20

Seattle, 5 maggio

Sono seduta alla scrivania di mio padre, nella casa dei miei genitori, a cercare di raccogliere le idee in questo diario. Non è facile, perché sono esausta dopo avere spazzato per ore schegge di vetro dai pavimenti. Alcuni dei mobili più grandi non sono più dov'erano prima, come se il terremoto avesse dato loro le gambe per scegliersi una nuova collocazione. Ma la casa è pressoché intatta. Alcune zone di Seattle sono state colpite più di altre, ed è stato un sollievo scoprire che il nostro quartiere è stato uno dei fortunati. Un generatore che mio padre aveva fatto installare durante un momento di crisi energetica fornisce l'elettricità sufficiente per le prime necessità, una delle quali, per me, è il mio computer.

Ho ancora un libro da scrivere... e questo resoconto degli avvenimenti di Thornberry da portare a termine.

Le parole che mi ritornano in mente sono: Raccogliere... radunare... Per mio conforto, e soprattutto per vedere le cose più chiaramente, scrivo del modo in cui tutte ci siamo messe assieme, e di quello che abbiamo fatto. Ogni sera cancello quello che ho scritto, nel timore che il mio lavoro venga sequestrato dalla polizia. Di giorno, mi tengo sempre pronta a battere il tasto di cancellazione, nel caso che quella che si fa passare per la legge bussi inaspettatamente alla mia porta. Quello che abbiamo fatto a Thornberry non deve mai venire alla luce.

Erano passate due settimane dall'ultimo giorno a Thornberry, e ne avevamo parlato a lungo fra noi... Dana, Kim, Grace e io. Non pensavamo che a Gabe sarebbe davvero successo qualcosa, volevamo solo spaventarlo, dargli una lezione, e poi consegnarlo alla legge.

Avevamo anche ammesso che, in fondo al cuore, nessuna di noi credeva che la punizione che la legge gli avrebbe inflitto sarebbe stata sufficiente. Non a nostro giudizio, almeno.

Perciò avevamo fatto quello che avevamo fatto. Eravamo tutte colpevoli, nell'intenzione, continuavano a ripetermi le altre. E io potevo solo rispondere che la colpa maggiore era mia. Ero io che avevo passato la vita a mettere in pratica la legge. Per quella ragione, soprattutto, insistetti perché nessun'altra si facesse avanti.

A che cosa sarebbe servito incolpare anche le altre? Se non altro, dovevamo proteggere Timmy e Amelia. Non avevano avuto parte nel nostro delitto, ma senza dubbio i sospetti sarebbero ricaduti anche su di loro.

A un certo punto ho chiesto a Grace di dire la verità, solo a me. Lei mi ha giurato di non avere ucciso Gabe. L'ha trovato morto, ha detto. Si era svegliata, durante la notte, e aveva creduto di sentire uno sparo. Non volendo svegliare nessun altro, era uscita sola a indagare.

A essere onesta, ha aggiunto, aveva pensato che fossi stata io. Lei aveva tenuto la bocca chiusa per me.

«Era il meno che potessi fare, visto che non ti avevo protetta molto bene, in precedenza.»

Ho finito per crederle, ed è stato allora che mi sono resa conto della realtà: qualcun altro aveva ucciso Gabe. Ma chi altri, sull'isola, aveva una pistola?

Una qualunque delle donne, probabilmente. Solo, non riuscivo a crederlo.

Luke, allora? Gli avevo parlato solo poche volte, dal giorno in cui ero salita su quell'elicottero. Sapevo che si sarebbe fermato a Seattle per un po', e che si vedeva ancora con Grace. Me l'aveva detto lei stessa, rassicurandomi che fra loro non c'era più alcuna intimità.

Le credevo anche su questo. Grace si era addolcita, in qualche modo, da quando avevamo lasciato Thornberry, ma non sembrava interessata a nulla, adesso, tranne riottenere il suo vecchio lavoro a New York.

