Capitolo diciannove

Vanessa

 

Il lunedì arrivò presto, ma i giorni che passavano non resero le cose più facili. Nonostante fossi emotivamente stanca non riuscivo a dormire. I segni dei morsi di Darren non erano ancora andati via del tutto. Avrei voluto essere arrabbiata con lui, ma le uniche reazioni che avevo erano pianto e rimorso. Se solo avessi agito in maniera diversa… forse Darren non mi avrebbe allontanata.

Mi telefonò diverse volte, ma non ero pronta a sentire la sua voce. Il tempo non stava curando le ferite, ma magari aveva ragione lui. Magari avevamo bisogno di una pausa di riflessione.

Continuavo a ripensare alla rabbia che aveva mostrato parlando del mio rapporto con Reilly. Mentre discutevamo avevo notato come frustrazione e gelosia affiorassero nelle nostre parole infuocate. Non poteva credere che ci fosse qualcosa di più fra me e Reilly. Mi conosceva troppo bene anche solo per pensarlo.

Continuai a ripetermi le stesse domande per tutto il giorno, tormentata dall’afflizione. Forse col passare dei giorni non mi avrebbe più fatto tanto male.

Reilly abbaiò come un cane per chiedermi di portargli un caffè, io obbedii. Tornata in ufficio notai una cartellina piena di fogli sulla scrivania di Adriana. Sopra c’era l’etichetta NYC YOUTH ARTS INITIATIVE.

«Bill è coinvolto anche in questo progetto?».

Adriana rivolse lo sguardo alla mia mano appoggiata sul file.

«Oh, sì. Lo finanzia da diversi anni. Ultimamente sta investendo nel fondo speculativo con l’obiettivo di far crescere le donazioni».

Annuii. «Ti dispiace se do un’occhiata? Sto ancora cercando di capire bene come funzionano le diverse operazioni qui dentro».

«Fai pure. Mi servirà questo pomeriggio perché dovrò lavorare su alcuni documenti. Ma per adesso è tua».

«Grazie».

La portai sulla mia scrivania e iniziai a sfogliarla. La Reilly Donovan Capital stava operando su una buona fetta del capitale dell’organizzazione, registrando un profitto del trenta percento. Questo genere di operazione corrispondeva ben poco al prodotto che avevamo tentato di vendere agli investitori presenti all’aperitivo di qualche sera prima. Perché stavano operando con somme tanto ingenti di un’organizzazione non profit, soprattutto considerando il tempo che avevano speso per ampliare quella realtà?

Rimisi a posto la cartellina e tornai al lavoro, ma non riuscii a smettere di pensarci.

Cliccai sull’icona dei file condivisi alla ricerca di altre informazioni. Non erano stati ancora registrati come clienti, ma scovai una cartella con il loro nome nell’account protetto di Reilly, al quale avevo accesso in quanto amministratore del computer.

La aprii, cercai qualcosa che potesse sembrarmi insolito. Vidi diverse voci in entrata, accreditate da un’altra azienda, la TriCorp, che aveva fatturato l’organizzazione per un’enorme lista di servizi. Si trattava di voci di diverso genere, dalla consulenza alla contabilità, per un costo di seicento dollari all’ora. Quelle voci risalivano a un arco di tempo di almeno otto anni, ed erano un numero spropositato, difficile da contare.

Non avevo mai sentito parlare della TriCorp, ma bastò una veloce ricerca. Era una multinazionale con sede a New York, costituita da due azionisti: David Reilly e Kevin Dermott. La documentazione più datata della multinazionale riportava soltanto il nome di Kevin Dermott.

Ebbi un brutto presentimento. Ero sicura che ci fosse qualcosa che non andava.

Aprii il mio cassetto. Il bigliettino da visita di Jia era in cima alla pila di altri biglietti raccolti durante la festa organizzata per gli investitori.

Reilly e Bill uscirono dai loro uffici. Chiusi immediatamente il cassetto.

Il mio capo si accigliò. «Noi usciamo per pranzo».

«Anch’io», risposi di getto. «Ci vediamo al vostro ritorno. Chiamami, se hai bisogno di qualcosa».

