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Dopo, la situazione precipitò. Le tensioni si erano acuite, e mi chiesi se la causa fosse stata la sensualità della danza, che ci aveva ricordato che avevamo una vita, e magari perfino un amore, in un altro luogo.
Ciascuno, comunque, dimostrava in modo diverso il suo disagio. Amelia e Timmy scattavano l'una con l'altra. Grace scattava con tutti, e Dana flirtava spudoratamente con Gabe. Lui non ne sembrava dispiaciuto, e flirtava a sua volta, tutto sorrisi e ammiccamenti. Mi ricordava un folletto, un enorme folletto italiano che si era svegliato sere prime nella foresta e si era presentato alla nostra porta. Ora che mi stavo abituando a lui, tendevo a trovarlo più simpatico, e se il fatto che Dana flirtasse con lui mi sorprendeva, quando lo faceva Kim non mi sorprendeva affatto.
La vidi incamminarsi sul sentiero che conduceva al suo cottage dove, aveva detto, andava a cercare qualche altro effetto personale. Gabe la seguì poco dopo, abbandonando il lavoro sui tubi del combustibile. Fino a quel momento i suoi sforzi per riparare il serbatoio erano stati vanificati da un pezzo mancante. Aveva provato in diversi modi di sostituirlo, ma inutilmente.
Mi chiesi se era annoiato, e se aveva in mente di dedicarsi, con Kim, a cose assai più interessanti di un serbatoio di combustibile.
Un altro risultato di quella notte di danza era che stavamo cominciando ad abbassare la guardia l'uno con l'altro. Non andavamo più in giro a coppie, sorvegliando ogni mossa dell'altro... e nessuno sembrava preoccuparsene, e neppure farvi cenno.
So che, in retrospettiva, questo sembra sciocco. Comunque eravamo ancora, chi più chi meno, in stato di shock. Nessuno di noi pensava chiaramente, come avrebbe potuto fare in altre circostanze.
Kim e io ci guardammo a malapena, a colazione, dopo la notte nei boschi. Spilluzzicammo le ostriche e il pesce che erano diventati il nostro pasto abituale. Luke e Grace dissero che avevano visto una cerva attraversare la foresta, il giorno prima, perciò gli animali erano tornati. Ma nessuno di noi avrebbe avuto cuore di ucciderla... anche se ne avessimo avuto i mezzi. Ci fu qualche proposta scherzosa di fabbricare archi e frecce, e qualcuno disse che se fossimo stati abbastanza affamati, forse lo avremmo fatto.
In cuor suo, ognuno sperava che i soccorsi sarebbero presto arrivati, in modo da evitarci di affrontare i compiti più sgradevoli legati alla sopravvivenza. A quel punto avevamo superato il primo stadio di incredulità, poi di paura, e stavamo entrando in quello della disperazione, lo stadio in cui cominciavamo a chiederci: E se questi fossero gli ultimi giorni della nostra vita? Non dovremmo forse vivere, finché ne abbiamo la possibilità?
Questa, almeno, è la sola spiegazione che riesco a trovare per quello che accadde in seguito.
Le donne cominciarono a litigare per tutto... e specialmente per gli uomini. Ciascuna voleva l'attenzione degli uomini, il loro aiuto, la loro compagnia. Perfino Amelia e Timmy rivaleggiavano per l'affetto di Luke e Gabe, e il loro interesse non era affatto materno. Timmy cominciò a usare il fondo lucente di una pentola come specchio e ad acconciarsi i capelli, facendo scintillare al sole gli anelli di falsi brillanti. Amelia usava un approccio più intellettuale, discutendo della sua poesia con Gabe e degli aspetti tecnici della costruzione di attracchi per traghetti con Luke.
Specialmente Kim e Grace erano ai ferri corti. Grace era diventata più caustica, e se la prendeva con qualunque donna che vedeva con Luke o con Gabe. Kim aveva messo gli occhi su Gabe, o così sembrava, e lei e Grace non facevano che azzannarsi. Poiché Kim era la bella del gruppo, mi sarei aspettata che fosse più sicura di sé. Invece, ogni giorno che passava sembrava diventare più pallida e triste.
Quanto a Gabe, divideva equamente le sue attenzioni fra tutte, perfino con me. Un giorno mi trovò a frugare fra le macerie del soggiorno e mi offrì il suo aiuto. Avevo rinunciato a cercare la scatola Allegra, o il mio manoscritto e il dischetto. Ormai, sapevo che non li avrei trovati. Sapevo anche che qualcuno li aveva deliberatamente presi.
Solo, non sapevo chi.
E avevo deciso che fino a quando non l'avessi scoperto avrei fatto come Gabe, trattando tutti allo stesso modo, senza preferenze. E questo valeva anche per Luke.
Prima o poi, con un po' di fortuna, la verità sarebbe venuta a galla, come la panna. Dovevo solo sopravvivere fino a quel momento.
Il giorno in cui Gabe mi aiutò con i detriti del soggiorno, mi sentivo particolarmente vulnerabile. Mi ero ricordata che, quando si era verificato il terremoto, avevo in mano una matita con all'estremità una gomma per cancellare a forma di gatto. Me l'aveva regalata Ian, una sera in cui eravamo a letto. Una specie di scherzo.
«Sei come un gatto» aveva detto. «Non so come fai, ma cadi sempre in piedi.»
Questo era accaduto molto tempo prima dei Cinque di Seattle e della nostra rottura. Ian stava commentando la mia abilità nel vincere un caso, per quanto fosse difficile o le probabilità fossero contrarie. Avevo usato spesso la matita con quella gomma, in seguito, perché anche nei giorni peggiori, quando le cose non andavano bene, mi ricordava che ero in gamba... e anche se non mi sarei mai arricchita, come difensore d'ufficio, avrei lasciato una buona eredità.
