8

Giungemmo a Thornberry poco prima dell'ora di cena, e Dana e Kim portarono Luke in quello che restava della casa per mostrargli i danni. Grace e io scoprimmo che Timmy e Amelia erano riuscite a ripulire dai detriti gran parte della cucina. Avevano perfino dissotterrato il lungo tavolo di legno e le panche erano di nuovo al loro posto, ai due lati. In mezzo al tavolo c'era un mazzo di asfodeli del giardino, un toccante monito a ricordare che qualcosa era sopravvissuto. Accanto c'erano delle candele.

«Abbiamo liberato dalle macerie anche il generatore» annunciò Timmy, visibilmente fiera del lavoro fatto durante la nostra assenza.

«Però non siamo riuscite a farlo funzionare» aggiunse Amelia. «Sembra pieno di combustibile, perciò dev'essere danneggiato, in qualche modo.»

Si ravviò i capelli grigi, che il sudore le incollava alla fronte. Le braccia erano sudice, e sia lei sia Timmy erano impolverate e con gli indumenti in disordine. Tuttavia sembravano rinvigorite dalla giornata di lavoro.

«Abbiamo pensato che potevamo usare il combustibile» continuò Amelia. «Ma non siamo riuscite a estrarlo. C'è un dispositivo antifurto che lo impedisce.»

«Tenevi il combustibile sotto chiave perché nessuno potesse rubarlo?» chiese Grace a Timmy, scuotendo la testa. «Qui?»

Timothea aprì la bocca per rispondere, ma Amelia la precedette, sulla difensiva.

«Non sapeva dell'antifurto! Non ha certo ordinato di proposito quel tipo di serbatoio.»

«E allora, perché non ha fatto togliere quel maledetto coso?» Grace allargò le braccia. «Oh, non importa. Niente ha senso, in questo posto.»

«E neppure tutti hanno il denaro che apparentemente hai tu per assumere del personale...» cominciò Amelia.

Timmy la interruppe.

«Zitta! Non sono affari suoi.»

«Proprio così, signora mia» affermò Grace, e se ne andò.

«Timmy?» chiesi io. «Hai qualche tipo di problema?»

Timothea, Amelia e io eravamo rimaste sole in cucina. Grace aveva raggiunto Dana, Kim e Luke in quello che restava del soggiorno. La mia domanda era dettata solo dalla preoccupazione per un'amica. Non avevo intenzione di ficcare il naso in ciò che non mi riguardava. Tuttavia, lei strinse le labbra e si allontanò.

Guardai Amelia che, seduta al tavolo, si passava stancamente una mano sugli occhi. Dopo il terremoto, sembrava che moderasse le sue risposte aspre. Anzi, tutte noi, a eccezione di Grace, avevamo perso la reciproca irritabilità iniziale. C'erano altre cose di cui preoccuparci.

«Che cosa sta succedendo?» chiesi.

«Timmy è praticamente senza un soldo» rispose Amelia sospirando. «Mi odierebbe se sapesse che te l'ho detto, ma è la verità, e deve guardarla in faccia.»

«Non capisco» mormorai, sedendomi di fronte a lei.

«Questo posto non rende nulla da anni. Per un po' ha tirato avanti coi suoi risparmi, poi c'è stato il denaro dell'assicurazione, dopo la morte di John. Ma ora è finito. Non hai idea di cosa sia stata obbligata a fare, del modo in cui è dovuta vivere.»

«Non lo avrei mai pensato» borbottai. «Il modo in cui veste, gli anelli di brillanti...»

«Gli abiti sono classici, non passano mai di moda. Gli anelli? Falsi. Ha venduto tutti i gioielli mesi fa.»

«Ma questo posto... il vitto e alloggio gratis, tutti i piccoli tocchi di lusso...»

Una nuova miglioria, da quando ero stata là durante l'adolescenza, era il capanno da bagno annidato nei boschi, con le finestre di vetri colorati e le piastrelle blu mare. Benché avessimo gabinetti e lavabi nei nostri cottage, il capanno, con le sue docce e le vasche con le zampe di leone, era a disposizione di tutte noi. Adesso era in rovina, come i cottage, ma prima del terremoto potevamo fare la doccia circondate da alberi, uccelli e perfino cervi. Timmy non aveva badato a spese per fare sentire le sue ospiti a proprio agio.

«La pensione non è stata del tutto gratuita, finora» spiegò Amelia. «Di solito gli ospiti pagano. Le entrate non coprono tutto, però, e io ho aiutato Timmy con le spese.» Amelia scosse la testa. «Non fraintendermi, non mi dispiace. Timmy e io siamo amiche da sempre. Ma anch'io sono alle fine delle mie risorse. La verità è che sarà costretta a chiudere. Ed è questo che non vuole accettare.»

