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Russia

Iniziarono a sospettare di Sally Yates ancora prima che ce ne fosse motivo. Secondo la relazione sulla transizione, Trump non avrebbe apprezzato la cinquantaseienne di Atlanta, laureata alla University of Georgia e con una carriera nel Dipartimento di Giustizia, proposta per fare le funzioni di attorney general. Era qualcosa che aveva a che fare con un certo tipo di gente legata a Obama. Il modo in cui camminavano e si comportavano. Un’aria di superiorità. Un atteggiamento tipico di donne che avrebbero immediatamente dato sui nervi a Trump: le donne intorno a Obama, per esempio, e anche quelle intorno a Hillary. E in seguito la cortesia sarebbe stata estesa anche alle «donne del Dipartimento di Giustizia».

Fra Trump e i funzionari governativi esisteva un divario incolmabile. Lui arrivava a comprendere i politici, ma faceva molta fatica a gestire questo tipo di burocrati, il loro temperamento e le loro motivazioni. Non riusciva a capire cosa volessero. Perché mai si dovrebbe desiderare un posto fisso nel governo? «Qual è il massimo a cui possono aspirare? Duecentomila dollari?» chiese stupito.

L’assegnazione del ruolo di «facente funzione» a Sally Yates, nell’attesa che il ministro della Giustizia designato, Jeff Sessions, ricevesse la conferma del Senato, si sarebbe potuta evitare. E Trump si sarebbe infuriato perché ciò non era accaduto. Ma la Yates era la vice in carica, e il ruolo di attorney general dev’essere ricoperto da qualcuno che abbia ricevuto l’approvazione del Senato. Così, malgrado si sentisse prigioniera in un territorio ostile, la Yates aveva accettato l’incarico.

Tenendo conto di questo contesto, le curiose informazioni da lei riferite al consigliere della Casa Bianca Don McGahn durante la prima settimana dell’amministrazione – questo prima che, nella seconda settimana, si rifiutasse di applicare l’ordine esecutivo sull’immigrazione e fosse prontamente rimossa – sembrarono non soltanto sgradite, ma persino sospette.

Il nuovo consigliere per la Sicurezza nazionale, Michael Flynn, aveva liquidato gli articoli del «Washington Post» su una sua conversazione privata con l’ambasciatore russo Sergej Kisljak affermando che si era trattato solo di una chiacchierata amichevole. Aveva assicurato alla squadra di transizione – di cui faceva parte il vicepresidente Pence – di non aver discusso con il diplomatico le sanzioni dell’amministrazione Obama contro la Russia, e Pence aveva ribadito pubblicamente quella smentita.

La Yates adesso stava dicendo alla Casa Bianca che la conversazione di Flynn con Kisljak era stata «raccolta casualmente» nell’ambito di un programma autorizzato. In pratica la Foreign Intelligence Surveillance Court – la corte che interviene sulla sorveglianza dei servizi di intelligence stranieri – aveva autorizzato un’intercettazione telefonica dell’ambasciatore russo e, per caso, aveva registrato il dialogo con Flynn.

La FISA Court aveva vissuto il suo momento di notorietà quando le rivelazioni di Edward Snowden l’avevano trasformata nella bestia nera dei liberal, furiosi per le intrusioni nella privacy dei cittadini, e adesso poteva godersi un altro momento di gloria, questa volta da amica dei liberal, che speravano di utilizzare quelle intercettazioni telefoniche «casuali» per provare il coinvolgimento della campagna di Trump in una cospirazione di vasta portata con la Russia.

Poco dopo McGahn, Priebus e Bannon, che già nutrivano dubbi sull’affidabilità e il buonsenso di Flynn – «un cazzone», per usare l’espressione di Bannon –, si consultarono sulla comunicazione della Yates. A Flynn fu chiesto di nuovo della sua telefonata con Kisljak e gli fu detto che probabilmente era stata registrata. Ma lui continuò a negare di aver affrontato temi rilevanti con l’ambasciatore russo.

Alcuni alla Casa Bianca definirono così la soffiata della Yates: «È come se avesse sorpreso il marito della sua migliore amica a flirtare con un’altra donna e avesse deciso di fare la spia per una questione di principio».

