Capitolo venti
Darren
Trascorsi ore intere a cercare di riprendermi dalla sbronza, ma continuava a farmi male la testa. Neanche la quantità esagerata di shot che avevo mandato giù durante tutta la serata mi convinse a passare la notte con un’altra donna. Vedere Vanessa in compagnia di quell’uomo fu una circostanza sfortunata che mi portò soltanto a bere di più e rimanere fuori più a lungo, fino a notte inoltrata. Continuavo a domandarmi chi fosse, e se fossero andati via insieme.
Non era possibile che mi avesse dimenticato tanto in fretta.
Io, di certo, non ci riuscivo.
Mi venne voglia di contattarla per l’ennesima volta, la curiosità mi stava uccidendo. Poi suonò la sirena. Gli altri ragazzi della scala 9 salirono sull’autopompa. Andai anch’io. Una routine che avevo seguito migliaia di volte, grazie a Dio, perché con la testa ero da tutt’altra parte. Non smettevo di pensare alla donna che avevo respinto come un idiota.
Dalla ricetrasmittente alla cintura risuonò il dispaccio. «Allarme incendio livello quattro all’incrocio tra la Novantaduesima Est e Clarkson. Avvistate fiamme dalle finestre di appartamenti occupati».
Presi la tuta ignifuga e la indossai in fretta, cercando di costringere il mio cervello dolorante a concentrarsi sull’emergenza in corso. Azionammo le sirene e ci apprestammo a raggiungere la destinazione. Ian si mise alla guida, imprecò per tutto il tempo mentre tentava di farsi strada nel traffico.
Centinaia di chiamate e decine di incendi mi avevano insegnato a mantenere la calma anche nelle situazioni peggiori, ma avvertivo ancora le scariche di adrenalina. Perfino a una persona con i nervi d’acciaio era impossibile restare calma mentre entrava in un edificio dal quale gli altri scappavano… Eppure io non avevo desiderato fare altro, in tutta la vita.
Da lontano intravidi una scia di fumo nero che saliva in cielo, rarefacendosi sempre di più.
La radio dava nuove informazioni. «I camion 2 e 7 sono quasi arrivati a destinazione. Le persone intrappolate nell’incendio sono al primo e terzo piano».
Ian aveva gli occhi fissi sulla strada. Sui sedili dietro notai che una delle reclute stava per vomitare appena arrivammo davanti all’edificio in fiamme alto tre piani. Le altre autopompe erano dietro di noi e si apprestavano a tirare fuori gli idranti.
«Bene, ragazzi, al lavoro», disse Ian.
Sul marciapiede vidi una donna in preda a una crisi isterica. Mi avvicinai. «Cosa succede? C’è qualcuno dei suoi familiari dentro?».
Quella donna iniziò a parlare spagnolo, troppo velocemente per la mia scarsa padronanza della lingua. Continuava a ripetere un nome: Leo.
Ian si accostò e rimase ad ascoltare per qualche secondo.
«Chi è Leo?», domandai.
«Suo figlio. Stava giocando a nascondino, non sono riusciti a trovarlo. È all’interno, al terzo piano. Andiamo».
«Muoviamoci!», urlai alla squadra, allontanandomi da quella signora che aveva ogni motivo per non mantenere la calma.
Arrivarono due volanti della polizia e un agente corse per portarla a una distanza di sicurezza.
Di solito io e Ian lavoravamo insieme, ma dato che stavamo cercando qualcuno decidemmo di dividerci e formare due gruppi. Con me portai Travis, la recluta, la cui espressione non sembrava essere migliorata. Ian andò con Ray, un veterano il quale riteneva che le maschere antigas non fossero poi tanto necessarie. La leggenda narrava che fumasse il sigaro in mezzo alle fiamme.
Faceva parte della vecchia scuola, un tipo divertente da morire ma che poteva rivelarsi un pericolo in situazioni come quella che stavamo per affrontare. Dovendo scegliere fra la recluta e lui, scelsi Travis. Quanto meno non avrebbe fatto scherzi, una volta entrati in azione.
Ci avvicinammo all’edificio e mi rivolsi al pivello. «Noi ci occuperemo del terzo piano. Segui la parete destra con la mano. Resta accanto a me. Quando dico di andare, usciamo, senza troppe storie. Capito?»