«Mi dispiace tanto. Non ne avevo idea.»

«Be', non vuole crederlo neppure lei, maledizione! Pensavo di averla convinta a chiudere, il mese scorso. E poi, all'improvviso, ecco che invita gente a destra e a sinistra, tutta eccitata come se niente fosse mai andato storto.»

«Invita gente... intendi dire, noi?»

«Be', sì. Senza offesa, ma non ho la più vaga idea di come pagherà i conti, questo mese. Le ho detto che stavolta non avrei potuto aiutarla, e lei ha risposto che non c'era problema, che aveva trovato un finanziatore.»

«Un finanziatore? Chi?»

Amelia scosse la testa.

«È questo che mi preoccupa. Non si confida più con me, ultimamente.»

«Dovrei parlarle» dissi. «Forse posso aiutarla, in qualche modo. Sai come si è cacciata in questo pasticcio?»

«Spendendo troppo» rispose Amelia. «Timmy ama gestire questo posto, ama aiutare i nuovi scrittori.»

«Lo so, è sempre stata così. Ma non poteva ridurre le spese, o anche far pagare di più per la pensione? Non è obbligata a fare tutto da sola.»

«È proprio questo il punto. Timmy pensa di sì. Preferirebbe morire piuttosto che ammettere che non ce la fa da sola.»

«Ma non ce la fa... visto che accetta il tuo aiuto.»

Amelia si strinse nelle spalle.

«È diverso. Timmy e io siamo amiche, e probabilmente sono la sola persona di cui continua a fidarsi... anche se a volte mi chiedo se questo è ancora vero.»

Luke, Dana, Grace e Kim rientrarono in cucina, e di lì a poco Timmy ci raggiunse. Sia lei, sia Amelia furono sollevate di sapere che avevamo trovato Ransford con il tetto ancora intatto, e fu contenta di vedere Luke. I due parlarono per qualche minuto in privato, in disparte.

Noi ci riunimmo attorno al tavolo, e Amelia si pulì le mani nel grembiule che aveva recuperato sotto le macerie.

«Volevo farvi una sorpresa con un pasto caldo» disse in tono di scusa. «Mi dispiaceva pensare che, dopo essere state in mezzo a quella tempesta, avreste trovato per cena piselli in scatola e carote crude... ma è tutto quello che siamo riuscite a trovare, per ora.»

Ci mise davanti piatti di verdure fredde. I piatti, in realtà, erano tovaglioli da cui aveva scrollato via la polvere. I veri piatti, ci spiegò, erano andati rotti fino all'ultimo. Solo alcune tazze si erano salvate.

«Non avrei mai creduto che sarebbe successa una cosa simile. Porcellane e ceramiche, le migliori e le più vecchie, tutte in frantumi.»

«Non preoccuparti» la consolai. «Non appena ci saremo ristorati torneremo tutti a Ransford. Dovremo portare con noi tutto quello che abbiamo recuperato qui, ma possiamo farcela. E abbiamo Luke per aiutarci.»

Lo guardai, e lui annuì.

«Fatemi dare un'occhiata anche al generatore» disse. «Forse riuscirò a capire come escludere il congegno antifurto, e potremo estrarre un po' di combustibile da usare nel generatore di casa mia.»

«Ti aiuto io» si offrì Dana. «Sono una specie di meccanico. Una volta ho riparato il tostapane, a casa.»

«Io so cambiare le candele a un'auto» affermò Kim. «Purtroppo, è tutto quello che so fare, e le nostre macchine sono dove le abbiamo lasciate, all'imbarco del traghetto a Seattle. Probabilmente sotto le macerie, adesso.»

«Tu non dovresti preoccuparti» dichiarò Grace, ostile come al solito. «Probabilmente manderanno un elicottero a cercarti.»

«Puoi scordarti che dia un passaggio a te, se sarà così» ritorse Kim.

Amelia mi guardò.

«Sono andate avanti in questo modo per tutto il giorno?»

«Inseparabili» risposi.

«Ora che ci penso, dov'è Jane?» chiese Timmy, guardandosi attorno. «Dove avevo la testa? Mi sono accorta solo adesso che non è qui.»

«Abbiamo dovuto lasciarla a Ransford» spiegai. «Aveva paura a tornare qui, fra le scosse di assestamento e la tempesta.»

«Come sta?»

«È preoccupata per i suoi bambini. Credo che starà bene, una volta che avremo notizie e saprà che sono sani e salvi.»

«Purché abbiamo notizie» disse Timmy, dubbiosa. «Odio pensare...» Si interruppe, vedendo le nostre facce. «Scusate. Dobbiamo sforzarci di conservare l'ottimismo... qualunque cosa accada.»

