se le tue parole la contraddicevano lui non ti credeva, punto.

L’indomani Kellyanne Conway, che dopo l’aggressività esibita durante la campagna cominciava a indossare una maschera di petulanza e autocommiserazione, dichiarò il diritto del nuovo presidente ai «fatti alternativi». Per coincidenza, lei stessa si era sbagliata: voleva dire «informazioni alternative», il che avrebbe almeno lasciato intendere che il presidente avesse accesso a fonti diverse da tutti gli altri. Ma, per come pronunciò la frase, sembrava che la nuova amministrazione si arrogasse il diritto di ritoccare la realtà. E in un certo senso era proprio così. Anche se, dal punto di vista della Conway, erano i media a travisare la realtà, facendo una montagna (le fake news) di un sassolino (un’esagerazione involontaria e irrilevante, per quanto vasta nelle sue proporzioni).

Al contempo arrivò la risposta a una domanda frequente e posta con urgenza sia fuori sia dentro la Casa Bianca: adesso che era presidente e ufficialmente insediato, Trump avrebbe continuato con i suoi tweet autarchici e spesso incomprensibili? La risposta? Certo che sì.

Era la sua fondamentale innovazione all’arte del governo: le esplosioni regolari e incontinenti di rabbia e malumore.

Ma, subito dopo l’insediamento, il primo punto all’ordine del giorno era riconciliarsi con la CIA.

Sabato 21 gennaio il primo atto presidenziale di Trump fu una visita ufficiale a Langley, evento organizzato da Kushner allo scopo di «fare un po’ di politica», secondo la descrizione ottimistica di Bannon. Con un discorso meticolosamente preparato, Trump avrebbe profuso la sua caratteristica adulazione sulla CIA e sul resto dell’immenso colabrodo dell’intelligence americana.

Imbacuccato nel cappotto scuro che gli dava un’aria da gangster, davanti al muro di stelle costruito dalla CIA in memoria degli agenti caduti in servizio e di fronte a una platea di circa trecento dipendenti dell’Agenzia e a un gruppo di funzionari della Casa Bianca, Trump cambiò improvvisamente rotta. Un po’ per la sua arroganza, un po’ per il piacere puro e semplice di avere un pubblico, decise di ignorare il testo preparato e di lanciarsi in quello che si potrebbe definire senza tema di smentita uno degli interventi più curiosi mai pronunciati da un presidente americano.

«Io so molte cose di West Point. Sono il tipo di persona che crede fermamente nelle accademie. Ogni volta che parlo di mio zio, che per trentacinque anni è stato un grande professore del MIT e ha fatto un lavoro magnifico da tantissimi punti di vista in ambito accademico – era proprio un genio –, e poi sento chiedere: “Ma Donald Trump è un intellettuale?”… Be’, fidatevi: io sono, cioè, sono una persona intelligente.»

Nelle sue intenzioni, lo strano giro di parole doveva essere un complimento rivolto a Mike Pompeo, il neodirettore della CIA che si era diplomato a West Point e che Trump aveva portato con sé facendolo sedere tra il pubblico, e che ora, come tutti gli altri, era rimasto interdetto.

«Insomma, sapete, quando ero giovane… Sia chiaro, io mi sento giovane. Mi sento come quando avevo trenta… trentacinque… trentanove anni. Qualcuno mi ha chiesto: “Sei giovane?” e io ho risposto: “Sì, secondo me sì”. Negli ultimi mesi della campagna facevo quattro, cinque, sette tappe… discorsi, comizi davanti a venticinque, trentamila persone… quindicimila, diciannovemila. Mi sento giovane. Sono convinto che tutti noi siamo giovanissimi. Be’, quando ero giovane, questo Paese vinceva di tutto. Vincevamo nel commercio, vincevamo le guerre. A una certa età ricordo di aver sentito dire da uno dei miei insegnanti che gli Stati Uniti non avevano mai perso una guerra. Invece poi è come se non avessimo più vinto niente. Conoscete il vecchio proverbio: il bottino spetta ai vincitori? Ecco, ricordate che io l’ho sempre detto: tieniti il petrolio.»

«Chi dovrebbe tenerselo, il petrolio?» domandò, smarrito, un dipendente della CIA all’orecchio di un collega in fondo alla sala.

«Io non ero un fan dell’Iraq, non volevo andarci. Ma vi dirò che, una volta là, abbiamo sbagliato a ritirarci, e ho anche sempre detto di tenere il petrolio. Ora, io lo dicevo per motivi economici, ma se ci pensi bene, Mike» disse rivolgendosi direttamente al nuovo capo della CIA, «se ci fossimo tenuti il petrolio non avremmo l’ISIS, perché è così che hanno cominciato ad arricchirsi, ed ecco perché avremmo dovuto tenercelo. D’accordo, magari avrete un’altra occasione, ma resta il fatto che avremmo dovuto tenerci il petrolio.»

Fece una pausa e sorrise, chiaramente soddisfatto di sé.