Non disse nulla mentre mi sfilava davanti. Appena se ne andò presi il cellulare e chiamai Jia. Rispose dopo il primo squillo.

«Jia, sono Vanessa Hawkins, dall’ufficio di David Reilly».

«Vanessa. Che bello sentirti».

«Mi chiedevo se ti andava di parlare di quella cosa di cui avevamo accennato», aggiunsi. Mi voltai per guardare Adriana, la quale sembrava distratta dal lavoro. Non stava origliando, ma avevo la sensazione di fare qualcosa di scorretto, quindi agii con circospezione.

«Mi piacerebbe molto. Sei libera per pranzo?»

«Sì. Dove preferisci che ci incontriamo?».

Si schiarì la voce. «Cosa ne dici di un posto dove nessuno può ascoltarci?».

Ci pensai un istante. «Delaney’s on Pearl?»

«Non lo conosco».

«Cercalo. Ci vediamo fra un quarto d’ora».

Appena riagganciò afferrai la borsetta e scesi le scale.

 

***

 

Delaney’s era un locale buio e sporco, proprio come ricordavo. Ci ero già stata con Maya durante le pause pranzo, quando aveva bisogno di allontanarsi il più possibile dall’ufficio. Se Jia voleva riservatezza, quello era il posto giusto. Mi accomodai a un tavolino in fondo. La superficie era ricoperta da uno strato spesso di vernice, ma nonostante il centimetro di protezione era comunque piena di graffi.

Al bancone vidi una donna in là con gli anni, i capelli lunghi e grigi, seduta accanto a un uomo più giovane che pareva subire il suo fascino. Si sporse dallo sgabello per sussurrarle qualcosa all’orecchio. Da Delaney’s non c’era un gran movimento all’ora di pranzo ma, da quanto mi aveva raccontato Maya, la sera era molto più affollato.

D’un tratto la porta d’ingresso si aprì ed filtrò uno spiraglio di luce, oscurato dalla sagoma di una donna. Appena si chiuse riconobbi il viso di Jia.

Si mise seduta davanti a me, facendo scricchiolare la sedia di legno dalla linea molto semplice. «Hai trovato proprio il locale giusto».

«Avevi detto che preferivi essere al riparo da occhi indiscreti».

Ancor prima che potesse rispondere, arrivò il barista e ci portò due menu. «Signore, posso portarvi qualcosa da bere?»

«Perrier, per cortesia», rispose la mia amica.

Quell’uomo reagì con una smorfia quasi impercettibile. «Ehm, abbiamo birra, liquori e acqua del rubinetto».

«L’acqua del rubinetto andrà benissimo, grazie», rispose Jia con il suo perfetto sorriso di circostanza.

«Anche per me, grazie», aggiunsi. «E un hamburger».

«Arrivano». Raccolse i menu e ci lasciò sole, per poi tornare meno di un minuto dopo con l’acqua.

«Allora, cosa ti porta in questo posto tanto raffinato?». Sfilò il blazer e lo appoggiò sullo schienale.

«Mi avevi detto che se mi fosse venuta voglia di sapere qualcosa di più sul mio capo avrei potuto parlarne con te».

«Di cosa vuoi parlare, in particolare?».

Dimmelo tu. Ma avevo immaginato che non sarebbe stato facile. L’avevo invitata io, e stavamo girando intorno a un argomento potenzialmente rischioso. Avevo capito che serbava un certo rancore nei confronti di Dermott e Reilly, ma era impossibile farle rivelare qualcosa che potesse danneggiarla senza espormi anch’io.

«Ho scoperto degli affari poco chiari. Posso parlarti in confidenza? Nel caso avessi capito male, non vorrei perdere il lavoro».

«Reilly non fa più parte dell’azienda e, detto fra noi, non mi sento più in obbligo neanche nei confronti di Dermott. Quindi, la risposta è sì. Puoi dirmi tutto quello che vuoi». Appoggiò i gomiti sul tavolo e si sporse in avanti.