A chi l'avrei lasciata restava tutto da vedere, visto che, a quel punto, non sembrava che avrei mai avuto dei figli. Ian non ne voleva, e di certo non c'era nessun altro in vista. Forse sarebbe potuto esserci, se avessi avuto l'energia o il tempo di guardarmi intorno. Ian non era mai stato quello che avrei definito l'uomo dei miei sogni, e spesso pensavo che avrei dovuto mettermi con qualcun altro, qualcuno che mi amasse e che volesse di più per me. Qualcuno che rispettasse il mio lavoro.
Invece, mi accontentavo di Ian, che almeno sapeva fare un buon massaggio alle spalle. Ian, che aveva detto chiaro e tondo che aveva visto troppo, e che questo non era un mondo per cui valeva la pena di avere un bambino.
Le mie opzioni erano state poche, e non piacevoli. Sarei rimasta single per sempre. O avrei sposato Ian e non avrei avuto figli.
Perciò, quel giorno, quando mi misi in testa di andare a cercare la mia gomma, non lo feci per nostalgia di Ian, ma unicamente perché avevo bisogno di qualcosa a cui aggrapparmi, qualcosa della mia vecchia vita che mi rammentasse che avevo fatto qualcosa di buono. Che anche se non avevo nessuno a cui lasciare la mia eredità, almeno avevo accettato e vinto qualche sfida.
Il soggiorno era rimasto sepolto solo per metà dal crollo dei due piani superiori, e mi aggirai lentamente per la parte rimasta sgombra. C'erano tanti libri sparpagliati sul pavimento che trovare un oggetto piccolo come una matita o una gomma sembrava un compito impossibile. Sospirai, già stanca e scoraggiata, e mi misi al lavoro.
Gabe comparve mentre cercavo di sollevare dal pavimento un pesante scaffale di quercia. Lo vidi, sulle prime, stagliato in controluce nel vano della porta. Un modo di dire, in realtà, perché non c'era più alcun vano della porta, ma solo un buco spalancato sull'esterno. Per un momento, pensai che sembrava un angelo. La luce del sole lo circondava di una specie di alone. Quando si mosse, tornò a somigliare di più a un folletto, con un sorriso sul viso.
«Aspetta» mi disse. «Lascia che ti aiuti.»
Avevo già sollevato in parte lo scaffale e lo tenevo appoggiato a una spalla, aspettando di recuperare abbastanza energie per finire il lavoro. Gabe fu accanto a me in un attimo.
«È pesante» osservò, afferrando l'altro lato del mobile e aiutandomi a rialzarlo contro la parete. «Perché non hai chiesto aiuto?»
«Vuoi dire, come tutte le altre?» osservai, caustica. «Non si può più fare qualcosa senza l'aiuto di un uomo grande e forte?»
Cominciavo a parlare come Grace, e mi morsi il labbro.
«Scusa.»
Ma Gabe si limitò a ridere.
«Credo proprio di sapere che cosa intendi dire. Ma non è affatto insolito che delle donne si affidino a un uomo, in queste circostanze. È per questo che noi uomini esistiamo, dopotutto... per fare i lavori pesanti. Ci fanno combattere le guerre, costruire ponti, scavare fossati...»
«Lo fanno anche molte donne, ormai» sottolineai.
«Certo, ma non tante quanto gli uomini. Non ancora, in ogni caso. Prova a pensarci... se non avessimo i muscoli, a che serviremmo? Le donne fanno i bambini senza gli uomini, adesso, lavorano e si mantengono da sole. Avere da sbrigare un po' di duro lavoro manuale aiuta un uomo a sentirsi importante.»
«Ah, allora è così che ti senti, con tutte quelle donne che ti coccolano» commentai. «Importante.»
Lui mi scoccò un'occhiata così intensa da darmi la pelle d'oca.
«Non dirmi che sei gelosa» ritorse.
«Neanche per sogno.»
Mi voltai verso il mucchio di libri sul pavimento e cominciai a raccoglierli, sperando di trovarvi sotto la gomma e di potermene andare. Ma sapevo di essere arrossita.
«Cerchi qualcosa in particolare?» chiese Gabe, chinandosi ad aiutarmi.
«No» mentii. «E non credo che dovresti rimettere i libri nello scaffale. Probabilmente cadrà di nuovo alla prossima scossa.»
«Giusto.» Gabe cominciò a impilare i libri contro il muro, come facevo io. «Vedi? È quello che stavo dicendo. Le donne scoprono il modo migliore di fare le cose. Noi uomini non facciamo altro che sollevare e portare, spalare e spazzare.»
Risi.
«Fammi il piacere! Ci sono una quantità di scienziati, filosofi, architetti, matematici... e ora che ci penso, anche elaborare software non è esattamente un lavoro manuale.»
«È vero. Probabilmente stavo solo cercando di...»
«Di mettermi a mio agio? Di renderti simpatico? Di lusingarmi?» Mi sedetti sui talloni e lo guardai. «Senti, non voglio offenderti. È solo che non mi piace questo approccio da Principe Azzurro. L'ultima volta che mi sono innamorata di un principe, è risultato che era il troll sotto il ponte.»
Stavolta, Gabe non rise.
«Mi dispiace molto» disse. «Sarah, sei troppo carina per farti ingannare da un troll. Che cos'è successo? Puoi dirmelo?»
«Potrei, ma non lo farò. È personale.»
«Certo che lo è, e non intendo ficcare il naso. È solo che a volte mi chiedo se tutti noi riusciremo mai...»
Gabe sospirò stancamente. Sorpresa, conclusi la frase per lui.
«Riusciremo mai ad andarcene da quest'isola? Me lo chiedo anch'io.»