«Il motivo per cui questa è la mia prima tappa è che, come sapete, ho in corso una guerra con i media, che sono le persone più disoneste sulla faccia della terra, e hanno fatto credere che avessi una faida con la comunità dell’intelligence, quindi io voglio solo farvi sapere che il motivo per cui sono qui è proprio perché è vero il contrario, e loro lo sanno. Ieri stavo spiegando i numeri. Abbiamo… cioè, ieri c’è stato il mio discorso, no? A proposito, è piaciuto a tutti il discorso? Certo, per forza. Comunque, avevamo davanti un campo intero stipato di persone. Le avete viste anche voi. Erano tantissime, proprio. Stamattina mi alzo, accendo la televisione, vedo un campo vuoto e mi dico: “Ehi, un momento. Io c’ero al discorso. E l’ho visto con i miei occhi: ci sarà stato almeno un milione, un milione e mezzo di persone”. E quelli invece vogliono dare a intendere che non c’era quasi nessuno. E dicono che Donald Trump non ha richiamato un grande pubblico, che io avevo detto che minacciava pioggia, e che forse era quello il motivo per cui la gente non era venuta. Ma Dio ha guardato giù e ha detto: “Non permetterò che piova sul tuo discorso”. Anzi, appena ho cominciato a parlare mi sono detto: “Oooh, no!”. Perché sulla prima pagina del discorso erano cadute un paio di gocce, ma ho pensato: “Oh, che peccato. Vabbè, ce la faremo comunque”. Però in realtà ha subito smesso di piovere…»

«No che non ha smesso» disse di riflesso un’addetta del suo staff, salvo poi mordersi la lingua e guardarsi intorno con aria preoccupata, per timore che qualcuno l’avesse sentita.

«… è spuntato un sole magnifico e dopo che sono sceso dal podio e me ne sono andato è venuto giù un diluvio. Pioveva a dirotto, ma noi dobbiamo davvero avere qualcosa di speciale, perché, sul serio, secondo me c’era un milione, un milione e mezzo di persone, non so la cifra esatta, ma la folla arrivava fino al monumento a Washington, invece quando per caso ho acceso la tv stavano mostrando un campo vuoto e dicevano che siamo riusciti a radunare duecentocinquantamila persone. Non che sia male, eh, però è una menzogna… E anche ieri ce n’è stata un’altra piuttosto interessante. Nello Studio Ovale c’è una bellissima statua di Martin Luther King, ma a me piace anche Churchill. Winston Churchill. Credo che piaccia quasi a tutti. Certo, non è di qui, ma ha avuto molto a che fare con noi, ci ha aiutati, è stato un vero alleato e, come sapete, la statua di Churchill era stata spostata… Così un reporter di “Time”… Tra l’altro, io sono apparso sulla loro copertina tipo quattordici o quindici volte. Credo di avere il record assoluto di servizi di copertina nella storia della rivista. Per dire, persino a uno come Tom Brady sarà capitato al massimo una volta, e solo perché aveva vinto il Super Bowl o roba del genere. Io invece ci sono stato quindici volte quest’anno. Non credo che qualcuno potrà mai superare quel record. Sei d’accordo, Mike? Che ne pensi?»

«No» disse Pompeo, con un filo di voce.

«Quello che volevo dire è che si sono lamentati che Donald Trump avesse fatto togliere il busto di Martin Luther King, invece era ancora là, solo che non si vedeva perché davanti c’era un cameraman. Invece Zeke… Zeke… di “Time” scrive che l’ho fatto togliere, quando in realtà io non farei mai una cosa del genere. Ho un grande rispetto per il dottor Martin Luther King. Questo per dirvi quanto sono disonesti i media. L’articolo è sempre lunghissimo, mentre la smentita è grande così.» Indicò uno spazietto tra pollice e indice. «Se scrivi solo due righe, tanto vale non pubblicarle neanche. Cioè, a me piace l’onestà, mi piace il giornalismo onesto. Vi dirò un’ultima volta, anche se lo ripeterò quando lascerete entrare le migliaia di vostri colleghi che sono rimaste fuori, perché io qui ci torno, magari la prossima volta potremmo scegliere una sala più grande, sì, potrebbe essere necessaria una sala più grande, e forse, dico forse, sarà stata costruita da qualcuno che conosce il mestiere e sa che i pilastri sono un intralcio. Lo capite questo? Perciò eliminiamo i pilastri, ma comunque sappiate che sono molto legato a voi, vi rispetto. Al mondo non esiste nessuno che io stimi più di voi. Fate un lavoro fantastico, noi ricominceremo a vincere e voi sarete alla testa del cambiamento, quindi grazie mille.»

E qui scatta l’effetto Rashomon così tipico di Trump. Le testimonianze sulla reazione dei presenti sono completamente opposte: c’è chi parla di un’esplosione di affetto pari a quella dei fan dei Beatles, e chi invece descrive uno sconcerto e uno sbigottimento tali che al discorso seguì un silenzio di tomba.