«Vorrei sapere qualcosa di più sulla Youth Arts Initiative. Ne ho sentito parlare solo vagamente da quando lavoro con Reilly, ma adesso quell’organizzazione sta investendo sul nostro fondo speculativo. Ho fatto qualche ricerca più approfondita, e il coinvolgimento finanziario di Reilly è diventato rilevante».

«Lui è uno dei più grandi benefattori, nonché membro del consiglio d’amministrazione. David e Cheryl Reilly investono i loro soldi in quel progetto da anni, e hanno coinvolto anche i loro amici».

«E fin qui ci siamo, ma il denaro sta facendo il percorso inverso. Una grossa somma è stata incanalata in un’azienda terza che la sta caricando di ogni genere di spesa. L’incartamento copre parecchi anni. Reilly è un azionista dell’azienda ricevente, ma nel vecchio statuto compariva soltanto il nome di Dermott. Da quest’anno è cambiato tutto».

«Hai un buon fiuto». Sorrise, le brillavano gli occhi.

«Non so se sia importante, ma sono quasi certa che stia cercando di estromettere Cheryl. Ho ascoltato alcune conversazioni, senza volerlo, con gli altri membri del consiglio d’amministrazione. Sta cercando in tutti i modi di farla fuori».

Inarcò un sopracciglio, come se quella notizia le giungesse nuova. «Cheryl tiene molto all’organizzazione. Fu lei a rilevarla per trasformarla in quello che è adesso. Reilly ci ha messo il denaro, ma lei ha pensato a tutto il resto».

Tornò il barista con il mio hamburger, non si preoccupò di chiedermi se desideravo altro. Non mi importava granché, dato che più la conversazione su Reilly andava avanti, più perdevo appetito.

«Pensi che potrebbe estrometterla solo per farle un dispetto? Credevo si fossero separati di comune accordo».

Jia bevve un sorso d’acqua e posò il bicchiere. «Forse ha qualcosa da nascondere, o da guadagnare».

Rimasi in attesa di una sua reazione, che non arrivò. Avevo la sensazione che sapesse più di quanto mi stesse dicendo.

«Se c’è sotto qualcosa di losco, ho bisogno del tuo aiuto per capire dove devo cercare».

«La domanda è: tu cosa cerchi, Vanessa? Il piano funziona soltanto se definiamo entrambe dove vogliamo arrivare».

Fissai il mio panino e diedi un morso a una patatina. Cosa cercavo? Mi bloccai perché non avevo idea di quali avrebbero potuto essere le conseguenze.

«Ho dedicato due anni della mia vita a Reilly e a questo lavoro. Ogni giorno, con ben poche soddisfazioni. Se sta facendo quello che sospetto, non desidero più far parte del suo entourage. Insomma, è profondamente sbagliato, oltre che illegale».

Jia restò a guardarmi per un istante, senza dire una parola. «Dopo circa una settimana dall’ultimo atto del divorzio di Reilly, Dermott trasferì un’ingente somma di denaro dalla TriCorp al conto corrente di una banca off-shore».

«Quanti soldi?».

Arricciò le labbra. «Circa venti milioni di dollari».

Rimasi a bocca aperta. Non avevo avuto tempo di controllare tutte le voci, ma… «Oh, mio Dio. Se è vero quello che dici, metà del denaro transitato per la TriCorp è di Cheryl».

«Posso garantirti che non è stata una materia trattata sul tavolo del divorzio. Quindi sì, tecnicamente il denaro è suo, o dell’organizzazione. Da qualsiasi punto la si veda, adesso quei soldi sono nelle mani sbagliate. Cheryl non l’ha mai saputo perché è sempre stata relegata ai piani bassi dell’amministrazione. È lui che gestisce le finanze, ed elargisce tangenti a Dermott, Donovan e chiunque altro al fine di chiudere la bocca a tutti. Così, mentre Cheryl cerca continuamente di convincere i suoi amici a fare delle donazioni, lui trasferisce quanto può in un conto che Dermott ha gestito fino a un paio di mesi fa. Entrambi hanno sfruttato per anni quell’azienda non profit per evitare di pagare le tasse. Il direttore finanziario è all’oscuro di tutto. Per gli altri si rivela una miniera d’oro».

«Ma è terribile».