In realtà, ciò che più allarmava la Casa Bianca era come avesse fatto la Yates a procurarsi così facilmente il nome di Flynn, quando nelle intercettazioni raccolte in maniera casuale i nomi dei cittadini americani dovrebbero essere «camuffati» e dovrebbero essere necessarie complesse procedure per «smascherarli». La sua denuncia, inoltre, sembrava confermare che la soffiata al «Washington Post» su quelle registrazioni provenisse da fonti dell’FBI, del Dipartimento di Giustizia e dell’amministrazione Obama. E questa era soltanto parte di una fuga sempre più fuori controllo di notizie e informazioni riservate che finivano al «Post» e al «New York Times».

Nel valutare la situazione, la Casa Bianca finì per considerare Flynn – che diventava sempre più difficile da gestire – un problema minore e la Yates una vera e propria minaccia: il Dipartimento di Giustizia, con il suo esercito di funzionari e procuratori vicini a Obama, teneva nel mirino la squadra di Trump.

«È scorretto» disse Kellyanne Conway, seduta nel suo ufficio non ancora arredato al secondo piano, interpretando i sentimenti feriti del presidente. «È palesemente scorretto. Scorrettissimo. Hanno perso. Non hanno vinto. È così ingiusto. Il presidente non vuole parlarne.»

Nessuno voleva parlare della Russia, e nessuno era stato incaricato di farlo, sebbene quella storia, come tutti sapevano prima ancora di mettere piede alla Casa Bianca, avrebbe sicuramente segnato il primo anno dell’amministrazione Trump. Nessuno era preparato ad affrontarla.

«Non c’è motivo di parlarne» disse Sean Spicer, seduto sul divano nel suo ufficio, incrociando le braccia. «Non ce n’è motivo» ribadì.

Per parte sua, il presidente non usò il termine «kafkiano», anche se avrebbe potuto farlo. Riteneva la polemica sulla Russia insensata, inspiegabile e priva di qualsiasi fondamento. Se ne stavano solo lasciando irretire.

Durante la campagna elettorale erano sopravvissuti a uno scandalo – quello di Billy Bush – da cui nessuno della cerchia ristretta di Trump credeva di uscire vivo, solo per ritrovarsi travolti dall’affare russo. Paragonato al Pussygate, il Russiagate sembrava una specie di ultima spiaggia per i detrattori del presidente. Il fatto era che il problema non accennava a scomparire e, incomprensibilmente, la gente pareva prendere la faccenda sul serio, benché fosse a dir poco irrilevante.

Tutta colpa dei media.

La Casa Bianca si era abituata agli scandali denunciati dai media, ma anche a vederli dissolversi in fretta. Questo, però, non accennava a sgonfiarsi. Era una cosa frustrante.

Secondo la cerchia di Trump quello che il «Washington Post» definiva «l’attacco della Russia al nostro sistema politico» era la prova schiacciante non soltanto dei pregiudizi dei media nei confronti del presidente, ma anche della loro chiara intenzione di ricorrere a qualsiasi mezzo per indebolirlo. («È terribilmente ingiusto, soprattutto in assenza di prove che anche un solo voto sia stato modificato» dichiarò la Conway). La questione era insidiosa. Per la squadra di Trump, sebbene nessuno l’abbia messa in questi termini, era simile a quelle oscure cospirazioni contro i Clinton che i repubblicani avevano usato per accusare i democratici: gli scandali Whitewater, Bengasi, Emailgate. In altre parole, un interesse ossessivo che dà luogo a indagini, che a loro volta conducono ad altre indagini, e a una copertura mediatica sempre più stringente e senza scampo. Era la politica moderna: complotti senza esclusione di colpi per distruggere le persone e le loro carriere.

La reazione della Conway quando le venne suggerito il paragone con lo scandalo Whitewater confermò l’ipotesi dell’ossessione: iniziò subito a discutere i particolari del coinvolgimento di Webster Hubbell, una figura quasi dimenticata, e le colpe dello studio legale Rose in Arkansas, del quale Hillary Clinton era socia. Tutti credevano ai complotti denunciati dal proprio schieramento, respingendo con decisione quelli attribuiti a loro. Definire qualcosa un complotto equivaleva a rifiutarlo.

Dal canto suo, Steve Bannon, che aveva personalmente promosso molte cospirazioni, liquidò la storia della Russia con un intervento da manuale: «È puro complottismo». E, aggiunse, la squadra di Trump non era in grado di macchinare nulla di simile.

A due sole settimane dall’insediamento del nuovo presidente, lo scandalo russo aveva tracciato una linea di demarcazione, con le due parti che si accusavano a vicenda di diffondere notizie false.