«Affermativo».
«Bene. Usa il cervello».
Probabilmente era già nel panico, ma non c’era tempo per i ripensamenti. Nuotare o annegare. Usare l’autocontrollo o mettere a repentaglio se stessi e gli altri.
Ci facemmo strada fra il fumo non troppo denso per raggiungere il terzo piano, prima che l’aria divenisse irrespirabile. Indossai la maschera e aprii l’ossigeno, quindi invitai Travis a fare lo stesso con un cenno della mano. Il sibilo del mio respiro costante, inspirare ed espirare, mi guidò a uno stato di calma. Aveva lo stesso effetto della meditazione. Se sentivo quel rumore significava che io e i miei compagni eravamo ancora vivi. Se i miei colleghi andavano nel panico, io li riportavo alla ragione. Bisognava mantenere la mente lucida, anche quando affrontavamo il fumo nero di un incendio.
Feci strada. Travis rimase a qualche passo di distanza. Proseguii tenendo la mano appoggiata al muro, che finiva diverse volte ad angolo. Ispezionammo meticolosamente ogni stanza, ma non c’erano tracce del bambino. Poi sbucò fuori un armadio. Sul fondo giaceva un corpicino. Non poteva avere più di due o tre anni. Mi voltai e chiamai Travis a gran voce.
«L’ho trovato!».
A quel punto dovevamo muoverci in fretta e percorrere lo stesso tragitto dell’andata. Con il piccolo in braccio mi avvicinai a Travis. Il bimbo tossì e si agitò. Mi sentii sollevato. Presto sarebbe passato tutto. Bisognava soltanto portarlo fuori, al più presto.
Travis riuscì a farsi strada in fretta.
Appena fummo nei pressi dell’ingresso dell’edificio urlai: «Vado a cercare Ian e Ray. Tu porta fuori il bambino! Vai!». Glielo passai.
Esitò un istante, poi si allontanò proteggendolo con la tuta ignifuga.
Poteva esserci ancora qualcuno intrappolato al primo piano, ma non avevo informazioni utili. Le fiamme, che si erano sviluppate dalla parte posteriore del palazzo, si erano propagate in men che non si dica. Il fumo stava diventando sempre più denso.
Mi incamminai lungo il corridoio deserto. L’allarme che segnalava l’entrata in riserva di ossigeno iniziò a suonare. Avevo ancora tempo. Avrei trovato Ian e Ray, e saremmo usciti. Tastai la parete e trovai una porta. Tentai di aprirla, ma pareva bloccata. Appena la sfondai caddi nel vuoto. Impattai su qualcosa di duro e dalla forma irregolare.
Poi il buio.
Imprecai e iniziai a dimenarmi. Cercai di rimettermi in piedi, ma ero incastrato. Sentivo scatoloni e altri oggetti che non potevo vedere.
Il cuore mi rimbombava forte nelle orecchie. Il suono rilassante del mio respiro nella maschera era stato rimpiazzato dal segnale d’allarme. Mi sforzai di ritrovare la calma, ma stava vincendo il panico. Inoltre consumavo troppo ossigeno.
Deglutii, nel tentativo di non far troppo caso al dolore che sentivo a un fianco. Un istante dopo mi resi conto di trovarmi in un seminterrato. Non c’erano le scale per tornare su. Notai dell’acqua nera che filtrava attraverso le pareti di pietra per poi stagnare sulle assi di legno bollente del pavimento.
Riprovai ad alzarmi, continuando ad accusare il dolore al fianco. Era come se le costole mi punzecchiassero i polmoni, respirare diventò sempre più difficile. Nel frattempo l’allarme continuava a suonare, ricordandomi che la scorta di ossigeno stava per finire.
Il respiro si fece corto e veloce. Il dolore era lancinante.
Cercai di tirarmi su. Avvertii un diverso tipo di dolore pulsante lungo il braccio destro, di sicuro era rotto. Mi ero ufficialmente messo nei casini. Dovevo uscire di lì. Peccato che non ci fosse modo di venire fuori da quel maledetto buco scavato nella terra. Non c’era da sorprendersi se quella porta era stata chiusa per bene. Quel posto era una trappola mortale.