Tentai di mandare giù il nodo che mi si era formato in gola. Reilly era un mostro, all’improvviso capii quanto ero stata stupida a non aver ascoltato il mio istinto.

«Come fai a sapere queste cose?».

Si strinse nelle spalle e prese una patatina dal mio piatto. «Dermott parla sempre troppo».

«Non lo conosci da molto tempo».

«Credo di conoscerlo meglio di sua moglie, a questo punto».

Mi fece l’occhiolino, e anche se trovai inquietante il suo atteggiamento disinvolto nei confronti dell’infedeltà coniugale, capii finalmente il motivo per cui Dermott si confidava con lei. Capii anche perché era tanto arrabbiata per essere stata tagliata fuori dopo che il suo capo aveva ottenuto la promozione. Si sentiva disprezzata.

«Allora, cosa facciamo? Voglio dire, dobbiamo fermare questo giro losco. È una truffa. Stanno derubando tante persone».

«Proprio come te, anch’io ho scoperto un mucchio di carte che tracciano passaggi di denaro tra lui e l’organizzazione senza scopo di lucro. Mi sembra una manovra poco chiara e potrebbe portare a uno scandalo. Comunque sia, stiamo parlando di uomini d’affari scaltri, non sarà difficile per loro truccare i libri contabili in maniera credibile, così da giustificare con facilità le diverse operazioni davanti alla corte di un tribunale. Non è questa la pistola fumante che dobbiamo cercare per farli uscire allo scoperto».

«E qual è, allora?»

«Posso dimostrare che Dermott ha trasferito dei fondi. Ma questa prova non vale nulla se non scoprirò dove sono andati a finire».

«E se io riuscissi a scoprirlo?».

Arricciò le labbra, stava riflettendo. «Se trovassi quelle registrazioni contabili, Dermott e Reilly sarebbero finiti. Potrei portare tutto ai vertici dell’azienda, e otterrei il posto del mio ex capo in una settimana».

«Tu vuoi vendetta», dissi constatando l’ovvio.

«Mi piace vederla come una forma di giustizia personale».

«E se invece avessi capito male? Se tutto quello che stanno facendo fosse legale? Perderei il lavoro per niente». Non che volessi restare lì, dopo aver saputo dei loro traffici loschi.

«Vai da Cheryl. Se lei penserà che sei in buonafede, non lo dirà mai a Reilly. La vita va sempre come è destino che vada. Nel caso io avessi ragione, lei avrebbe un milione di motivi per crederti».

«Finirò sulla lista nera se Reilly scoprirà che dietro a tutto questo ci sono io».

«Forse sì, o forse no. Magari potrei trovarti una posizione ben retribuita nella vecchia azienda. Potrei assumerti direttamente alle mie dipendenze, se vuoi».

Apprezzavo il fatto che Jia stesse cercando di addolcire la pillola, perché il futuro si prospettava fumoso e il risultato incerto. Comunque quello era il peggio che potesse capitare.

«Non vorrei offenderti, ma non ho più voglia di vivere sommersa dalle scartoffie. Se lascerò Reilly inizierò una nuova vita».

«In tal caso non saprei come aiutarti».

Ci pensai su. La possibilità di cominciare daccapo mi era balenata diverse volte negli ultimi tempi. Eppure non sapevo da che parte iniziare. Avevo maturato un paio di anni di esperienza significativa da aggiungere sul curriculum, e i miei risparmi mi avrebbero permesso di tirare avanti senza problemi per un po’. «Mi inventerò una maniera per cadere in piedi».

«Qualunque cosa tu decida, non farti scoprire da Reilly a ficcare il naso nei suoi affari. Se dovessero nascergli dei sospetti inizierà subito a spostare il denaro e confondere le acque. A quanto pare ha già iniziato un’opera di insabbiamento tentando di mettere Cheryl fuori dai giochi».

«La riunione del consiglio si terrà alla fine del mese».

«Il tempo vola». Si infilò il blazer. «Ti farò recapitare le carte dei trasferimenti di denaro e tutto quello che troverò nel tuo appartamento, questa sera. Così avrai ogni cosa a disposizione quando servirà».