La maggioranza della Casa Bianca credeva fermamente che la storia fosse inventata di sana pianta e basata su argomenti deboli se non completamente folli: cospirare con i russi per truccare le elezioni, che idiozia! Il mondo anti-Trump, invece, e in particolare i suoi media, ovvero i media in generale, ritenevano che ci fossero elevate probabilità di scovare qualcosa di molto interessante.

Se i media, con una certa supponenza, vedevano nello scandalo russo il proiettile d’argento per distruggere il presidente, e la Casa Bianca di Trump lo considerava, con una punta di autocommiserazione, un disperato tentativo di architettare uno scandalo, c’erano anche altre posizioni di cui tener conto.

I democratici del Congresso – come era successo a loro con lo scandalo Bengasi – avevano tutto da guadagnare nell’insistere che dove c’era fumo (benché si stessero dando da fare con i mantici) doveva esserci fuoco, e usarono le indagini per sostenere la loro opinione minoritaria (e i singoli membri del Congresso per promuovere se stessi).

Per i repubblicani, invece, le indagini erano una carta da giocare contro il carattere vendicativo e volubile di Trump. Difenderlo – o non difenderlo e, anzi, possibilmente perseguirlo – avrebbe garantito loro una nuova merce di scambio nei rapporti con il presidente.

L’intelligence, con la sua miriade di piccoli feudi sospettosi nei confronti di Trump come di qualsiasi altro presidente neoeletto, avrebbe potuto minacciare di lasciar trapelare informazioni per proteggere i propri interessi.

L’FBI e il Dipartimento di Giustizia avrebbero valutato le prove e le opportunità a loro disposizione attraverso le consuete lenti di rettitudine e carrierismo. («Il Dipartimento di Giustizia è pieno di procuratori donne, come la Yates, che lo odiano» dichiarò un assistente di Trump, in una singolare interpretazione di genere del problema.)

Se la politica consiste nel mettere alla prova la forza, l’intelligenza e la pazienza del proprio avversario, il caso russo, a prescindere dalle prove empiriche, è stato un test piuttosto ingegnoso, disseminato di trappole insidiose. In effetti, per molti versi la questione non era tanto la Russia quanto l’esercizio di forza, intelligenza e pazienza, qualità di cui Trump sembrava del tutto sprovvisto. La continua insistenza su un possibile reato – sebbene non ci fosse un vero reato e nessuno avesse ancora accennato a un atto esplicito di complicità o a qualsiasi altra chiara violazione della legge – rischiava di spingere a un tentativo di insabbiamento che si sarebbe davvero trasformato in un crimine. O di causare una tempesta perfetta di stupidità e cupidigia.

«Prendono tutto quello che dico e lo esagerano» si lamentò il presidente durante una telefonata a notte fonda nella sua prima settimana alla Casa Bianca. «Esagerano tutto. Persino le mie esagerazioni.»

Franklin Foer, ex direttore di «New Republic», con sede a Washington, aveva sostenuto la tesi di un complotto Trump-Putin mesi prima, in un articolo pubblicato il 4 luglio 2016 su «Slate». Il suo pezzo rifletteva il clima di incredulità che si era improvvisamente diffuso tra i media e l’intellighenzia politica: Trump, il candidato non serio, per motivi incomprensibili, stava diventando più o meno serio. E in qualche modo, a causa della sua precedente mancanza di serietà e della sua natura ispirata allo slogan «Ciò che vedi è ciò che avrai» – l’uomo d’affari spaccone, con i suoi fallimenti, i casinò e i concorsi di bellezza –, era riuscito a eludere i controlli. Per chi aveva studiato il caso Trump – e dopo trent’anni di attenzione morbosa che gli era stata dedicata ormai ce n’erano parecchi – gli affari immobiliari di New York erano sporchi, le speculazioni di Atlantic City erano sporche, la sua compagnia aerea era sporca, Mar-a-Lago, con i suoi campi da golf e gli alberghi, era sporca. Sarebbe bastata una sola di queste rivelazioni per distruggere un candidato ragionevole. Ma, per qualche strano motivo, nella candidatura di Trump era stato accettato un livello inaudito di corruzione. D’altra parte, era quello il piano su cui si muoveva: «Farò per tutti voi quello che un uomo d’affari di successo fa per se stesso».