Una volta convinta dell'innocenza di Grace, ho cominciato a scrivere nel mio diario, di notte, tutto ciò che era accaduto, mentre durante il giorno lavoravo al mio libro. Pensavo che forse sarei riuscita a raggiungere qualche conclusione logica, se avessi scritto nello stesso modo in cui avrei stilato degli appunti per un processo.

Ha funzionato. Mettendo nero su bianco tutti gli elementi, in quest'ultima settimana, una quantità di cose sono diventate chiare. Sono emersi indizi a cui, altrimenti, forse non avrei pensato. E finalmente ho capito... o almeno ho creduto di capire... chi ha ucciso Gabe.

Stavo lavorando a questo quando Ian mi ha telefonato, ieri sera. Poteva venire a parlare con me?, ha chiesto. Era importante, ha affermato.

Gli ho detto di sì, ma gli ho chiesto a mia volta se poteva aspettare fino a questa sera, perché avevo una quantità di lavoro da fare. Lui ha accettato.

Dopo, ho fatto qualche opportuna telefonata.

Ora sono passate ventiquattr'ore, e Ian deve arrivare qui alle nove. Sono le otto e quaranta, e mentre aspetto torno ai miei appunti, ricordando che, prima che lasciassimo Gabe legato nella radura, quel giorno, avevo raccolto la scatola Allegra, che lui aveva lasciato cadere. Quella notte, avevo tirato fuori le calze dalla scatola e le avevo messe assieme alla biancheria da lavare che intendevo portare a casa con me. Quando avevo deciso di confessare, il giorno seguente, le avevo lasciate là, e benché il mio bagaglio venisse perquisito per cercare l'arma del delitto, le calze dovevano essere sembrate un oggetto innocuo all'agente che aveva compiuto la perquisizione. Avevo avuto qualche timore quando i miei effetti personali mi erano stati tolti, alla prigione di San Juan, ma poi Ian era venuto per riportarmi a Seattle, e la mia valigia mi era stata restituita quando mi erano stati concessi gli arresti domiciliari.

Ora le calze sono di nuovo nascoste sotto l'angolo della moquette, dove le avevo messe prima di andare a Thornberry. Ho vissuto con il timore che i Cinque, che non sono stati ancora incriminati, potessero venire qui in qualunque momento con un mandato di perquisizione, trovarle e portarmele via. La sola cosa che mi rassicura un po' è che quel rapporto sull'esame del DNA è ancora archiviato in quel laboratorio che ho contattato per le analisi. Anche senza le calze, Ivy dovrebbe essere in grado di muovere delle accuse.

Controllo l'orologio sulla mensola del camino. Le otto e cinquanta. Il braccialetto alla caviglia mi irrita la pelle, rammentandomi la mia mancanza di libertà, e come potrei perderla per sempre se stasera le cose non andranno secondo i piani. Bevo un sorso d'acqua e chiudo un momento gli occhi, raccogliendo le forze.

Il campanello della porta suona, e mi rendo conto che sono passati dieci minuti. Vado nell'ingresso, apro la porta e faccio entrare Ian. Lo porto in soggiorno, lontano dagli appunti, lontano dalla prova di Lonnie Mae.

Ian è acuto, però. Passando, lancia un'occhiata nello studio di mio padre, vede la luce sulla scrivania e indovina che cosa stavo facendo.

«Stai lavorando sodo?» chiede.

«Oh, solo un po'. Ho ancora un libro da scrivere, sai» rispondo sorridendo.

«Hai trovato qualcosa a proposito dell'assassinio sull'isola? Un modo per scagionarti, intendo.»

«Ci ho pensato» ammetto, senza sbilanciarmi.

«Finora hai tenuto per te quello che è realmente accaduto nella foresta» osserva Ian, sedendosi sul divano e appoggiandosi all'indietro, rilassato. «Non ti aiuterebbe parlarne?»

«Può darsi» rispondo, sedendomi su una poltrona di fronte a lui. «Solo, non so da che parte cominciare.»