Rise. Una risata breve, nervosa, mentre si ravviava con la mano i capelli bianchi. L'anello di brillanti scintillò, come se fosse autentico.

Finimmo di cenare alle sei, e visto che la pioggia era cessata decidemmo di approfittare della luce rimanente per riesaminare ancora una volta i rispettivi cottage. Speravamo di trovare qualche oggetto personale, gli spazzolini da denti, soprattutto, e indumenti e scarpe pesanti.

Ci accordammo per ritrovarci alla casa entro un'ora, e poi partire per Ransford insieme. Se, trascorsa l'ora, non tutte fossimo state di ritorno, Amelia avrebbe lanciato un segnale con uno dei corni per la nebbia che avevamo trovato fra i resti di Thornberry. Così saremmo potute partire tutte assieme, nello stesso momento. Nel frattempo Luke avrebbe lavorato al generatore. Ringraziando Dana e Kim per la loro offerta d'aiuto, aveva detto sorridendo che era relativamente certo di non trovare né un tostapane né delle candele, là fuori.

Mentre noi eravamo a Ransford, Timmy e Amelia si erano assunte anche il compito più difficile, quello di seppellire Lucy. Nessuno parlò del cumulo di terra nel giardino, anche se si poteva vedere attraverso il buco nella parete che un tempo era stato la finestra di cucina.

«Non siamo riuscite a scavare una fossa molto profonda» aveva detto Timmy in tono di scusa. «Non ne abbiamo avuto la forza.»

«Basterà, per ora» l'aveva rassicurata Amelia.

Le due donne avevano trovato nei boschi dei fiori selvatici e li avevano piantati sulla tomba. Timmy aveva anche foggiato una piccola croce con due pezzi di legno.

«Lucy non era molto religiosa, ma aveva un cuore buono» disse, con le lacrime agli occhi. «Non credo che una croce e qualche preghiera possano fare male.»

Ne convenni, e sulla via del mio cottage mi fermai presso il cumulo di terra per dire una breve preghiera. Dana e Kim mi seguirono e si fermarono accanto a me. Grace si tenne a qualche metro di distanza, osservandoci, ma senza fare i suoi soliti, acidi commenti.

Fui contenta quando ci separammo, ciascuna diretta al proprio cottage. Non avevo avuto un momento di solitudine dalla sera prima, e i miei nervi erano scoperti. Affrettandomi lungo il sentiero, cercai di non pensare alla teoria di Dana a proposito degli spiriti degli indiani morti che abitavano attorno a Thornberry.

Ma c'era ben altro di cui preoccuparsi. In particolare, dovevo trovare la scatola di metallo che avevo portato con me a Thornberry. Lunga solo una ventina di centimetri, larga poco più di dieci e alta due o tre, somigliava a un grosso portacipria. L'avevo portata là con me nella borsa, e poi attaccata con il nastro adesivo sul fondo di un cassetto della scrivania. Quella mattina ero stata colta dal panico quando non ero riuscita a trovarla. D'altra parte era stato come cercare un ago in un pagliaio, fra tutte quelle macerie.

Dev'essere qui, mi ripetevo. Dev'essere caduta, ed è sepolta sotto gli oggetti pesanti che non sono riuscita a smuovere stamattina.

Stavolta li sollevai, aiutata dalla stessa adrenalina che, si dice, consente a una madre di soccorrere il figlio intrappolato sotto una macchina. Gettando da parte sedie imbottite e tavolini come se fossero piume, frugai fra i detriti, affrettandomi per precedere l'oscurità incipiente.

Questi tre mesi non possono essere stati inutili. Se ho perso quella prova, anch'io sono perduta.

La scatola di metallo conteneva le calze a rete di Lonnie Mae. Sulle prime le avevo date alla mia amica, J.P. Poi avevo incaricato J.P., Judith Patrice, un nome che non usava mai, di investigare sui Cinque di Seattle, per vedere di scoprire qualcosa che si potesse usare contro di loro in tribunale. Altri stupri, magari. Qualunque cosa che potesse macchiare la loro reputazione.

La mia idea era che, a meno che le indagini dei vigili del fuoco non scoprissero qualcosa di sospetto circa l'incendio nel palazzo di Lonnie Mae, qualcosa che portasse ai Cinque di Seattle come gli assassini di Lonnie Mae e delle altre persone che si trovavano nell'edificio quella notte, non avevo molte possibilità di inchiodarli per qualcosa di più grave dello stupro. E conoscendo le miti condanne che potevano riportare per avere stuprato una prostituta, specie una che non era più in vita per poter dire la sua, volevo molto di più. Volevo che quei bastardi fossero schiacciati, tolti di mezzo per sempre.