«E che cosa troveremo là fuori, quando ci riusciremo?» aggiunse Gabe.
Notai che c'erano delle sottili rughe di tensione attorno ai suoi occhi, rughe che, fino ad allora, erano state celate dal modo in cui la pelle si increspava quando sorrideva.
«Non sono poi tanto diverso da tutti voi» continuò. «Mi chiedo se la mia casa è ancora in piedi. E la mia ditta. Per quello che ne so, tutta Gig Harbor potrebbe essere sott'acqua. Sarah, i segreti personali non sembrano avere molta importanza, quaggiù. Anzi, sai una cosa? Io ti dirò i miei, e tu mi dirai i tuoi. Forse, parlarne ci aiuterà.»
«Ma io non ho segreti» protestai.
«Certo che ne hai. Non l'hai notato? Tutti, qui, hanno l'aria di portarsi dietro qualcosa, come un carico terribilmente pesante sulle spalle.»
«Tu credi?»
Non gli rivelai che anch'io avevo pensato la stessa cosa.
«Non è solo che lo credo. È evidente. Tutti hanno paura di qualcosa, e non è solo il terremoto.»
«Immagino che tu dovresti saperlo, visto come stai facendo amicizia con tutti» commentai, pungente.
Gabe mi rivolse di nuovo quello sguardo intenso, e mio malgrado provai un piccolo brivido di sensualità.
«Sai come avere un certo effetto su una donna, vero?» chiesi.
«Non su di te, a quanto pare» ribatté lui, tornando a sorridere. «Ma non puoi rimproverarmi di provarci.»
«Non ti rimprovero affatto. Solo, non so se crederti.»
Gabe riprese a impilare i libri.
«Non fa niente. Mi piace pensare di essere un po' come Dio... esisto, anche se tu non credi in me. Comunque, stavo dimenticando che tu hai già qualcuno a cui rivelare i tuoi segreti.»
«Oh?»
«Luke, naturalmente. Siete vecchi amici, no?»
«Sì, ma questo non significa che ora mi senta abbastanza in intimità con lui da rivelargli dei segreti... anche se ne avessi.»
«Stai dicendo che tu e lui non avete tutto in comune, ora che siete di nuovo insieme?» scherzò Gabe.
«Non siamo di nuovo insieme... non nel senso che insinui tu. Siamo solo amici.»
«Mmh... Ora che ci penso, l'ho visto molto spesso con l'imperscrutabile Grace.»
Mi affaccendai con i libri.
«Non ne so niente.»
«Ma certo.»
A quel punto mi sedetti di nuovo sui talloni, spolverandomi le mani.
«Senti, Gabe, grazie per avermi aiutata a sollevare lo scaffale. Ma al momento non ho bisogno d'altro. Anzi, preferirei rimanere sola per un po'.»
Lui esitò, poi si alzò, pulendosi a sua volta le mani sui jeans.
«Capisco perfettamente» mormorò. «Anch'io provo il bisogno di stare solo con me stesso. Ma, Sarah...» Alzai gli occhi a guardarlo. «Mi prometti che ti rivolgerai a me, se avrai bisogno d'aiuto? Di qualunque genere?»
Esitai. Chi era Gabe per chiedergli aiuto? Che cosa sapevo di lui? E di che genere d'aiuto stava parlando?
Alla fine, dissi: «Sicuro. Ti farò dei segnali di fumo».
Lui gemette.
«Visto quell'incendio alla casa di Luke, i segnali di fumo potrebbero non essere indicati, qui. Fammi solo un fischio, okay? Sarò nelle vicinanze.»
Chissà perché, di questo ero sicura.
Fu mentre guardavo sotto una pila di riviste e documenti caduti dalla scrivania che trovai l'album di fotografie. Era un oggetto antiquato, con lettere d'oro sulla logora copertina marrone. La copertina e le pagine interne, di carta nera, erano tenute insieme da un cordoncino pure nero. Le foto erano ingiallite, qualcuna con gli angoli rotti.
Curiosa, mi sedetti sul pavimento e cominciai a sfogliarlo. Nelle prime pagine c'erano delle fotografie di Thornberry quando Timmy e suo marito l'avevano aperta, e che probabilmente avevano scattato per mandarle agli amici. Questa è la nostra meravigliosa nuova casa. Questi sono i giardini, a sinistra, e la prossima foto mostra lo stretto, che è quasi davanti alla porta.
Poi cominciarono le istantanee degli ospiti, e rimasi sorpresa di trovarmi a faccia a faccia con la mia immagine a dodici anni. Eccomi là, in un orribile costume da bagno a un solo pezzo che tre anni dopo non avrei indossato neanche morta. I capelli non avevano ancora cominciato ad arricciarsi ed erano tagliati dritti, come quelli di Giovanna d'Arco, con la frangetta.
Avevo dimenticato com'ero stata insignificante, e tutt'a un tratto ricordai di avere sentito dei ragazzi, a scuola, parlare di me: Ha una faccia da budino, aveva detto uno. Si crede chissà chi, e non è nessuno, aveva aggiunto un altro. E poi in tono cantilenante: Sarah è un barilotto, Sarah è un barilotto.
Non ero un barilotto, e quella fotografia lo dimostrava. Ma quelle parole me l'avevano fatto credere... per anni.
Buon Dio, le cose che ci feriscono nell'infanzia e che dimentichiamo. Ma fino a che punto influiscono sulla nostra personalità da adulti, senza che neppure ce ne rendiamo conto?
All'improvviso seppi perché, quando facevo ancora l'avvocato, ero stata una maniaca del trucco. Dovevo sempre assicurarmi di apparire magra ed elegante in televisione, quando prendevo parte a un processo. Guai se qualcuno di quei ragazzini di dodici anni, ora adulti, mi avesse visto nel notiziario serale e avesse ancora pensato che ero un barilotto.