«Be', perché non cominci col dirmi quante di voi hanno partecipato al crimine?»

«Ian, ti ho già detto, così come ho riferito alle autorità, che l'ho fatto da sola.»

Lui scuote la testa.

«Andiamo, Sarah, nessuno ci ha creduto. Solo, non hanno prove che tu non abbia agito da sola. Però sei stata aiutata, vero?»

«Una donna piena di rabbia può fare molte cose» ribatto. «L'adrenalina può darti una forza sovrumana.»

«C'erano impronte di più di una persona sul terreno della foresta» sottolinea Ian. «Lo sceriffo di San Juan sostiene che non eri sola.»

«Lo so» rispondo. «L'ho saputo giusto ieri. È per questo che ero quasi sicura di sentirti, Ian. Che cosa vuoi da me?»

Lui si china in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia.

«Sarah, sono stato incaricato di scoprire che cosa è realmente accaduto su quell'isola e che rapporto ha con i Cinque di Seattle. Ho bisogno di sapere se qualcuna delle altre donne sa dei Cinque. Se Gabe Rossi ha detto loro qualcosa, cioè. Potrebbe essersi lasciato sfuggire qualcosa in grado d'incriminarli. Ho anche saputo che possiedi una prova che potrebbe esserci utile.»

«Te l'ha detto Ivy?» chiedo.

Il lampo di sorpresa che gli passa sul viso mi dice che non è così.

«Ivy? Intendi Ivy O'Day? No. Perché, Sarah? Hai parlato con lei?»

Agito una mano, come per schiarirmi la mente.

«Oh, Ian, ho parlato con tanta di quella gente che non posso ricordarla tutta.»

«Non hai dato questa prova a qualcuno, vero? Che cosa ne hai fatto?»

«A qualcuno? Santo cielo, no. L'ho nascosta nel cavo di un albero vicino al luogo in cui è morto Gabe» dico. «Non preoccuparti, è ancora là.»

«Un albero? L'hai nascosta nel cavo di un albero?» Ian si passa le dita fra i capelli. «Maledizione, Sarah, c'è un'infinità di alberi vicino al luogo in cui è morto Gabe!»

«Non come quello. Si chiama l'Albero del fantasma. È enorme, e il cavo è abbastanza grande da contenere una persona. Abbastanza grande, soprattutto, perché una prova che è nascosta al suo interno non venga ritrovata per centinaia di anni.»

Ian studia il mio viso come per cercare le tracce di una menzogna.

«Sarah, sei certa di averla nascosta là?»

«Si capisce che sono certa» ribatto. «Non dimenticherei una cosa tanto importante.»

«E sei assolutamente certa che è una prova inconfutabile? Potrebbe far condannare i Cinque

«Ian, per l'amor del cielo! È un indumento di Lonnie Mae. Un paio di calze che non si sono disturbati a toglierle prima di stuprarla. E c'è DNA dei Cinque dappertutto.»

Con un movimento irritato, Ian si alza in piedi.

«Questo taglia la testa al toro, allora. Torno su quell'isola.»

«Adesso?»

«Sì, adesso.»

«Perché disturbarti?» chiedo. «Ian, è tardi. Basta chiamare lo sceriffo di San Juan. Sono sicura che quando gli avrai spiegato tutto, sarà felice di andare a prendere la prova e conservartela fino a domattina. Dopotutto, là dov'è non può andare da nessuna parte.»

Lui esita.

«È vero. Ma abbiamo già aspettato anche troppo. Più presto la prova sarà in mani sicure, meglio sarà.»

A quel punto, decido di porre fine al gioco.

«Che intendi con abbiamo, Ian? Tu e i Cinque di Seattle? Oh, aspetta, dimenticavo che con Gabe fanno i Sei di Seattle, e poi con te... Che cosa sono, in realtà, Ian? I Sette di Seattle? O ce ne sono anche di più?»

Lui mi guarda.

«Di che stai parlando? Te l'ho detto, io mi sto adoperando per mandare i Cinque in prigione. Sto dalla parte dei buoni, non dei cattivi.»