Così assunsi J.P., e per essere certa che le calze fossero protette, lei le aveva nascoste nell'ufficio del suo commercialista. I Cinque di Seattle, speravamo, neppure in un milione di anni avrebbero pensato di cercarle là.

Tenere nascosta al tribunale una prova così importante non era certo il modo migliore di agire, ed ero sicura che mi sarei trovata nei guai, quando tutto fosse finito. Però, con un po' di fortuna, non sarei stata eliminata.

Poi, parecchi giorni prima di venire a Thornberry, avevo aperto un'anonima busta marrone nella posta e vi avevo trovato dentro le calze. Non c'erano né un mittente né un biglietto di spiegazioni. Cercai di raggiungere J.P., ma dal suo ufficio seppi solo che era via. Le lasciai dei messaggi, ma non mi richiamò.

J.P. non era il tipo da ignorare un cliente, o un'amica, senza una buona ragione. Cominciai a preoccuparmi, e tentai di rassicurarmi dicendomi che stava semplicemente seguendo qualche pista. Non aveva avuto il tempo di scrivere un biglietto, ma mi aveva mandato le calze pensando che potessi averne bisogno prima del suo ritorno. Di sicuro io non avrei potuto presentarmi nell'ufficio del suo commercialista e chiederle, perciò c'era una logica.

Alla fine, decisi di non fare nulla e di aspettare. Qualunque cosa avessi detto alla polizia, a quel punto, avrebbe solo potuto complicare le cose per lei. J.P. era in gamba. Era dura. Sapeva badare a se stessa.

Non che, a vederla, lo si sarebbe detto. Un metro e sessanta, con lunghi capelli biondo miele e occhi blu cielo, J.P. aveva l'aspetto di un angelo. Spesso, infatti, colleghi e amici la chiamavano Angel. L'avevo conosciuta quattro anni prima, quando lavorava a un caso per un cliente che avevo difeso. C'erano pochi fondi per indagare sui reati attribuiti a coloro che avevano bisogno di un avvocato d'ufficio, ma J.P. aveva lavorato gratis... cosa che faceva regolarmente. Una volta sua madre era stata condannata come taccheggiatrice, e senza il denaro necessario per dimostrare la sua innocenza era rimasta in prigione per novanta giorni. J.P. aveva dodici anni, all'epoca, e aveva giurato che, da grande, avrebbe scelto un lavoro che le consentisse di aiutare coloro che erano innocenti, come sua madre.

Angel... una donna che, in effetti, era uno di quelli che chiamiamo gli angeli fra noi.

Con queste premesse, sapevo che non sarebbe mai scomparsa in quel modo senza una buona ragione. Eppure, quando mi rimandò quelle calze a rete, provai un sinistro presentimento. Qualcosa mi diceva che dovevo metterle al sicuro... e in fretta.

Avevo trovato la scatola di metallo nell'ufficio di mio padre. Lui la usava per portare con sé i suoi sigari quando era in viaggio, ed era dove l'aveva sempre tenuta, nel cassetto della scrivania. D'argento massiccio, recava incisa in oro sul coperchio la scritta Allegra, e quando, anni prima, gli avevo chiesto che cosa significasse, lui aveva risposto che non lo sapeva. Aveva trovato la scatola in un negozio di antichità. Incuriosita dalla storia sconosciuta dell'oggetto, da allora l'avevo chiamata la scatola Allegra, inventando storie in cui era appartenuta all'amante di un uomo ricco o a una cortigiana regale.

Quel giorno vi avevo ficcato dentro le calze, ancora nel loro sacchetto di plastica. Poi, avevo infilato la scatola sotto un angolo sollevato della moquette nello studio di mio padre e l'avevo incollata di nuovo. L'avrei fatto fin dall'inizio, se non avessi temuto che potesse succedermi qualcosa, nonostante la mia minaccia a Mike Murty. Se fossi stata assassinata, o fossi morta in un incidente, era possibile che le autorità perquisissero la casa da cima a fondo, e che la prova fosse trovata. Dopo, poteva essere fatta sparire anche troppo facilmente.

So che tutto questo sembra paranoia. Ma era il modo in cui ero arrivata a ragionare. Alla fine, avevo portato la scatola Allegra con me a Thornberry, nel caso in cui i Cinque si introducessero in casa dei miei e la perquisissero mentre ero via. Avevo attaccato la scatola con il nastro adesivo sotto quel cassetto della scrivania. Non era il modo più astuto per nasconderla, ma dopotutto perché qualcuno, su quell'isola remota, avrebbe dovuto cercarla? Non ero ancora al punto di sospettare di chiunque.