Risi sommessamente, ma con una punta di sgomento al pensiero di quanto dovevo essermi data da fare, nel corso degli anni, per essere accettata dagli uomini. Che cosa non avevo fatto per trasformarmi per Luke? E poi per Ian? E in che modo questo aveva influito sul mio rapporto con loro? Ero apparsa come non del tutto reale? O peggio, come una persona che aveva dei punti vulnerabili che potevano essere usati? O anche sfruttati?
Era un pensiero troppo nuovo, e mi metteva a disagio. Lo misi da parte per un momento e guardai, invece, la foto successiva, dei miei genitori. Erano seduti vicini su un tronco rovesciato, nei boschi. Sembravano abbastanza felici. Mia madre indossava un paio di calzoncini corti e una maglietta, e le sue braccia erano magre, ma forti per tutto il giardinaggio che faceva a casa. Le dita dei piedi facevano capolino dai sandali bianchi. I capelli biondi erano naturalmente ondulati, come più tardi erano diventati anche i miei, e li portava corti.
Mio padre stava ingrigendo già allora, e si teneva un po' più rigido davanti alla macchina fotografica. Lo vedevo dal modo in cui stava seduto, con la schiena diritta, senza rilassarsi sul tronco ruvido. Doveva pungergli le gambe nude, pensai sorridendo. Non gli era mai piaciuto portare i pantaloni corti, ma lo faceva per accontentare mia madre, che lo persuadeva dicendogli scherzosamente che aveva delle belle gambe. Spesso mi chiedevo se era solo che non le piaceva dover lavare e stirare i pantaloni lunghi.
Sotto la foto c'erano i loro nomi, e dietro la data. La foto era stata scattata più o meno nello stesso periodo della mia.
Mi chiesi che cos'era accaduto fra mia madre e mio padre, fra quel tempo e l'anno in cui ne avevo diciotto e lei aveva una relazione con il padre di Luke. Aveva cominciato a sentirsi sola, con mio padre che tornava a casa dall'ufficio ogni sera solo per chiudersi nel suo studio a lavorare? E in che modo il padre di Luke aveva colmato quel vuoto?
Saltai le fotografie di altri ospiti e quelle di Timmy e suo marito che piantavano verdure biologiche e poi posavano sorridenti davanti al caminetto. Timmy aveva un mazzo di fiori di campo fra le braccia, e portava un vivace foulard a disegni indiani.
Povera Timmy, pensai, non per la prima volta. Quante perdite aveva sofferto. Prima sua figlia, poi suo marito, poi Thornberry. Che cosa avrebbe fatto, ora?
Finalmente arrivai a un'istantanea dei genitori di Luke, una sera in cui erano venuti a cena a Thornberry. Timmy invitava spesso i suoi vicini a conoscere gli ospiti della sua pensione, per offrire loro un po' di vita mondana su quella che era solo un'isola sperduta. I genitori di Luke erano venuti più di una volta.
Fissai l'immagine di Charles Randell Ford, e cercai di immaginarlo fare l'amore con mia madre. Era davvero un bell'uomo anche se, per la verità, essendo sua figlia, non riuscivo a immaginare mia madre fare l'amore con chicchessia... neppure mio padre. Il padre di Luke era tenero con lei?, mi chiesi. Le parlava di cose che la divertivano?
Era, ricordavo, più premuroso di mio padre. In quel senso, somigliava molto a Luke. In quelle lunghe giornate estive in cui sedevo in disparte e lo ascoltavo parlare con mio padre, Charles Ford di tanto in tanto mi includeva nella conversazione. Era già giudice, a quel tempo, e io mi sentivo lusingata che quel noto e rispettato magistrato di Seattle ritenesse che a quattordici, quindici anni, potevo avere un'opinione che valesse la pena di ascoltare. Ma mi interpellava, e a volte mi sfidava perfino, costringendomi a difendere le mie idee. Dopo un po', imparai a farlo senza esitazione, e probabilmente era Charles Ford che aveva foggiato l'avvocato che ero diventata, ancor più di mio padre.
Per un momento avevo perfino pensato di rivolgermi al giudice Ford, quando ero stata arrestata, in gennaio, per vedere se poteva aiutarmi in qualche modo. La sola ragione per cui non l'avevo fatto era che c'era la possibilità che fosse chiamato a giudicare il mio caso. E se gliene avessi parlato in precedenza, forse avrebbe dovuto ricusare l'incarico e affidarlo a qualcun altro.
Non volevo che accadesse. Benché non avessi rapporti personali con il padre di Luke da anni, avevo discusso alcune cause davanti a lui, di tanto in tanto, e sapevo che era un buon giudice. Duro, ma giusto. Se fosse stato assegnato al mio caso sarebbe stata una benedizione.
Sfogliai altre fotografie, e all'improvviso mi colpì l'idea che i nostri genitori, a quel tempo, dovevano essere attorno alla quarantina. Il padre di Luke era il più anziano, lo sapevo, ma non poteva avere più di quarantadue anni, allora, visto che adesso era sui sessantacinque. Quanto a mia madre, quando ero adolescente non avevo mai pensato che fosse giovane. Più giovane di quanto ero io adesso.
Vedere i miei genitori e quelli di Luke in quella luce mi apriva tutto un nuovo mondo di comprensione.
Chiusi l'album e rimasi là seduta a riflettere. La madre di Luke e mio padre adesso non c'erano più. Mia madre e suo padre si sarebbero ritrovati, come accadeva qualche volta ai fidanzatini del tempo della scuola, dopo che erano passati trenta o quarant'anni di altri amori?