«Mayday. Mayday. Mayday. Qui è Bridge», dissi in tono roco contro la maschera. «Sono nel seminterrato. Non c’è una scala per salire, cazzo».
Nessuna risposta.
L’allarme iniziò a suonare a volume più alto e con frequenza elevata, il tempo stava per scadere.
Un bagliore arancione, dall’altra parte della stanza, segnalava l’unica uscita. Un muro di fuoco.
Mi avvicinai nella speranza di trovare una rampa di scale che mi riportasse al piano terra, ma non vedevo nulla. Il fumo nero si era propagato ovunque. Il pavimento irradiava un calore infernale. Riuscivo a sentirlo anche attraverso la tuta.
Sentii una voce, sembrava quella di Ian. Urlava: «Bridge! C’è una scala a pioli appoggiata alla parete. Riesci a raggiungerla?».
Tastai il muro, tentai di mettermi in piedi mentre mi allontanavo dal fuoco. Inciampai su qualcosa che mi fece cadere di nuovo sul fianco. Gemetti dal dolore. Non riuscivo più a muovere la parte destra.
Cercai di farmi strada a carponi su quel pavimento tappezzato di robaccia. Dovevo tornare al punto in cui ero caduto quando avevo sfondato la porta, alla svelta. Se non fossero riusciti a domare le fiamme l’edificio sarebbe potuto crollare.
E io ero intrappolato lì sotto.
Poi, all’improvviso, mi ritrovai senza ossigeno.
La maschera mi si incollò sul viso.
Maledizione.
La sfilai. Inalai il primo respiro di fumo denso e mi distesi al suolo, dove l’aria era meno carica di monossido di carbonio.
Dovevo uscire di lì.
Pensai a Vanessa, alla mia famiglia. A tutti coloro che avevano bisogno di me… alle persone senza le quali non avrei potuto vivere.
«Dobbiamo recuperarlo. Subito!». Dalla voce di Ian trapelava panico.
Provai a spostarmi in direzione di quella voce, ma anche con l’adrenalina in circolo non riuscii a muovermi abbastanza velocemente.
Tossii, il fumo mi saturò i polmoni. Ormai ero spacciato. Mi aprii un varco fra gli oggetti a terra il più in fretta possibile.
Non potevo morire lì.
Non così.
Vanessa
Riuscii a rintracciare con facilità il conto che mi aveva indicato Jia. Dato che rimanevo sempre in ufficio fino a tardi e conoscevo nei minimi dettagli gli affari di Reilly, avevo accesso alle informazioni di quasi tutte le imprese nelle quali investiva. Si fidava di me, ed ero a un passo dall’infrangere quel rapporto di fiducia, dal violare le clausole di segretezza che avevo sottoscritto negli ultimi due anni.
Il conto era stato aperto a Grand Cayman. Per ironia della sorte, il posto in cui aveva nascosto il denaro da sua moglie era lo stesso nel quale mi ero innamorata alla follia di un altro uomo.
Feci una copia digitale di tutti i file potenzialmente utili a dimostrare che Reilly e i suoi soci stessero compiendo azioni illecite. Dichiarazioni, trasferimenti, documenti di fusione con altre imprese e alcune e-mail fumose tra lui e Dermott che mi aiutarono a trovare il numero di conto.
Avevano fatto un buon lavoro, non potevo negarlo.
Il mio dito era appoggiato sul grilletto. Mi sarebbe bastato premere.
Ma in fondo, chi ero io? Nient’altro che un inutile ingranaggio incastrato in un’operazione che Reilly stava portando avanti senza problemi, da anni. Nonostante tutto quello che Jia mi aveva rivelato, dubitavo fortemente che sarei riuscita a ottenere qualche risultato. I possibili risvolti mi spaventavano a morte. E se, alla fine, mi si fosse ritorto tutto contro?
Anche se non fosse andata nel peggiore dei modi, avrei comunque perso il posto. La pressione provocata da un lavoro alle dipendenze di Reilly, giorno dopo giorno, sarebbe stata soppiantata dall’ansia altrettanto soffocante di dover trovare una nuova occupazione da qualche altra parte. Non potevo contare su Darren, e non avrei potuto sopravvivere in quella città da disoccupata.