Continuando le mie ricerche fra le macerie del cottage, tuttavia, non ne ero più così sicura. Anche le pagine del mio manoscritto sembravano sparite.

Sulle prime, non avevo pensato a cercare il manoscritto. C'erano fogli di tutti i tipi sparpagliati sul pavimento, quella mattina, e avevo dato per scontato che sarebbe bastato raccoglierli e rimetterli in ordine, quando ne avessi avuto il tempo. Ora vidi che i fogli caduti erano bianchi, nuovi.

Per settimane le pagine del manoscritto si erano accumulate formando una pila accanto al computer, a casa. Poi, quella settimana, le avevo messe in una scatola vicino al portatile, lì a Thornberry. Ogni giorno la pila diventava più alta, e con ogni pagina cresceva anche il mio morale. Ero sempre più vicina a rendere pubblica la mia storia, a inchiodare non solo i Cinque di Seattle, ma anche poliziotti corrotti da New York fino a Los Angeles. Le mie ricerche mi avevano portata a scoprire più di quanto avessi sperato: nuovi particolari sui problemi nella Rampart Division di Los Angeles, l'uccisione di neri disarmati da parte della polizia di New York e consimili abusi di autorità in tutto il paese.

Ora, non riuscire a ritrovare neppure una pagina del manoscritto, oltre alla scatola Allegra, accrebbe il mio panico. Il manoscritto era in una scatola alta quindici centimetri. Sopra avevo messo un sasso coperto di licheni che avevo raccolto nella foresta per usarlo come fermacarte. Cervello, l'avevo chiamato, perché i licheni grigi mi ricordavano le circonvoluzioni di un cervello. Avevo sperato che mi ispirasse.

Ed eccolo là, Cervello, sul pavimento, assieme al computer portatile. Il computer era sotto una trave, rotto. Ma niente manoscritto. E niente scatola.

Fu allora che ricordai il dischetto su cui avevo salvato il lavoro. Avevo sempre messo anche quello sopra il manoscritto, alla fine della giornata di lavoro. GIUSTE RICOMPENSE, vi avevo scritto con un pennarello nero, vicino a un logo di Topolino. La scatola di dischetti era un tipo per bambini, la più economica che ero riuscita a trovare. Grazie al cielo salvo sempre il lavoro, pensai.

Ma anche il dischetto non si vedeva da nessuna parte. Guardai in ogni posto possibile, e finii per prendermela con me stessa per non averlo nascosto in un posto sicuro. Quel sinistro presentimento mi colse di nuovo. Chi era stato lì? Chi, a Thornberry, avrebbe fatto una cosa simile?

No, smettila. Non c'è nessuno qui. Nessuno ti conosce, né sa niente di te.

C'era Timmy, naturalmente. Le avevo raccontato per sommi capi del mio arresto, prima di accettare il suo invito. Ritenevo che dovesse saperlo, e non ero sicura che avrebbe voluto ospitarmi ugualmente. Ma Timmy non mi aveva espresso altro che comprensione, e aveva insistito perché dimenticassi tutto e andassi a passare un mese di relax da lei.

Inoltre, Timmy non avrebbe avuto motivo per portare via qualcosa dal mio cottage. E specialmente quelle cose in particolare.

Naturalmente, Timmy era rimasta a casa per tutto il giorno, mentre noi eravamo via. Sarebbe potuta andare al mio cottage da sola. Avrebbe potuto...

Per l'amor del cielo, Sarah! Stai diventando proprio come Grace.

Ero stanca, anzi, esausta. Erano successe troppe cose nelle ultime ventiquattr'ore, e cercavo fantasmi sotto il letto... o sotto il mucchio di detriti che un tempo era il mio letto.

Rimaneva una possibilità. La piccola cucina a gas del mio cottage adesso era in mezzo alla stanza, coricata sul fianco accanto alla scrivania. Non riuscivo a sollevarla da sola, e avrei avuto bisogno d'aiuto. Ma il dischetto e il manoscritto potevano essere stati gettati a terra dal terremoto, e la cucina a gas poteva esservi caduta sopra. Anche la scatola Allegra poteva trovarsi là.

Mi aggrappavo alle pagliuzze, e lo sapevo. Ma qualunque cosa era meglio che credere che una delle donne di Thornberry fosse andata al cottage per mettere le mani sulla prova di Lonnie Mae... e sul mio lavoro. Ero io che mi facevo delle idee pazze.

E non per la prima volta. A Seattle c'era stata una notte, in febbraio, quando avevo creduto di sentire qualcuno in casa, al pianterreno. Ero diventata così paranoica che avevo perfino pensato seriamente di comprare una pistola per proteggermi. Ma poi avevo scoperto che il rumore era provocato dai rami di un albero che strisciavano contro una finestra, e non lo avevo più sentito.