Per vedere davvero la corruzione, bisognava spostarla su un palcoscenico più grande, e Foer ne stava suggerendo uno spettacolare.

Assemblando una dettagliata tabella di marcia per uno scandalo che non esisteva ancora e senza avere in mano alcuna prova concreta, Foer riuscì già a luglio a mettere insieme tutti gli argomenti fondamentali, compresi le circostanze e molti dei vari personaggi che avrebbero giocato un ruolo importante nei successivi diciotto mesi. (All’insaputa del pubblico e anche di molti addetti ai lavori della politica e dei media, a quel punto la Fusion GPS aveva assunto l’ex spia inglese Christopher Steele per indagare su un legame fra Trump e il Cremlino.)

Putin mirava alla rinascita del potere russo e, allo stesso tempo, a mettere fine alle intromissioni da parte dell’Unione Europea e della NATO. Il rifiuto di considerare il presidente russo come una specie di fuorilegge – per non parlare di quella che sembrava una vera e propria ammirazione per lui – significava che Trump vedeva di buon occhio le sue ambizioni e avrebbe potuto a tutti gli effetti promuoverle.

Perché? Perché un politico americano avrebbe dovuto abbracciare pubblicamente, e con un certo servilismo, Vladimir Putin e incoraggiare quello che l’Occidente considerava l’avventurismo russo?

Teoria 1: Trump è attratto dagli uomini forti e autoritari. Secondo Foer, il tycoon era da tempo affascinato dalla Russia, tanto da essersi fatto abbindolare da un sosia di Gorbačëv che era stato in visita alla Trump Tower negli anni Ottanta. Per non parlare delle sue esagerate e inutili «odi a Putin». Questo suggerirebbe una vulnerabilità del tipo «chi va con lo zoppo impara a zoppicare»: frequentare o guardare con favore i politici il cui potere risiede in parte nella loro tolleranza della corruzione ti avvicina alla corruzione. Allo stesso modo, Putin è sempre stato attratto da uomini forti con tendenze populistiche come lui. Di conseguenza, si chiedeva Foer: «Perché i russi non dovrebbero garantirgli gli stessi aiuti sottobanco offerti alla Le Pen, a Berlusconi e altri?».

Teoria 2: Donald Trump era inserito in un contesto internazionale di imprese non considerate al top dell’affidabilità (anzi molto lontane dall’esserlo), che si alimentavano grazie a fiumi di ricchezze dubbie generate dai tentativi di spostare denaro, soprattutto dalla Russia e dalla Cina, per metterlo fuori dalla portata della politica. Questo denaro o almeno le voci su di esso potevano rappresentare una possibile spiegazione, per quanto circostanziale, riguardo gli affari di Trump che in gran parte rimanevano segreti. (A questo proposito c’erano due teorie contraddittorie: Trump aveva nascosto questi affari o perché non voleva ammettere la loro portata irrisoria, o per celarne la natura illecita.) Vista la sua scarsa affidabilità creditizia, Foer è stato tra i molti ad aver ipotizzato che il tycoon sia stato costretto a cercare altre fonti: denaro più o meno sporco o denaro con altri tipi di vincoli. (Uno dei modi in cui questo procedimento può funzionare, in parole povere, è il seguente: un oligarca investe in un fondo di investimento di terze parti più o meno legittimo, che, in cambio, investe su Trump.) Lui ha negato categoricamente di aver accettato prestiti o investimenti dalla Russia, ma, d’altra parte, nessuno dichiarerebbe ufficialmente il denaro sporco tra i propri redditi.

Inoltre Trump, da sempre poco scrupoloso nel valutare i suoi collaboratori, si circondò di imbroglioni che agivano per il proprio tornaconto, aiutando di tanto in tanto anche i suoi affari. Foer ha identificato i seguenti personaggi come protagonisti di un possibile complotto russo:

  • Tevfik Arif, ex ufficiale russo che gestiva il Bayrock Group, un intermediario finanziario di Trump con un ufficio nella Trump Tower.
  • Felix Sater (a volte scritto Satter), di origini russe, immigrato a Brighton Beach, Brooklyn. Prima di iniziare a lavorare per il Bayrock Group era stato in carcere per frode in relazione a una società di brokeraggio gestita dalla mafia. Il suo biglietto da visita lo identificava come consigliere senior di Donald Trump. (Nel prosieguo della vicenda, il nome di Sater sarebbe emerso diverse volte, ma a Bannon Trump disse di non conoscerlo.)
  • Carter Page, un banchiere con dei trascorsi in Russia che si vantava di aver lavorato come consulente per la società petrolifera statale Gazprom. Il suo nome compariva su un elenco abbozzato di consiglieri per la politica estera di Trump e, a quanto sarebbe poi emerso, l’FBI lo stava tenendo d’occhio perché sospettava che fosse stato ingaggiato dall’intelligence russa. (Trump avrebbe in seguito negato ogni incontro con Page, e l’FBI avrebbe confermato che i servizi russi avevano messo gli occhi sul banchiere.)
  • Michael Flynn, ex capo della Defense Intelligence Agency, allontanato da Obama per ragioni non chiare, non era ancora ufficialmente consigliere di Trump per la politica estera e consigliere per la Sicurezza nazionale, ma aveva accompagnato il tycoon in diverse tappe della campagna elettorale. Nel 2016 aveva ricevuto un onorario di 45.000 dollari per un discorso tenuto a Mosca ed era stato fotografato a cena in compagnia di Putin.
  • Paul Manafort, che, oltre a ricoprire il ruolo di direttore della campagna elettorale di Trump, era stato, come ricorda Foer, consulente di Viktor Janukovyč, il candidato sostenuto dal Cremlino nella sua corsa vittoriosa alla presidenza dell’Ucraina nel 2010 (era stato destituito nel 2014). Manafort aveva inoltre lavorato per l’oligarca russo Oleg Deripaska, considerato molto vicino a Putin.

A distanza di un anno, ciascuno di questi uomini sarebbe stato protagonista dell’incessante ciclo di notizie dedicato quasi ogni giorno al caso Russia-Trump.

Teoria 3: Il nocciolo dell’articolo era la supposizione che Trump e i russi, forse persino Putin in persona, si fossero alleati per colpire il Comitato nazionale democratico.

Teoria 4: Infine c’era la teoria di quelli che lo conoscono meglio e che gran parte dei sostenitori di Trump avrebbe in qualche modo finito per abbracciare. Era stata solo una mossa da ruffiano: Trump aveva portato il suo concorso di bellezza in Russia perché pensava che Putin sarebbe diventato suo amico. Ma a Putin non sarebbe potuto importare di meno, e alla fine Trump si era ritrovato alla cena di gala tra un tizio che sembrava non aver mai tenuto in mano una forchetta e una specie di Jabba the Hutt con la polo. In altre parole, Trump – per quanto sciocco potesse sembrare il suo essersi fatto abbindolare, e per quanto sospetto apparisse in retrospettiva – cercava solo un minimo di riconoscimento.

Teoria 5: I russi, in possesso di informazioni compromettenti su Trump, lo stavano ricattando.

Il 6 gennaio 2017, circa sei mesi dopo la pubblicazione dell’articolo di Foer, CIA, FBI e NSA annunciarono di essere giunti alla seguente conclusione: «Nel 2016 Vladimir Putin ha ordito una campagna per influenzare le elezioni presidenziali americane». La circostanza era confermata dal dossier Steele, dalle continue fughe di notizie dai servizi segreti statunitensi, oltre che da testimonianze e dichiarazioni dei vertici delle agenzie di intelligence americane. C’era stato, e forse c’era ancora, un patto scellerato tra la campagna elettorale di Trump e il governo russo.

Tutto questo, però, poteva ancora essere interpretato come una pia illusione dagli avversari di Trump. «Il presupposto fondamentale di questo caso è che le spie dicano la verità» dichiarò il giornalista investigativo Edward Jay Epstein. «Chi l’avrebbe mai detto?» E, in effetti, la maggiore preoccupazione della Casa Bianca non era l’accusa di collusione – che sembrava poco plausibile, se non farsesca –, ma la possibilità che, se le rivelazioni avessero avuto inizio, sarebbero emersi i loschi affari di Trump (e di Kushner). Su questo argomento i vertici dello staff presidenziale mantenevano il più assoluto riserbo, chiudendo occhi, orecchie e bocca.

L’opinione diffusa (e del tutto sui generis) non era che Trump fosse colpevole di ciò di cui era accusato, ma che lo fosse di molto altro. E il rischio era che il torbido venisse a galla.