Con un senso di agitazione e paura, guardai fuori dalla finestra della sala conferenze mentre Bill e Reilly lavoravano su alcuni prospetti. La città che avevo imparato ad amare si estendeva a perdita d’occhio. Edifici che si alternavano a costruzioni rivestite di vetri a specchio, un panorama fosco e grigio sotto un cielo nuvoloso. Stavo per perdere il lavoro, allo stesso tempo ero appena uscita dall’unica relazione che mi avesse fatta sentire viva. L’esistenza era solo un mondo grigio senza la speranza di illuminarlo con Darren, che mi aveva ferita più di quanto ritenessi possibile.
Non avrei mai potuto cambiare un uomo come lui… ma in fondo era proprio quello che speravo.
«Vanessa. Hai capito?».
All’improvviso venni risucchiata nel mondo reale, avevo dimenticato cosa volesse di tanto importante Reilly da me.
«Perdonami. Cosa hai detto?»
«Ci penso io, non preoccuparti». Adriana mi rivolse un sorriso tirato.
Il mio cellulare vibrò e mi fece distrarre per l’ennesima volta. Lo avevo impostato in modalità silenziosa. Era il numero di Maya, lasciai scattare la segreteria telefonica e cercai di concentrarmi sui punti in discussione nella riunione del consiglio. Squillò altre due volte, decisi di inviarle un messaggio.
“Sono in riunione”.
“Darren ha avuto un incidente sul lavoro. Stiamo andando in ospedale”.
Lessi due volte quel messaggio. Mi vennero in mente le ipotesi peggiori, il cuore iniziò a battere forte. Digitai una risposta, ormai in preda al panico.
“Sta bene?”.
“Non sappiamo molto, al momento. Chiamami appena puoi. New York Methodist. Stanza 204”.
Rimasi col telefono fra le mani tremanti. «Oh, mio Dio».
«Qualcosa non va?». Adriana mi rivolse uno sguardo carico di preoccupazione.
«Devo andare».
Reilly mi lanciò un’occhiata infastidita. «Stiamo discutendo di affari importanti».
«Mi dispiace. È un’emergenza. Devo andare. Tornerò appena possibile».
Presi tutte le mie cose e uscii dalla sala.
«Vanessa!». Reilly mi seguì.
Non mi importava. Dovevo vedere Darren.
Mi fermai un istante alla scrivania per prendere la borsa. «Darren ha avuto un incidente. Era andato a spegnere un incendio, ieri sera. È in ospedale. Devo andare da lui».
«Credevo fosse finita tra te e quel perdente…».
Gli rivolsi uno sguardo minaccioso, ero pronta a scagliarmi contro quel mostro di uomo. «Tu non hai alcun diritto di giudicarlo».
Se soltanto avesse saputo che presto sarebbe stato giudicato anche lui. Tutto il suo mondo sarebbe finito sotto la lente d’ingrandimento, la sua autostima, la ricchezza, la presunzione e la superiorità.
Appoggiai la tracolla sulla spalla e gli sfilai davanti. Mi afferrò per un braccio, stringendo forte. Ebbi un flashback di quando fece lo stesso gesto in aeroporto, davanti a Darren. Quella volta le conseguenze furono disastrose.
Lo guardai dritto nei grigi occhi glaciali. «Lasciami. Andare».
Serrò la mascella. «Se te ne vai questo lavoro te lo puoi scordare».
Dentro di me avevo chiuso già da tempo. Mi liberai dalla presa.
«Sei una persona cattiva, David. Ripugnante e fredda, disincantata. Odi tutto quello che non puoi avere. E non avrai mai me».
Mi fermai sulla soglia al suono della sua voce. «Stai commettendo un errore, Vanessa».
Mi voltai per l’ultima volta.
«L’errore sarebbe sprecare ancora un altro istante della mia vita con te. Addio, David».
Darren
Mi faceva male tutto, ma l’aria fredda che sentivo entrare nei polmoni mi fece capire che, per fortuna, ero vivo. Dolorante, ma vivo. Ogni tanto mi venivano in mente alcune immagini della notte appena trascorsa. Il fumo nero che dominava l’incendio. Il bianco accecante dell’ospedale. La paura di morire in quel buco di seminterrato e Ian che mi portava fuori caricandomi su una spalla. Ero stramazzato alla porta più vicino di quanto pensassi, abbastanza da farmi trovare e salvarmi prima che fosse troppo tardi. Mi aveva riempito di parolacce mentre mi soccorreva. Nel frattempo non feci altro che tossire per cercare di espellere il fumo.