Era troppo presto, probabilmente, perché mia madre ci pensasse. Mio padre era morto solo da tre mesi, e non era facile superare la perdita di un marito con cui si era vissuto per tanti anni. Avevo visto mia madre piangere, e sapevo che qualunque cosa fosse accaduta in passato, il suo dolore era reale.
Ero rimasta molto sorpresa quando, poco dopo il mio arresto, mia madre si era improvvisamente trasferita in Florida, con ben poche spiegazioni. Aveva bisogno di cambiare ambiente, aveva detto una sera. Sarebbe andata a trovare sua sorella. Il mattino dopo era già partita. Un fattorino mi aveva portato una piccola busta marrone con la chiave della mia vecchia casa e un biglietto: Sentiti libera di usare la casa. Con affetto. Mamma.
Sulle prime, ero troppo arrabbiata e ferita anche solo per pensarci. Avevo perso anche mio padre, e ne soffrivo ancora. Come poteva mia madre andarsene in quel modo? Perché non avremmo potuto aiutarci a vicenda, nel momento del dolore?
Ma poi Lonnie Mae era stata uccisa, e io mi ero gettata a capofitto nel suo caso. Avevo nascosto la prova presso Angel, e poi, per maggiore sicurezza, mi ero trasferita nella casa dei miei, che almeno aveva un sistema d'allarme.
E così, mia madre mi aveva offerto un rifugio sicuro, per un po'. E quando mi era giunto l'invito a Thornberry, l'isola mi era apparsa come un posto ancora più sicuro per nascondermi per un mese... dai Cinque, dai cronisti, dalla vita.
Sospirai. La vita purtroppo, sa sempre come scovarti, per quanto lontano tu possa fuggire.
Mi alzai, mi spolverai i jeans e misi l'album sulla pila dei libri. Per un momento pensai di mostrarlo a Luke, ma subito scartai l'idea. Troppi ricordi, troppi momenti che non potevano essere ricatturati. Come i margini sbocconcellati delle foto ingiallite, avevano fatto il loro tempo.
Più tardi, quel pomeriggio, mentre raccoglievo della lattuga nell'orto, mi ricordai di nuovo di Angel. Non avevo notizia di J.P. Blakey dal giorno in cui mi aveva rimandato la scatola Allegra, e mentre affondavo le mani nella terra scura, umida, il suo viso mi comparve davanti. Niente di misterioso come un'apparizione. Solo un breve lampo di memoria.
Angel era uno dei migliori investigatori privati che avessi mai conosciuto. Quando la scatola Allegra mi era ritornata senza neppure un biglietto da parte sua, avevo pensato che avesse avuto fretta di andare da qualche parte. Per qualche ragione, doveva avere pensato che la prova sarebbe stata meglio nelle mie mani, mentre lei era assente. Era possibile che fosse andata fuori città per un caso. O forse con il suo nuovo ragazzo di cui mi aveva parlato, quello che aveva conosciuto una sera al McCoy's. Entrambe quelle possibilità mi erano sembrate sensate, allora.
Adesso, però, mi chiedevo se sarebbe rimasta lontano dall'ufficio tanto a lungo senza contattarmi. Le telefonate alla sua segretaria, fino al giorno in cui ero partita per Esme Island, mi avevano informato soltanto che Angel era via, e che mi avrebbe chiamata al suo ritorno.
Ogni sera, prima della sua partenza, avevo aspettato con il cellulare acceso fino alle otto, l'ora consueta in cui J.P. mi chiamava. Qualche volta aveva nuove informazioni da riferirmi, altre chiacchieravamo semplicemente come amiche. Angel era la persona che mi offriva maggiore sostegno morale, a quel tempo, e non vedevo l'ora di parlare con lei. Quelle telefonate serali erano diventate un'ancora di salvezza per me. Era già tornata a Seattle, quando si era verificato il terremoto? Era ancora viva? L'avrei mai rivista?
Naturalmente non potei fare a meno di pensare che i Cinque fossero in qualche modo arrivati a lei. Che fosse stata ferita... o peggio. Ma ricordai che una sera Angel mi aveva detto: «Non preoccuparti se, di tanto in tanto, non hai mie notizie. Può darsi che debba andare fuori città per un po'».
La segretaria di Angel era la sola persona a cui avevo lasciato il numero di telefono, quando ero andata a Esme Island.
Poiché ci era stato chiesto di non portare con noi telefoni cellulari, le avevo dato il numero dell'ufficio di Thornberry, pregando Angel di chiamarmi al più presto possibile, ma non mi aveva telefonato neppure una volta, nella settimana che aveva preceduto il terremoto.
Era successo qualcosa. Ogni fibra del mio essere mi diceva che era successo qualcosa di grave.
Le foglie di lattuga scricchiolarono nella mia mano, riportandomi alla realtà. Avevo stretto il pugno, sciupando il mio raccolto. A Timmy sarebbe venuto un colpo. Ma c'erano tanti sentimenti contrastanti che si rincorrevano dentro di me, e quello che avrei voluto fare sarebbe stato correre nei boschi e urlare. Liberarmi di tutto. Tutte le paure, le sofferenze, le delusioni, a cominciare dal mio arresto in gennaio, fino al terremoto. Da allora non avevo, in pratica, avuto un momento di solitudine per lasciarmi andare, un momento in cui non dovessi cercare di essere forte per tutti gli altri.
Sarebbe stato più facile se non ci fossero stati Luke e Gabe, pensai. Ero una donna competente, indipendente, abituata a gestire la mia vita e a risolvere i miei problemi. Ora, tutt'a un tratto, volevo appoggiarmi a un uomo... qualunque uomo. Era sciocco, lo sapevo, ma l'impulso persisteva. Volevo raccontare a Luke, in particolare, tutto quello che mi era successo, rispondere a tutte le sue domande. Volevo parlargli della mia prova contro i Cinque di Seattle, e di Angel. Più di tutto volevo chiedere il suo aiuto per ritrovare la scatola Allegra e tenerla al sicuro. E volevo che mi aiutasse a scoprire chi aveva preso il manoscritto e il dischetto.