Mi sedetti su una libreria rovesciata e mi guardai attorno. Nella confusione, non potevo essere certa di quali oggetti erano ancora là, da qualche parte. C'erano troppe macerie. Frugarvi in mezzo a fondo avrebbe richiesto un'intera giornata.

Perciò, non avevo ragione di preoccuparmi, no? Perdipiù, i miei timori erano ridicoli. Sarei andata a Ransford con le altre, quella sera, e sarei tornata l'indomani mattina a fare qualche altra ricerca. Forse avrei perfino convinto Luke a venire con me per aiutarmi a sollevare la cucina a gas dal pavimento.

Tornata a casa, appresi che Dana aveva scovato nel suo cottage due zaini, oltre a un assortimento di vitamine ed erbe. Grace aveva trovato un altro paio di scarpe da trekking che andavano bene a Kim, e Kim, a sua volta, aveva trovato un paio di pantaloni da tuta quasi identici a quelli che indossava fin dal giorno prima. Il contributo di Amelia fu un flacone di lozione per le mani, che sulle prime parve una frivolezza, e che invece si rivelò una benedizione. Avevamo tutte le mani screpolate e arrossate per avere frugato fra le macerie per le ultime ventiquattr'ore.

Aggiunsi al bottino le cose che avevo recuperato: due penne, un blocco per appunti giallo, uno zaino e una copia di un libro intitolato: Come sopravvivere alle piccole sfide della vita.

Tutti risero, a quel titolo, e quella era precisamente la ragione per cui avevo portato il libro. Kim, comunque, se ne impadronì dicendo che le avrebbe fatto piacere una buona lettura prima di dormire.

Guardando i nostri insignificanti piccoli oggetti sul tavolo di cucina, dovemmo convenire che c'era stato un tempo in cui li avremmo guardati con sufficienza. Ora sembravano altrettanto oro.

Quando Grace ci rammentò che a Ransford c'erano lenzuola in abbondanza, Amelia osservò che, senza riscaldamento, potevamo avere bisogno di altre coperte. Era favorevole a cercarne fra le macerie di Thornberry, ma Luke disse di non preoccuparci, che ci sarebbe stato il riscaldamento a Ransford, dopotutto. Era riuscito a smontare il dispositivo antifurto del serbatoio, e aveva estratto un po' di combustibile da portare con noi.

Ciascuna di noi aveva una sua opinione su ciò che avremmo dovuto portare da Thornberry a Ransford, e Timmy dimostrò di essere vicina a crollare quando disse, fra le lacrime: «Non posso lasciare le mie cose. Non posso».

«Be', non puoi portarle con te» ribatté Grace. «Che cosa credi che abbiamo, santo cielo? Un carro coperto?»

La strada per tornare a Ransford, dichiarò, era troppo lunga per portarsi dietro le carabattole che Timmy rifiutava di lasciare. Lei e Timmy continuarono a litigare fino a quando fui sul punto di mettermi a urlare. Mi trattenni dal dire a entrambe di tacere, ma mi chiesi ad alta voce perché non ero stata invitata in un posto più tranquillo, per scrivere il mio libro, come per esempio un paese del Terzo Mondo sull'orlo della guerra. Quel commento ebbe qualche effetto... sufficiente, a ogni modo, a far sì che Timmy giungesse a un compromesso su ciò che avrebbe portato con sé. Grace raccolse la sua roba dichiarando che lei, almeno, era pronta a mettersi in cammino.

Timmy aveva trovato una vecchia mappa dell'isola che mostrava una strada lunga poco meno di cinque chilometri che portava dall'altro lato attraverso la foresta. La mappa era così vecchia, però, che non poteva essere certa che la strada esistesse ancora, o se esisteva, che fosse praticabile. Votammo, e decidemmo di tentare di percorrerla, nella speranza di risparmiare tempo. Prima di partire inchiodammo a un albero un messaggio per dei potenziali soccorritori.

Luke e io non avevamo avuto un momento per parlare da soli, e ancora una volta mi chiesi se stavo solo immaginando che mi evitasse. Lui camminava in testa lungo il sentiero ingombro di vegetazione, spingendo da parte i rami degli abeti con un lungo bastone e avvertendoci delle pozzanghere. Nell'altra mano portava una tanica piena di nafta. Anche Grace e io ne portavamo una a testa. Le avevamo trovate in un capanno per gli attrezzi a Thornberry. Un miracolo, lo avevamo definito, visto che andavano molto meglio della bottiglie di plastica per il latte che avevamo pensato di usare.