Il 13 febbraio, dopo poco più di venti giorni di attività della nuova amministrazione, il consigliere per la Sicurezza nazionale Michael Flynn diventò il primo collegamento reale tra la Russia e la Casa Bianca.

A ben guardare, Flynn aveva un solo sostenitore nell’amministrazione Trump: il presidente. Durante la campagna elettorale avevano avuto una buona intesa e dopo l’insediamento il rapporto di amicizia si era trasformato in una relazione di completa fiducia. Vista dalla parte di Flynn, questa circostanza fu all’origine di una serie di malintesi comuni nella cerchia del presidente: il sostegno da parte di Trump era un indice del tuo status alla Casa Bianca e il suo livello di adulazione – la dimostrazione di un legame profondo – significava che per lui, quindi per la sua Casa Bianca, eri quasi onnipotente. Trump, sull’onda della propria predilezione per i generali, aveva persino preso in considerazione la possibilità di nominare Flynn suo vice.

Inebriato dalle lusinghe di Trump durante la campagna elettorale, Flynn – un generale di livello inferiore e anche piuttosto inaffidabile – si era trasformato in un burattino del presidente. Quando gli ex generali stringono alleanze con candidati politici, di solito si ritagliano un posto di dispensatori di esperienza caratterizzati da una speciale maturità. Flynn, invece, era diventato un sostenitore fanatico, parte essenziale dello show itinerante di Trump, uno degli urlatori che sproloquiavano in apertura di comizio. Il suo inesauribile entusiasmo e la sua cieca lealtà gli erano serviti per avvicinarsi all’orecchio di Trump, al quale adesso poteva sussurrare le sue teorie anti-intelligence.

Durante la prima fase della transizione, quando Bannon e Kushner sembravano gemelli siamesi, uno dei loro scopi era stato arginare Flynn e il suo messaggio spesso problematico. Come maliziosamente insinuato da Bannon, il sottotesto nella valutazione di Flynn da parte della Casa Bianca era che il ministro della Difesa Mattis fosse un generale a quattro stelle, mentre lui uno a tre.

«Mi piace Flynn, mi ricorda i miei zii» diceva Bannon. «Ma è proprio questo il problema: mi ricorda i miei zii.»

Bannon sfruttò con tutti, tranne che con il presidente, la nomea di cui godeva Flynn per assicurarsi un posto nel Consiglio per la Sicurezza nazionale. Per molti nell’ambiente, fu una delle tappe significative della scalata al potere della destra nazionalista. Ma la presenza di Bannon nel Consiglio era motivata anche dalla necessità di tenere sotto controllo l’impetuoso Flynn, incline a inimicarsi quasi tutti gli altri funzionari. (Flynn, secondo un veterano dell’intelligence, era «un colonnello con l’uniforme da generale».)

Dopo aver conquistato, contro ogni aspettativa, la Casa Bianca, Flynn, come tutti coloro che circondavano Trump, era rimasto ammaliato dalla sensazione quasi mistica del potere. E, inevitabilmente, le circostanze lo avevano reso ancora più arrogante.

Nel 2014 Flynn era stato bruscamente allontanato dal governo e ne attribuiva la colpa ai suoi numerosi nemici nella CIA. Ma non si era fatto abbattere e si era rimesso in piedi nel mondo degli affari, unendosi alle file di ex funzionari governativi che approfittavano delle reti politico-affaristiche in cui, su scala globale, si intrecciano gli interessi di finanza, imprese e governi. Poi, dopo aver flirtato con una serie di altri candidati repubblicani, si era legato a Trump. Sia lui sia il tycoon erano antiglobalisti, o quantomeno credevano che il mercato globale fosse una fregatura per gli Stati Uniti. Ma i soldi erano soldi, e Flynn – che con la sua pensione da generale incassava appena qualche centinaio di migliaia di dollari all’anno – non disdegnava alcuna fonte di guadagno. Vari amici e consulenti, tra cui Michael Ledeen – la cui figlia lavorava ora per lui –, conoscenza di vecchia data con posizioni anti-Iran e anti-CIA, coautore del suo libro, gli avevano suggerito di non accettare incarichi dalla Russia e di rifiutare anche le più importanti «consulenze» offerte dalla Turchia.

Era il genere di negligenza di cui si macchiavano quasi tutti nella cerchia di Trump, compresi il presidente stesso e la sua famiglia. Era come se si fossero sdoppiati in due dimensioni e, pur proseguendo nella campagna presidenziale, continuavano anche a comportarsi come se – cosa di cui erano quasi certi – Trump non sarebbe mai diventato presidente. Il che significava che dovevano mandare avanti anche gli affari di altra natura.