Rido brevemente.

«Sai, mi piacerebbe crederlo. Ma indovina un po'? Il telefono cellulare di Luke ha un dispositivo che mostra gli ultimi dieci numeri chiamati. Il giorno in cui la squadra di soccorso arrivò a Esme Island, lui, per un'ispirazione improvvisa, controllò quei numeri. L'ultimo numero composto era quello di casa tua. Luke mi ha detto che non era stato lui a chiamarti. E la sola persona che sapeva del telefono di Luke, a parte me, era Gabe Rossi.»

«Ma è folle! Se Luke ha detto questo, ha mentito. Lo dice per scagionare se stesso. Usa la testa, Sarah. Non ho mai ricevuto una telefonata da Gabe Rossi. Non lo conoscevo neppure.»

«Spiacente, Ian. È stato un bel tentativo, ma non funzionerà. Luke ha controllato con la società telefonica, e l'ora della chiamata al tuo numero coincide con il momento in cui Gabe ha detto di avere usato il telefono per fare rapporto, come si è espresso lui. La stessa ora in cui Jane fu uccisa, fra l'altro. E Luke era con me, in quel momento.»

«Sarah, può darsi che qualcuno abbia chiamato il mio numero, ma certo io non ho parlato con nessuno. Non so perché Gabe Rossi avrebbe dovuto telefonarmi.»

Mi alzo e fronteggio Ian a braccia conserte.

«Smettila, Ian. È solo una questione di tempo prima che abbiamo tutte le prove necessarie. Vedi, siamo già praticamente certi di sapere cos'è successo a Esme Island. Sei stato tu a uccidere Gabe, vero? Era veramente tuo compagno... ma nel crimine, non come poliziotto. In qualche modo, sei arrivato sull'isola prima, nel cuore della notte, e gli hai sparato.» Quando Ian fa per protestare, lo interrompo. «Non potevi essere stato che tu, Ian. Eri la sola persona coinvolta che avesse una pistola... una pistola su cui nessuno ha fatto domande, quella mattina, perché sei un poliziotto. Hai ucciso Gabe, e poi ti sei unito alla squadra di soccorso e hai finto che fosse la prima volta che andavi a Esme Island. La sola cosa che non capisco è perché gli hai sparato. Perché Gabe doveva morire?»

Ian apre la bocca per parlare, poi si ferma. Fa qualche passo verso la grande finestra a bovindo del soggiorno, che si è rotta ed è in corso di riparazione. Alcune parti sono temporaneamente coperte con della carta marrone. Lui si mette le mani in tasca e si dondola avanti e indietro sui talloni.

«Chi altri sa di questa tua piccola teoria?» chiede a bassa voce.

«Solo io e Luke» rispondo. «Senti, non rendere le cose più difficili di quanto già siano. Non costringermi a denunciarti.»

Lui si volta, con un mezzo sorriso.

«Non si tratta solo di me, Sarah. Io non c'ero quando hanno stuprato quella donna, ma lavoro da anni con quei ragazzi. Ci sono... cose che potrebbero saltare fuori, se non li aiutassi.»

«Mi dispiace» mormoro.

Lui chiude un momento gli occhi.

«Dunque, Sarah, dov'è la prova?»

«Te l'ho detto.»

Ian sembra quasi triste per un momento. Poi respira a fondo e si avvicina alle tende. Tira fuori un coltello dalla tasca interna della giacca, lo apre e comincia a tagliare una parte del cordone.

«Che stai facendo?» chiedo.

«Ho bisogno di quella prova... ma non posso fidarmi che tu abbia detto la verità su dove si trova. Spiacente, Sarah. Devo essere certo che non parli con nessuno, mentre vado a vedere.»

Chiude il coltello, lo rimette in tasca, e mi si avvicina con un lungo pezzo del cordone fra le mani.

«Non è necessario» protesto, indietreggiando. «Puoi semplicemente portarmi con te.»