Grace, Dana e io seguivamo Luke in fila indiana, mentre Kim, Timmy e Amelia chiudevano la marcia. Ciascuna di noi portava uno zaino o una sporta, pieni di tutto ciò che avevamo ritenuto potesse esserci utile nei giorni successivi. Tre avevano delle torce elettriche, che fornivano una scarsa illuminazione nell'oscurità dei boschi. Sopra le nostre teste, il vento sibilava fra gli alti alberi, simile a grida di demoni che canzonassero la nostra stupidità nel pensare che saremmo sopravvissute.

Una volta, Grace raggiunse Luke e gli disse qualcosa che non riuscii a sentire. Lo vidi scuotere la testa rabbiosamente e allontanarsi da lei.

Dana raggiunse Grace e le chiese: «Che succede?».

«Niente» ribatté quest'ultima, sgarbata. «È un idiota. Come tutti gli uomini.»

Dana rallentò per trovarsi accanto a me. Mostrando il suo cesto pieno di provviste commentò: «Mi sento Cappuccetto Rosso».

«Be', stai attenta a Grace» brontolai. «Scommetto che è lei il Lupo Cattivo.»

Dana rise sommessamente.

«Amelia potrebbe essere la Nonna, giusto?»

Sorrisi.

«Solo se io posso essere Riccidoro. Mi farebbe piacere una bella ciotola di porridge caldo.»

«Ma quella è tutta un'altra favola» protestò Dana.

«Dunque pensi che questa sia una favola? Un incubo, piuttosto. E già che siamo in argomento, dove diavolo è il sentiero di briciole di pane?»

Dana ridacchiò.

«Ci siamo quasi, mammina?» chiese a Grace, alzando la voce.

Lei la ignorò e continuò a seguire Luke. Dovevamo aver percorso poco meno di tre chilometri quando Luke si fermò, fiutando l'aria. Grace lo imitò.

«Che c'è?» chiesi.

«Sento un odore» rispose Luke, mentre tutte noi ci raggruppavamo attorno a lui.

«Anch'io» disse Grace. «Sembra... sembra un falò. Fumo di legna.»

«Forse Jane è riuscita ad accendere un fuoco?» ipotizzò Dana, speranzosa.

Luke guardò verso la linea degli alberi davanti a noi. Il cielo aveva un bagliore rosato.

«Che cosa diavolo è?» chiese Grace.

«Un'aurora boreale?» suggerì Kim, seguendo il suo sguardo.

«Non credo» rispose Timmy nervosamente. «Di solito non sono rosse. Piuttosto verdi, o azzurre. Inoltre, è una luce intermittente...»

«Oh, mio Dio...» mormorò Luke, e si mise a correre.

Adesso sentivo anch'io l'odore del fumo, e una cenere leggera cominciò a cadermi sul viso e sui capelli.

«È la casa di Luke!» esclamò Dana. «Jane è là dentro!»

Ci precipitammo attraverso il sottobosco dietro Luke, correndo più rapidamente che potevamo sul sentiero ingombro di erbacce. I rampicanti mi si avvolgevano alle caviglie, rallentandomi e quasi facendomi cadere lunga distesa. Ansimavo, e a un certo punto fui costretta a fermarmi per prendere fiato. Timmy si fermò accanto a me, ma Amelia ci superò senza fermarsi.

Prima del mio arresto, avevo fatto jogging ogni giorno, ma dopo ero diventata troppo sedentaria, passando lunghe ore al computer per lavorare al libro. Ora, sembrava che i miei polmoni volessero esplodere. Ma mentre gli altri correvano avanti, cominciammo a perdere di vista le loro luci. Afferrai la mano di Timmy e la trascinai con me, aprendomi la strada fra radici contorte, rami bassi, sassi e pozzanghere, alla debole luce della mia torcia elettrica. Seppi che eravamo quasi a Ransford prima di riuscire a vederla. La fiamme superavano la linea degli alberi, ora, e lingueggiavano ruggendo verso il cielo notturno. Avvertii il calore e mi accorsi che le mie maniche erano coperte di una coltre grigiastra.

Poco dopo, Timmy e io raggiungemmo le altre che si erano fermate ai margini del prato di Ransford e fissavano la casa. Era avvolta dalle fiamme, e le donne sembravano fantasmi, coperte di cenere e con gli occhi che scintillavano del riflesso rossastro del fuoco.

Il fumo e la cenere ci giunsero ai polmoni e cominciammo a tossire.

«Copritevi la bocca!» gridò Timmy, togliendosi il foulard di seta e avvolgendoselo attorno alla parte inferiore del viso.