Il fatto che non mi fidassi abbastanza di Luke mi faceva sentire ancora più sola che se lui non fosse mai comparso sull'isola.
Quanto a Gabe, quale di noi non avrebbe voluto cadere vittima dei suoi modi accattivanti? A chi non sarebbe piaciuto accettare tutto l'aiuto che aveva da offrire, e concedersi il lusso di appoggiarsi per un po'? Eravamo passate tutte attraverso un'esperienza terrificante e faticosa, e nessuna di noi era così sicura di se stessa e della vita com'era stata in precedenza.
Soffrivamo tutte della sindrome tipica dei sopravvissuti a un terremoto: eravamo sempre sul chi vive, costantemente in attesa di un nuovo pericolo. Nel momento in cui la terra cominciava a tremare di nuovo per una scossa di assestamento, anche la più leggera, balzavamo in piedi e cercavamo il tavolo più vicino sotto cui strisciare. La notte avevamo difficoltà a dormire. Dicevamo a noi stesse e alle altre che dovevamo stare all'erta nel caso in cui il terremoto fosse stato solo una scossa preliminare, e il peggio dovesse ancora venire.
In breve, avevamo i nervi a pezzi, e i soccorsi in cui avevamo sperato erano ancora un sogno lontano. Ora, sapevamo che era possibile che dovessimo sopravvivere sull'isola... e subire la reciproca compagnia... per molti giorni. Forse perfino per settimane.
Se avessimo avuto notizie dal mondo esterno, qualunque notizia, forse non sarebbe stato così brutto. Invece, potevamo parlare e scambiarci idee solo fra noi, e tendevamo a deprimerci a vicenda. Quello era un altro effetto del terremoto: una profonda depressione. Avevamo superato lo stadio dello shock iniziale ed eravamo passate a quello della rabbia. Ora, alle prese con la nostra impotenza, avevamo perso lo spirito combattivo.
Credo che sia stato questo, soprattutto, a portare alla cosa terribile che abbiamo fatto.
Come ho detto, tutto cominciò con la sera della danza e con tutte le emozioni che suscitò. La reciproca ostilità fra le altre donne cresceva di giorno in giorno. Ben presto cominciarono a litigare apertamente, e avevo il mio bel daffare a tenerle separate.
Onestamente, non potrei dire perché non ero finita come loro. Mi colpì il pensiero che dovevo ringraziare Ian per questo perché, semplicemente, non ero interessata agli uomini. Oh, provavo dei sentimenti, come tutte le altre. Specialmente per Luke... e di quando in quando anche per Gabe. Ma il mio intelletto li teneva a bada, e riuscivo a rammentarmi che ero stata ferita. Quello non era il momento di lasciarmi di nuovo coinvolgere, ma piuttosto di essere cauta. Di proteggermi. E in qualche modo riuscii ad attenermi a questa regola.
Non c'era più molto da fare, dopo i primi giorni, e questo non ci aiutava. Benché fosse vero che pescare e raccogliere ostriche richiedeva tempo, in realtà era più semplice e rapido che andare in macchina a un moderno supermercato, riempire un carrello, tornare a casa e riporre tutto.
Quanto al bucato, avevamo imparato a portare gli indumenti almeno per un paio di giorni. Quando ne avevamo abbastanza, andavamo alla spiaggia e lavavamo un capo alla volta, mettendolo ad asciugare sui cespugli. Quando pioveva, li stendevamo in casa, su una corda che Luke aveva teso in cucina.
I progetti per sgomberare dalle macerie Thornberry e i cottage erano presto sfumati, a mano a mano che la fame e la stanchezza diventavano l'elemento dominante delle nostre giornate. Facevamo un po' di quel lavoro, ma non quanto avevamo previsto in origine. Fare a meno delle necessità della vita si dimostrava più difficile di quanto avevamo pensato, e una parte preponderante era senza dubbio quella connessione corpo-mente di cui parlano gli scienziati. Una volta che la depressione si fu impadronita di noi, non potevamo più convincerci che stavamo bene, quando era chiaro che non era vero. Non stavamo partecipando a un avventuroso campeggio, con un comodo letto e un frigorifero pieno ad aspettarci a casa. Potevamo addirittura, come Grace sottolineò una sera, morire su Esme Island.
Fu a causa dei battibecchi e dei litigi fra le altre donne che la quinta sera lasciai Thornberry e me ne andai nei boschi per stare sola. Tutti gli altri erano in cucina, compresi Luke e Gabe, a partecipare a un gioco che Dana aveva inventato con dei sassi che aveva preso dal sentiero di ghiaia. Dana, perlomeno, ci provava.
Ma quando i giocatori cominciarono a litigare su chi aveva più sassi, e se qualcuno aveva barato, anche Dana perse la pazienza, balzò in piedi e spazzò via tutti i sassi dal tavolo.
«Per l'amor del cielo, volete una buona volta comportarvi da adulti?» gridò.
Seguì solo un momento di silenzio, prima che tutti cominciassero a sbraitare che era lei che si comportava come una bambina di tre anni, e che cosa diavolo credeva di fare, gettando a terra tutti i loro sassi?
Fu a quel punto che mi scusai e uscii, dicendo che sarei tornata di lì a pochi minuti. Presi una torcia elettrica e sperai che se qualcuno lo avesse notato, avrebbe pensato che andavo alla latrina. Non che avrebbero sentito la mia mancanza, con tutti quei battibecchi in corso.