«Non credo proprio. Quel braccialetto che hai alla caviglia darebbe l'allarme nel momento in cui varcassimo la porta. Però sei stata in gamba a pensarci.»

Ian fa per afferrarmi.

«Non puoi farlo» affermo continuando a indietreggiare verso la porta. «Luke sa di te. Capirà quello che hai fatto e ti denuncerà.»

Lui scuote la testa.

«Chi se ne importa? Nessuno gli darà ascolto... specialmente quando troveranno la pistola che ha ucciso Gabe nella sua camera d'albergo.»

Spalanco gli occhi.

«Stai dicendo che hai messo la pistola nella camera di Luke?»

«Sembrava il modo migliore per incastrarlo» dichiara Ian.

«Il modo migliore. Vuoi dire, lo stesso modo in cui hai messo la droga nel mio appartamento?»

Ian mi guarda negli occhi.

«Lo stesso modo in cui certi miei amici, diciamo, hanno messo quella droga nel tuo appartamento.»

«E così, sei stato tu a dare gli ordini per incastrarmi.» «Stavi diventando incontrollabile, Sarah. Non avresti mai dovuto prendertela con dei buoni poliziotti come i Cinque. Stavano solo facendo il loro lavoro.»

«Il loro lavoro! Uno stupro lo definisci il loro lavoro? E Gabe? Anche lui stava solo facendo il suo lavoro? E allora, perché ucciderlo?»

Lui sorride.

«Ah sì, Gabe. Be', su questo avevi ragione, Sarah. In effetti, sono arrivato a Esme Island nel cuore della notte. Appena ho saputo che si stava formando una squadra di soccorso per raggiungervi, sono volato a Orcas e ho pagato un pescatore perché mi portasse a Esme Island con la sua barca. Intendevo incontrarmi in privato con Gabe, ma mentre risalivo la spiaggia ho sentito un uomo che urlava, e ho seguito la voce fino al punto in cui voi, deliziose signore, l'avevate inchiodato come una farfalla su un muro. Era uno spettacolo pietoso, con gli insetti che gli camminavano addosso... Anzi» Ian sorride, «era quasi buffo.»

Anch'io sorrido, giusto per fargli sapere che lo seguo.

«Comunque, ha ammesso di averti detto tutto, Sarah... tutto, tranne il mio coinvolgimento, cioè. Però non credeva che lo avreste lasciato là a morire. Era sicuro che sareste tornate al mattino per liberarlo. E in quel caso, non potevo fidarmi che tenesse la bocca chiusa su di me.»

Faccio lentamente un passo di lato, verso la porta.

«Perciò, mi stai dicendo che non hai avuto problemi a uccidere un uomo solo per non essere smascherato, e poi ti aspetti che io me ne stia qui ferma e buona mentre mi leghi?»

«Sarah» comincia lui, con voce stanca e tesa, «il fatto è che sarai legata. Non ribellarti, e cercherò di non farti male. Ribellati, e dovrò usare la forza. In un modo o nell'altro, il risultato non cambierà.»

Stavolta fa per afferrarmi, e io giro di scatto sui tacchi e corro alla porta. Era il mio piano originario, perciò l'ho lasciata socchiusa, in modo da poter uscire facilmente. Ma a metà della stanza il braccialetto alla caviglia urta contro un tavolino, e mi fa rallentare. Ian raggiunge la porta per primo e la sbatte, chiudendola a chiave e sbarrandomi il passo. So che non posso scansarlo, perciò mi volto e corro di nuovo in soggiorno, cercando con gli occhi una via di scampo. Purtroppo anche la portafinestra che dà sul giardino è rotta, e delle assi di legno sono state inchiodate sopra l'apertura.