All’inizio di febbraio, un avvocato dell’amministrazione Obama, amico di Sally Yates, osservò con un certo piacere e notevole acume: «È strano vivere la propria vita senza prendere in seria considerazione l’eventualità di essere eletti e poi invece vincere le elezioni. Senza dubbio è una grande opportunità per gli avversari».

Da questo punto di vista, non era soltanto lo scandalo russo a incombere sull’amministrazione, ma anche la sensazione che l’intera comunità dei servizi segreti diffidasse di Flynn e, in un certo senso, lo ritenesse responsabile del fatto che tra il presidente e i servizi segreti non corresse buon sangue. Era Flynn il vero bersaglio. All’interno della Casa Bianca c’era anche il sospetto che qualcuno stesse offrendo un tacito accordo: Flynn in cambio della benevolenza dei servizi segreti.

Allo stesso tempo, in quella che alcuni consideravano una conseguenza diretta della rabbia del presidente a proposito delle insinuazioni sulla Russia – in particolare quelle sulle piogge dorate –, Trump sembrava essersi avvicinato ancora di più a Flynn, gli garantiva la sua protezione e sosteneva che le accuse del caso russo, sia quelle legate a Flynn sia quelle che lo riguardavano direttamente, fossero «spazzatura». Dopo l’allontanamento del generale, la spiegazione offerta alla stampa menzionava i crescenti dubbi di Trump sul suo consigliere, ma in realtà era vero il contrario: più i dubbi su Flynn si moltiplicavano, più il presidente era certo che fosse lui il suo alleato più importante.

La letale fuga di notizie che mise fine al breve mandato di Michael Flynn potrebbe essere partita tanto dai nemici del consigliere per la Sicurezza nazionale all’interno della Casa Bianca, quanto dal Dipartimento di Giustizia.

Mercoledì 8 febbraio Karen DeYoung del «Washington Post» fece visita a Flynn per quella che era stata annunciata come un’intervista «non ufficiale». L’incontro non avvenne nell’ufficio del consigliere, ma nella stanza più elegante dell’Eisenhower Executive Office Building: la stessa in cui i diplomatici giapponesi avevano aspettato di incontrare il segretario di Stato Cordell Hull quando fu informato dell’attacco a Pearl Harbor.

In apparenza si trattava di un’intervista di routine e la DeYoung, con un piglio da tenente Colombo, cercò di non destare sospetti quando affrontò la questione fondamentale: «I miei colleghi mi hanno chiesto di farle una domanda. Ha mai parlato con i russi delle sanzioni?».

Flynn confermò di non aver mai avuto conversazioni di quel tipo, e l’intervista, alla quale partecipò il portavoce e alto funzionario del Consiglio per la Sicurezza nazionale Michael Anton, si concluse poco dopo.

Più tardi, quello stesso giorno, la DeYoung telefonò ad Anton e gli chiese di poter divulgare la dichiarazione di Flynn. Anton disse che non ci sarebbe stato alcun problema – in fondo, la Casa Bianca voleva che la smentita fosse chiara – e informò Flynn della cosa.

Poche ore dopo il generale lo richiamò, preoccupato. L’altro gli pose una semplice domanda: «Se sapessi che potrebbe esistere una registrazione di quella conversazione, saresti comunque sicuro al cento per cento?».

Flynn rispose in modo ambiguo. Allarmato, Anton gli consigliò di «fare marcia indietro».

L’articolo del «Post», dal quale appariva evidente che l’intervista della DeYoung non aveva messo il punto finale alla vicenda, conteneva nuovi dettagli a proposito della telefonata con Kisljak, nella quale secondo il giornale era stata indubbiamente affrontata la questione delle sanzioni. L’articolo citava anche la smentita di Flynn – «Ha negato due volte» – e il suo tentativo di fare marcia indietro: «Giovedì Flynn ha ritrattato la sua versione tramite il suo portavoce. Quest’ultimo ha affermato che Flynn “non ricorda di aver parlato delle sanzioni, ma non è certo che l’argomento non sia mai stato affrontato”».