Mi incamminai lungo la spiaggia, grata per la luna piena e il cielo sereno. L'acqua si increspava leggermente, lambendomi a volte gli stivali. Non c'era stato alcun segno di un maremoto, il che era stato un sollievo per tutti, e le scosse di assestamento non avevano causato altri danni, dopo i primi giorni. Almeno, nessuno di cui ci fossimo accorti.
Persi la nozione del tempo, e rimasi sorpresa quando mi trovai al pontile di Ransford. Guardando verso la casa, rimasi ancora più sorpresa di vedere che il fuoco aveva lasciato solo un nudo scheletro. Era la prima volta che tornavo là, dopo la sera dell'incendio, e non avevo insistito con Luke per avere i particolari.
Che peccato, pensai. Quella bellissima casa, scomparsa per sempre. Ero relativamente certa che Luke non l'avrebbe ricostruita, se viaggiava così spesso. Era più probabile che costruisse un piccolo capanno, dove rifugiarsi nei finesettimana quando lavorava nei dintorni di Seattle. A Luke era sempre piaciuta l'idea di avere un luogo in cui stare lontano da tutto, e a volte citava Thoreau: Semplificare, semplificare, semplificare.
Aveva ammirato Thoreau e il modo in cui lo scrittore era andato in prigione piuttosto che pagare le tasse a un governo che, a suo modo di vedere, commetteva un olocausto sul suo stesso territorio contro i nativi. Luke aveva immaginato per sé un piccolo capanno, un giorno, non una casa lussuosa come quella dei suoi. Il suo capanno, diceva, avrebbe avuto giusto lo spazio sufficiente per leggere e contemplare.
Mi hanno sempre incuriosita gli uomini che immaginano uno stile di vita di questo tipo, che non include una donna, e poi si chiedono perché non hanno una donna.
Imboccai il sentiero che conduceva alla casa e mi fermai sul margine dell'area dell'incendio, cercando di immaginare Jane che lo appiccava. Mi sforzai di sentire il suo disperato desiderio di essere soccorsa, di essere riunita ai suoi bambini.
Non provai nulla. Non avevo conosciuto Jane abbastanza bene, così come non conoscevo suo marito e i suoi figli. Non sapevo neppure cosa significasse preoccuparsi per un bambino. Non ce n'era mai stato uno nella mia vita.
A dieci anni avevo un cane, una femmina bianca dal pelo lungo e morbido. Si chiamava Tufts. Era stata la mia compagna fissa per almeno un anno, e aveva corrisposto in tutto alle promesse della donna che l'aveva allevata: era affettuosa e divertente. Anzi, Tufts mi dava più affetto di quanto ne ricevessi dai miei genitori, per quanto facessero del loro meglio. Ci provavano, senza dubbio.
Un giorno Tufts uscì di casa e fu investita da una macchina. Ricordo di essermi inginocchiata accanto a lei per accertarmi della gravità delle molte ferite. Ascoltai il suo respiro rantolante e seppi che le restava solo qualche minuto. Non potevo sopportare le sofferenze che doveva provare, così mi chinai al suo orecchio e sussurrai: «Lasciati andare, Tufts. Lasciati andare».
Come se capisse quello che dicevo, Tufts morì fra le mie braccia, e quella fu la mia prima lezione sulla morte. Quando era inevitabile, la sola cosa che restava era smettere di lottare. Questo era vero per il morente e anche per chi sopravviveva, e avevo fatto del mio meglio. C'erano ancora momenti in cui desideravo disperatamente un altro cane. Proprio come c'erano dei momenti in cui desideravo un altro uomo.
Non so che cosa mi spinse a girare intorno a Ransford e a inoltrarmi nei boschi, nella direzione che Luke aveva preso la sera dell'incendio. Comunque trovai un sentiero, sul margine del prato sul retro. Era quasi nascosto da due enormi massi e da fitti cespugli. Incuriosita, lo seguii, per nessun altro motivo che vedere dove conduceva, e continuai a camminare... per togliermi le ragnatele dal cervello.
Il sentiero era stretto e tortuoso. Conduceva a una parte della foresta che non avevo mai esplorato, e gli alberi diventavano sempre più fitti, e la notte più buia, quando la luna non riusciva a penetrare fra i rami per guidare il mio cammino. Usai la torcia elettrica per vedere dove mettevo i piedi, perché il sentiero era ingombro di vegetazione. C'erano radici contorte che affioravano dal terreno e vecchi ceppi di alberi morti comparivano proprio in mezzo al sentiero. Anche con la torcia elettrica era un percorso a ostacoli, e dovevo stare attenta a non inciampare e cadere. La mia passeggiata stava diventando sempre meno divertente, e presi in considerazione l'idea di girare sui tacchi e tornare da dov'ero venuta. Ancora solo qualche metro, mi dissi. Vediamo che cosa c'è più avanti.
Ero sul sentiero forse da dieci minuti quando sentii, dietro di me, un rumore di rami spezzati. Mi voltai diverse volte a guardare. Qualcuno mi aveva seguita da Thornberry? Mi stavano cercando?
Puntai la torcia elettrica sul sentiero, ma non vidi nessuno.
«Ehi!» chiamai. «Chi c'è laggiù?»
Nessuna risposta.
Era forse solo un cervo spaventato dalla mia presenza? Dovevano essersi rifugiati in luoghi disabitati come quello, dopo il terremoto.
Comunque, sapevo che di solito i cervi di Esme Island si immobilizzavano, in presenza di un intruso. Poiché la caccia non era mai stata permessa sull'isola, non avevano motivo di temere l'uomo, e rimanevano fermi per alcuni momenti, studiando la situazione. Se l'intruso si avvicinava, indietreggiavano lentamente, fino a quando non riuscivano a nascondersi fra la vegetazione.