Avevo messo in pericolo me e i miei commilitoni. Ian mi aveva salvato la vita.
Non avrei mai dovuto rientrare da solo. Tutta la sofferenza che provavo non era niente rispetto al pensiero di aver fatto correre seri rischi ai miei colleghi.
Mi svegliai lentamente, affiorando dagli incubi che si proiettavano dietro le palpebre stanche.
«Sei sveglio». Olivia era accanto a me. Mi prese per mano.
«Liv». Sentii la mia voce rauca, ogni suono pronunciato graffiò la gola.
Mia sorella mi zittì e mi avvicinò un bicchiere alla bocca. Chiusi le labbra intorno alla cannuccia rosa pieghevole e succhiai l’acqua tiepida.
Provai sollievo e appoggiai la testa sul cuscino con un sospiro.
«Come ti senti? Vuoi che chiami l’infermiera?».
Scossi il capo. «No».
«Anche Cam e Maya sono qui. Posso chiamarteli, se vuoi. Sono andati a telefonare a mamma e papà. Non hanno voluto avvisarli prima di sapere come stavi».
Le strinsi la mano, felice di averla accanto. Non eravamo mai stati molto legati, ma non riuscivo a immaginare la mia vita senza mia sorella. E poi convivevo con la preoccupazione che lei e Cam potessero aver bisogno di me. Mamma e papà le avrebbero spianato la strada per il futuro, ma noi le saremmo sempre stati a fianco per proteggerla.
«Sono felice di vederti».
Aveva gli occhi gonfi di lacrime. «Credo non sia necessario dirti quanto faccia piacere anche a noi di averti ancora qui. Appena abbiamo ricevuto la chiamata abbiamo pensato al peggio. Ero spaventata a morte».
La zittii con un verso e le asciugai una lacrima che le era scesa sul viso. «Ci vuole più di una caduta e un po’ di fumo per mandarmi all’altro mondo, sai?».
La porta della stanza si aprì e il mio cuore quasi smise di battere. Tutto il sollievo e il rimorso che sentivo dentro si manifestarono alla visione di Vanessa con il volto rigato dalle lacrime. Aveva pianto. Si avvicinò, la porta si chiuse dietro di lei.
«Darren. Oh, mio Dio». Si portò una mano tremante alla bocca.
Liv si alzò in piedi e si asciugò il viso con una mano. «Starà bene, Vanessa. Ha qualche costola incrinata, un braccio e una mano rotti, ma guarirà presto».
«La mano era già rotta».
Mia sorella si voltò verso di me e aggrottò le sopracciglia.
Scossi il capo. «Non preoccuparti». Ogni parola che pronunciavo mi graffiava la gola e mi causava dolore.
Il suo sguardo fece avanti e indietro fra Vanessa e me. Il suo sorriso era triste, mi liberò la mano. «Vi lascio soli. Vado a cercare Cam. Se hai bisogno di qualcosa chiama l’infermiera con il campanello, va bene?»
«Grazie», risposi.
Appena ci ritrovammo soli, Vanessa si accostò al letto. Girai il palmo verso l’alto per farle capire che avevo bisogno di toccarla. Appoggiò la mano sulla mia. Chiusi gli occhi, travolto all’istante da quel contatto, seppur minimo.
«Sei venuta».
«Ma certo. Sono corsa appena Maya mi ha telefonato. Non mi sono neanche chiesta se mi volessi vedere».
Aprii gli occhi appena ripensai a quanto la avevo ferita, e a come mi ero sentito anch’io. «Ti vorrò sempre accanto».
Si morse il labbro e le lacrime le punsero gli occhi. «Credevo volessi prenderti una pausa».
Scossi il capo. «Ho sbagliato».
Tossii. Sentii un dolore lancinante partire dalle costole e percorrere un fianco. Inspirai con cautela e tornai ad appoggiarmi sul cuscino. Vanessa si sedette sul letto, di fianco a me. Aveva il viso arrossato e un’espressione preoccupata.