Ian è grande e grosso... abbastanza da spezzarmi in due con una sola mano, e mi rendo conto di essere in trappola, senza nessun tipo di arma e scarse capacità di difendermi. Mi resta una sola cosa da fare... e la faccio. Mi lancio con tutte le mie forze contro la grande finestra a bovindo e sfondo la carta e il vetro, riparandomi il viso con le braccia. Atterrando, mi faccio male alle ginocchia, ai gomiti e alla faccia. Sento Ian che attraversa la finestra per seguirmi. Allora mi arrabatto in piedi e fuggo attraverso il prato. Prima che riesca a raggiungere la strada, lui mi afferra da dietro, passandomi un braccio attorno alla vita. Con l'altra mano, mi avvolge attorno al collo il cordone e lo stringe, togliendomi il respiro. I miei polmoni tentano senza successo di recuperare l'ossigeno che ho consumato nella corsa.

«Maledizione, Sarah...» mi sussurra lui all'orecchio, selvaggiamente. «Guarda che cos'hai fatto. Il segnale di quel tuo braccialetto richiamerà qui un'orda di poliziotti nel giro di pochi minuti.» Dà uno strattone al cordone. «Credo proprio che non ti legherò, dolcezza. Spero solo che quella prova sia dove hai detto.»

A sottolineare le sue parole, sento il cordone sottile, tagliente, stringersi ancora di più.

Poi, con la coda dell'occhio, vedo Grace. È a una distanza di circa un metro e mezzo da noi, sulla sinistra, a gambe larghe, con le braccia tese verso di noi e le mani unite. Quasi nello stesso istante, vedo un lampo, accompagnato da uno schiocco secco. Sento il corpo di Ian scagliato con violenza contro il mio, quando la pallottola lo colpisce.

All'improvviso, Luke è accanto a me, e mi prende fra le braccia.

«Grazie al cielo stai bene» dice.

Mi passa le dita fra i capelli e mi attira a sé. Grace ci raggiunge e mette una mano sul collo di Ian, cercando una pulsazione.

«È ancora vivo» mormora.

Cominciano ad arrivare le macchine della polizia. Gli agenti balzano fuori, armi in pugno.

Quando vedono Ian disteso a terra, mi coglie il timore che possano sparare a tutti noi senza tanti complimenti. Ma poi arriva Joe Pinkowski, il capitano di Ian, gridando loro di stare indietro. Joe, ho appreso ieri, collaborava da mesi con gli Affari Interni per raccogliere prove sufficienti contro Ian.

«Avete registrato?» gli chiedo.

«Abbiamo tutto, grazie a te» risponde Pinkowski, accennando a un furgone dall'aspetto anonimo poco distante. «È tutto sul nastro, e avevamo perfino un collegamento con l'ufficio del Procuratore distrettuale.»

Luke mi sta togliendo schegge di vetro dai capelli.

«Maledizione, Sarah, lo sapevo che avremmo dovuto nasconderci da qualche parte in casa, anziché dietro l'angolo. E se non fossimo arrivati in tempo?»

«Non avrebbe mai funzionato» ribatto, scuotendo la testa. «Ian si sarebbe accorto della vostra presenza.»

«Ha ragione» conferma Pinkowski. «Già il furgone era un rischio.»

«Eppure...» comincia Luke, tamponandomi delicatamente il sangue dalla guancia, poi dalle braccia, con un fazzoletto.

Ridendo nervosamente, mi tasto il viso in cerca di tagli.

«Non mi sarei mai sognata di dover uscire attraverso una finestra» commento.

«C'è una persona, laggiù, che vuole parlare con te» mi informa Pinkowski.

Apre il braccialetto con la chiave e me lo toglie.

Io guardo una berlina nera che si è fermata accanto al marciapiede. Vicino all'auto, in piedi, c'è il giudice Ford, il padre di Luke, che mi indirizza un segnale rassicurante con il pollice alzato.

Luke mi passa un braccio attorno alle spalle.

«Vengo con te» dice.

Ci incamminiamo verso la macchina, e un finestrino si abbassa. Seduta all'interno c'è mia madre, con un tremulo sorriso sulle labbra.

«Grazie a Dio è tutto finito, bambina mia...» mormora, abbracciandomi.