Quel rumore era più regolare di quello di un cervo. Si fermava quando mi fermavo io, e ricominciava quando facevo un altro passo. Per la prima volta in vita mia ebbi paura nei boschi di Esme Island. Dopo avere considerato per tanti anni quegli alti alberi e quei boschi ombrosi come miei amici, miei compagni tanto nella solitudine quanto nell'amore, ora mi sentivo circondata da pericoli.
Accelerai il passo, pensando che quel sentiero doveva senza dubbio portare alla costa, che doveva essere un vecchio percorso usato per trasportare le provviste dal traghetto. Su un'isola non ci sono molti posti dove andare, e alla fine tutti i sentieri conducono al mare.
Irrazionalmente, pensavo che, una volta raggiunta l'acqua, sarei stata al sicuro. Non so per quale ragione pensassi una cosa simile, perché la verità era che sarei stata in trappola. Ma quando affrettai il passo, anche i suoni dietro di me accelerarono, e all'improvviso seppi con certezza di essere seguita.
A quel punto io non mi fermai più a guardare indietro. Se Luke, o anche Grace, avessero deciso di seguirmi fin laggiù, ragionai, di certo mi avrebbero chiamata, non avrebbero cercato di nascondere la loro presenza.
O sì? L'immagine di Jane sull'orlo di quel precipizio mi si affacciò alla mente, togliendomi il respiro e quasi paralizzandomi le gambe per la paura. Non sarei dovuta venire quaggiù da sola... avremmo dovuto attenerci al piano di andare sempre in giro in coppia. Che cosa mi è saltato in mente?
Cercai un sentiero laterale, un posto in cui nascondermi. Chiunque mi seguisse aveva a sua volta affrettato il passo, ma se non avesse potuto vedermi, dietro una curva, se fossi riuscita a tuffarmi da una parte senza che se ne rendesse conto, forse avrebbe pensato che avevo proseguito diritto. Sarei potuta perfino riuscire a vederlo mentre passava.
Ma non c'era alcuna deviazione, alcun posto in cui nascondersi. Gli abeti e i cespugli ai lati del sentiero formavano un fitto muro. Spensi la torcia e mi misi a correre. I rumori alle mie spalle mi dissero che anche l'altra persona stava correndo, senza più cercare di nascondere la sua presenza. I rami mi frustavano il viso e inciampai diverse volte. Sapevo che se fossi caduta e non mi fossi rialzata immediatamente l'inseguitore mi sarebbe stato addosso.
Corsi sempre più velocemente, riuscendo in qualche modo quasi a volare sopra gli ostacoli. Sembrava che quel sentiero non finisse mai, e all'improvviso mi resi conto che dovevo correre parallelamente alla costa, non in direzione del mare. Stavo andando verso est, o verso sud, non verso nord. Non c'era niente da quella parte, niente a parte altri boschi.
Ne ero così sicura che rimasi sbalordita quando il sentiero si biforcò. Quello che piegava a sinistra era così ben nascosto che quasi gli passai davanti senza vederlo. Svoltai all'ultimo momento, sperando che il rumore che facevo nel sottobosco sembrasse provenire dal sentiero a destra. La mia sorpresa fu ancora più grande quando, pochi momenti dopo, mi comparve davanti una radura. La luna la illuminava in pieno, e al centro potei vedere un piccolo capanno. Era costruito con un legno che sembrava relativamente nuovo, e appariva molto diverso dagli altri capanni dell'isola. C'era una finestra da ciascun lato della porta, ma nessuna luce proveniva dall'interno.
Non avevo mai saputo che ci fosse un capanno, laggiù, ed ero sbalordita.
Mentre mi avvicinavo, mi accorsi che i rumori dietro di me erano cessati dopo che avevo imboccato la deviazione. Tuttavia, non potevo fidarmi che il mio inseguitore non tornasse indietro e venisse da quella parte. Corsi silenziosamente sull'erba verso il capanno, pensando che se fossi riuscita a entrare forse avrei potuto chiudermi la porta alle spalle. Dentro poteva perfino esserci qualcosa che avrei potuto usare per difendermi. Prima o poi qualcuno, a Thornberry, si sarebbe accorto della mia prolungata assenza e sarebbe venuto a cercarmi.
Alla porta, toccai la maniglia, poi esitai, chiedendomi se poteva esserci qualcuno all'interno. Per quanto ne sapevamo, non c'era nessun altro sull'isola. Ma che cosa ne sapevamo, in realtà? Prima era comparso Luke, poi Gabe. C'era qualcun altro che non si era disturbato a trovare la strada fino alla nostra porta? O qualcuno che si nascondeva deliberatamente?
A quel punto, non aveva molta importanza. Avevo bisogno di un posto in cui nascondermi per un po', per riflettere. Girai la maniglia, spinsi la porta ed entrai. Era tutto buio, e mi resi conto che la luce della luna non penetrava nel capanno. Tastai dietro di me in cerca di un chiavistello, e non lo trovai. Colta dal panico, pensai che dovevo spingere qualcosa contro la porta. Ma che cosa? Non osavo arrischiarmi a usare la torcia elettrica, denunciando così la mia presenza al mio inseguitore.
Rimasi là per un momento, in ascolto. Niente. Nessun rumore di passi sull'erba, nessun suono, a parte il mio respiro affannoso. Allungai le mani nel buio in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa, per bloccare la porta.
La mia mano toccò un corpo umano. Delle dita si chiusero attorno al mio polso. Fu allora che seppi che il respiro affannoso non era solo il mio.
In qualche modo il mio inseguitore era arrivato là prima di me.
Aprii la bocca per urlare, ma non ne ebbi il tempo. Una mano robusta scese bruscamente a tapparmela.