«Arriveranno anche a te?». Sollevai lo sguardo appena si alzò in piedi.

«Soltanto se scoprissero che ho parlato con te. Porta tutto a Cheryl. Quando il vaso di Pandora si scoperchierà farò le mie mosse».

Jia sarebbe stata l’unica che ci avrebbe guadagnato. A me interessava che fosse fatta giustizia, più che vendetta. Se quello che mi aveva raccontato era vero, ci sarebbe stata giustizia anche per David Reilly.

Era sul punto di andare via, ma poi si bloccò e si voltò appena.

«A proposito, come sta Maya? Ho saputo che si è sposata».

«Sì. Avrà un bambino in autunno».

La sua espressione divenne più mansueta. «Sono felice per lei».

«Anch’io».

«Fammi un favore, salutala da parte mia».

Risposi con un cenno d’assenso. «Certo».

«Buona fortuna».

«Anche a te».

 

***

 

Ripassai nella mente la conversazione con Jia, almeno un centinaio di volte. Ero ancora sconvolta. Sentivo gravare sulle spalle il peso di tutti i traffici che avevo smascherato. Se era vero, e se fossi riuscita a trovare la cosiddetta pistola fumante, mi sarei resa responsabile della scoperta di una faccenda molto più grande di me.

Ero un’assistente personale. Non ero tagliata per certe cose.

Reilly entrò nella reception, distraendomi dal computer e dai pensieri che continuavano a ronzarmi in testa. Fuori si era fatto buio, l’ufficio era vuoto. Stavo solo perdendo tempo nell’attesa che andasse via.

Si fermò davanti alla scrivania. «Io vado. Hai programmi per stasera?».

Mi strinsi nelle spalle. «Credo di no».

«Come vanno le cose con Darren?».

Avrei potuto dirgli la verità, ma non volevo dargli la soddisfazione di fargli sapere che non stavamo più insieme. Ovviamente aveva contribuito a convincerlo a scaricarmi di punto in bianco.

«È complicato», risposi.

Lessi un velo di compiacimento nei suoi occhi. «Abbiamo avuto una chiacchierata interessante».

«Sì, l’ho saputo».

Inclinò la testa. Speravo che non intuisse che stavo male.

«Noi due potremmo essere un’ottima squadra, Vanessa. Mi auguro che tu ci abbia fatto un pensierino».

Abbassai lo sguardo e scarabocchiai su un quaderno. «Mi tratterrò ancora un po’. Chiamami, se dovesse servirti qualcosa». Ti prego, vattene.

«Vado a bere un drink qui di fronte, prima di tornare a casa. Se avrai bisogno di una pausa raggiungimi».

Feci un cenno col capo, nel tentativo di ignorarlo e troncare al più presto la conversazione, ma non sembrava volersi muovere. Venne lentamente dalla mia parte e si chinò dietro di me. Rabbrividii appena mi posò una mano sulla spalla per poi strizzarla.

«David». Mi irrigidii e provai a scostarmi, ma ero bloccata dalla scrivania.

«Mi sono avvicinato a te con eccessivo entusiasmo, lo so. Dopo averti aspettata per tutto questo tempo, credo di poter riuscire a rallentare il passo. Ma dovremmo pur iniziare da qualche parte».

Deglutii a fatica, pensai a come uscire da quella situazione che sarebbe potuta degenerare in poco tempo. Adriana e Bill erano già andati via da parecchio tempo. Reilly non era ubriaco questa volta, comunque non mi sentivo più al sicuro da sola con lui.

«Vanessa… ogni volta che mi chiedi se mi serve qualcosa, la risposta è sempre “tu”».

Chiusi gli occhi. «Sto attraversando un momento difficile. Dammi un po’ di tempo per pensarci, okay?». Speravo che non si fosse accorto che mi tremava la voce.

Mi diede un bacio sul collo, mi salì la bile alla gola.

«Va bene», sussurrò. Si tirò su e se ne andò.

Appena mi ritrovai da sola, mi sforzai di non scoppiare a piangere o farmi cogliere da una crisi nervosa.

Era impossibile continuare ad accampare scuse. Quella storia doveva finire.