All’improvviso ricordai l’ultima volta in cui l’avevo vista. Camminava a braccetto con qualcun altro. Sorrideva a un uomo che non ero io.
«Vanessa, non conosco quel ragazzo». Deglutii, la gola bruciava. «Ma ho intenzione di lottare per riaverti. Combatterò per il nostro futuro insieme. Stare lontano da te mi uccide».
Aggrottò le sopracciglia. «Quale ragazzo? Di cosa stai parlando?»
«L’altra sera ti ho vista con un uomo. Aveva i capelli biondi. Ridevi e scherzavi con lui. Volevo ucciderlo».
Sorrise e mi sfiorò una guancia. «Tu sei matto».
«Chi era? Dove abita?».
Scoppiò a ridere e scosse il capo. «Si chiama Michael, vive in Florida, quindi avresti parecchia strada da fare. E poi sarebbe un viaggio a vuoto, perché ormai fa parte del passato. È una storia che risale a tanti anni fa, non hai niente di cui preoccuparti».
«È un tuo ex?».
Rispose con un cenno del capo.
«Lo ami?». Mi preparai a ricevere una risposta che mi avrebbe ferito più della caduta nel seminterrato.
«Una volta. Tanto tempo fa. Eravamo molto giovani».
Volevo che amasse me. Sentivo che mi amava. In fondo l’avevo sempre saputo. Ma dovevo sentirglielo dire. Dopo tutto quello che avevamo passato, ne avevo bisogno più che mai.
Si chinò e mi baciò delicatamente le labbra. Il suo sguardo buono mi catturò e mi attirò nel suo animo gentile.
«Tu sei l’unica persona che amo, Darren».
«Come puoi regalarmi il tuo cuore dopo quello che ti ho fatto?».
Fece una smorfia per trattenere l’emozione che trasparì dagli occhi verdi chiaro. Avrei affrontato un altro incendio per eliminare quel giorno e il male causato.
«Posso donarti il mio cuore perché non smetti di lottare per averlo. E perché ti amo. Più di quanto tu riesca a immaginare. Appena ho pensato a cosa poteva esserti successo…». Le si bloccò il fiato, i suoi occhi si riempirono di lacrime.
«Ssh», risposi mentre le stringevo la mano. «Sto bene. Un po’ ammaccato, ma sto bene».
«Ma se…».
«Sei stata tu a salvarmi, Vanessa. Le cose si stavano mettendo male, ma ho continuato a pensarti. Sapevo che dovevo uscire di lì per tornare da te, per mettere tutto a posto, per riaverti».
Iniziarono a scenderle le lacrime, volevo asciugargliele con i baci. Avrei voluto abbracciarla e amarla. Speravo che mi concedesse un’altra possibilità.
«Non ti lascerò più scappare», sussurrai.
Si alzò appena l’infermiera venne a controllare i miei parametri vitali.
«Mi dispiace, ma sono permesse visite soltanto dei familiari. Ha passato una notte impegnativa. Ha bisogno di riposare».
«Lei fa parte della famiglia», dissi.
Vanessa rimase a bocca aperta, poi la richiuse. L’infermiera mi guardò con aria interrogativa.
«È mia moglie».
«Oh. Chiedo scusa, signor Bridge». Annotò qualcosa sulla cartella clinica e la rimise a posto, sulla pediera del letto. «Molto bene. Tornerò a controllarla fra un’ora. Prema il pulsante, se le serve qualcosa». Mi posò la mano su una gamba, una delle poche cose che non mi facevano male. «Grazie per tutto quello che fai, figliolo». Fece l’occhiolino a Vanessa. «Tornerà come nuovo molto presto».
Poi uscì. Vanessa non sprecò neanche un secondo per tornare accanto a me. Mi girai su un fianco per lasciarle spazio.
Sussultai dal dolore.
«Darren. Fermati. Ti fai male».
«Sto bene». Battei qualche colpetto sulla parte libera del letto.
Si rannicchiò accanto a me, attenta a non toccarmi. Appoggiò la testa sul cuscino sospirando appena. «Non hai proprio paura di niente, eh?»
«L’unica paura che ho è di perderti un’altra volta».
«E allora non mi lasciare».
Scossi il capo. «Non ci penso proprio. Neanche per sogno».
Si avvicinò per baciarmi e sigillare quella promessa.