Dopo l’articolo del «Post», Priebus e Bannon interrogarono di nuovo Flynn, che dichiarò di non essere sicuro di cos’avesse detto. Se l’argomento delle sanzioni è venuto fuori, si giustificò, è stato al massimo di passaggio. Stranamente, nessuno sembrava aver ascoltato la conversazione con Kisljak o letto una trascrizione.

Nel frattempo, la squadra del vicepresidente, colta alla sprovvista da quell’improvvisa polemica, iniziava a risentirsi: non tanto per le possibili false dichiarazioni di Flynn, ma per il fatto di essere stata tenuta fuori. Il presidente, invece, era tranquillo – o, in un’altra versione dei fatti, «sulla difensiva» – e, sotto lo sguardo di disapprovazione della Casa Bianca, decise di portare Flynn con sé a Mar-a-Lago per il suo appuntamento del fine settimana con Shinzō Abe, il primo ministro giapponese.

Sabato sera, in uno spettacolo quantomeno bizzarro, la terrazza di Mar-a-Lago si trasformò in una Situation Room a cielo aperto, dove il presidente Trump e il primo ministro Abe discussero apertamente di come rispondere al lancio di un missile a trecento miglia dal Mar del Giappone da parte della Corea del Nord. In piedi alle spalle del presidente c’era Michael Flynn. Se Bannon, Priebus e Kushner erano convinti che il destino del generale fosse in bilico, Trump sembrava di tutt’altro parere.

Per lo stato maggiore della Casa Bianca, la preoccupazione di fondo non era tanto sbarazzarsi di Flynn, ma il rapporto di quest’ultimo con il presidente. In cosa Flynn – in pratica una spia vestita da soldato – poteva aver coinvolto Trump? Cosa potevano aver combinato insieme?

Il lunedì mattina, Kellyanne Conway apparve sulla MSNBC per pronunciare un convinto discorso in difesa del consigliere per la Sicurezza nazionale. «Sì» affermò, «il generale Flynn gode della piena fiducia del presidente.» Alcuni pensarono che quella dichiarazione fosse una prova che la Conway fosse fuori dai giochi, invece era molto più probabile che avesse parlato direttamente con Trump.

Quella mattina una riunione alla Casa Bianca aveva fallito nell’impresa di convincere Trump ad allontanare Flynn. Il presidente temeva di dare una cattiva impressione licenziando il suo consigliere per la Sicurezza nazionale dopo appena ventiquattro giorni. Ed era stato categorico nel non voler incolpare Flynn per aver parlato con i russi, nemmeno se si fosse scoperto che aveva davvero affrontato la questione delle sanzioni. Secondo Trump, stigmatizzare il suo consigliere avrebbe finito per coinvolgerlo in un complotto inesistente. La sua furia non era diretta contro Flynn, ma contro l’intercettazione «casuale» che aveva registrato la conversazione. Chiarendo la fiducia che nutriva per lui, Trump insistette affinché Flynn lo accompagnasse al pranzo con il primo ministro canadese, Justin Trudeau.

Il pranzo fu seguito da un altro incontro. Nel frattempo erano emersi ulteriori dettagli della telefonata e si iniziava a speculare sugli onorari pagati a Flynn da diversi enti russi. Si stava inoltre diffondendo la teoria che le fughe di notizie da parte della comunità dell’intelligence, ovvero l’intero scandalo russo, fossero state orchestrate ad arte per colpire il consigliere per la Sicurezza nazionale. Infine, qualcuno iniziava a insinuare che l’allontanamento di Flynn fosse necessario, non tanto per i suoi contatti con i russi, ma per aver mentito su di essi al vicepresidente. In realtà, tuttavia, quella gerarchia di comando sembrava inventata su due piedi, per convenienza: Flynn, infatti, non faceva rapporto al vicepresidente Pence e, con ogni probabilità, era molto più potente di lui.

Trump, in ogni caso, trovò di suo gradimento la nuova motivazione e alla fine si vide costretto ad avallare la sua rimozione dall’incarico.

Ciononostante, il presidente non smise di riporre la sua fiducia in Flynn: anzi, i nemici di Flynn erano i suoi nemici. E la Russia restava una pistola puntata contro la sua tempia. Per quanto controvoglia, era stato costretto ad allontanarlo, ma il generale rimaneva il suo uomo.

Flynn, espulso dalla Casa Bianca, era diventato il primo collegamento diretto fra Trump e la Russia. E, a seconda di cosa avesse scelto di dire e a chi, era potenzialmente la persona più potente di Washington.