Io mi ero già riparata la bocca dietro il colletto del giubbotto. Mi guardai attorno, ma non vidi Luke da nessuna parte.

«Dov'è andato Luke?» gridai, al di sopra del ruggito delle fiamme.

Dana e Kim indicarono la casa. Io mi misi a correre, attraversando il prato in pochi secondi e pregando che Luke avesse già trovato Jane sana e salva. Più mi avvicinavo, però, più il calore diventava intenso. Nuvole di cenere si levavano verso il cielo notturno e ricadevano sugli alberi circostanti. Era chiaro che era troppo tardi per salvare Ransford, anche se avessimo avuto dell'acqua. La casa era avvolta dalle fiamme.

Per un lungo, disperato momento, pensai che Jane non potesse essersi salvata. Ma poi la scorsi, non più vicino alla casa di quanto fossi io, ma un po' a destra, sul limitare della foresta. Fissava le fiamme che consumavano la casa di Luke, con il viso paonazzo e sudato.

Corsi da lei, tendendole le braccia.

«Grazie al cielo! Oh, grazie al cielo stai bene.»

Lei si voltò lentamente e mi guardò. I suoi occhi erano vacui, ma un piccolo sorriso le incurvava le labbra. L'effetto era così spettrale che rabbrividii, nonostante il calore dell'incendio. Lasciai ricadere le braccia.

«Avete detto che non sarebbero venuti» mormorò Jane.

«Come?» chiesi, perplessa.

«Avete detto che non avrebbero saputo che eravamo qui.»

«Non capis... Vuoi dire, le squadre di soccorso?»

«Avete detto che non avrebbero saputo che eravamo qui» ripeté lei, nello stesso tono. «Be', ora lo sapranno.»

Sgranai gli occhi, rendendomi conto di che cosa intendeva dire. Mi voltai verso le altre, che ci avevano raggiunte, e vidi lo stesso sbalordimento sui loro visi.

«Jane... Jane, non avrai...» balbettò Dana.

«Idiota!» gridò Grace, afferrando Jane per le spalle e scrollandola. «Che hai fatto? Lo sai che cosa hai fatto?»

«Smettila!» gridai a mia volta, trattenendo Grace. «Lasciala in pace.»

Lei si voltò, rabbiosa.

«Ha appiccato lei il fuoco! Ha distrutto il solo posto su questa maledetta isola che ci offriva un rifugio per aiutarci a sopravvivere!»

«Era il solo modo» disse Jane in tono basso, ragionevole, come se spiegasse qualcosa di ovvio a un bambino. «Non vedi? Non avevamo modo di chiedere aiuto, così ho fatto un falò. Dovevo fare qualcosa che si vedesse per chilometri e chilometri. Perciò ho versato il cherosene della lampada, e ho incendiato le tende, al pianterreno. Quando sono stata sicura che tutte avevano preso fuoco, sono scappata fuori.» Ancora quel sorriso agghiacciante. «Aspettavo che arrivassero.»

«Sei pazza?» urlò Grace, facendo l'atto di schiaffeggiarla, e poi lasciando ricadere la mano. «Questo non dirà ai soccorritori che ci sono delle persone, qui! Penseranno semplicemente che il terremoto abbia provocato un incendio!»

«No, ti sbagli» insistette Jane, anche se la sua voce cominciava a mostrare segni di dubbio. «Verranno perché questa casa appartiene a una persona importante. Si occupano sempre prima delle persone importanti, no? L'hai detto tu, Grace. Hai detto che i ricchi governano il mondo.»

Grace aprì la bocca, ma per una volta sembrava senza parole. Dana passò un braccio attorno alle spalle di Jane e cominciò a sussurrarle parole sommesse, confortanti. Timmy e Amelia si unirono a lei, e Kim rimase a qualche passo di distanza, con le mani in tasca, fissando il fuoco.

Grace mi prese da parte.

«Sai che cosa significa questo, vero? Qualcuno dovrà guardarla a vista, d'ora in poi.»

«Lo so» convenni stancamente, strofinandomi gli occhi per liberarli dalla cenere. «Quello che ha fatto è assurdo. Ma sai... giusto per fare l'avvocato del diavolo... Jane può avere ragione, in un suo modo contorto. Orcas è abbastanza vicina perché la luce di un incendio di queste dimensioni si veda fin da laggiù, e qualcuno dovrebbe almeno fare un rapporto in proposito, specialmente se sanno dell'esistenza di Thornberry, qui. Non è che questa sia un'isola disabitata.»

«E se si limitassero a stilare un rapporto? Hai sentito che cosa hanno detto alla radio. Tutti sono indaffarati in città, ora. Potrebbero passare giorni prima che degli elicotteri di soccorso, o anche solo delle barche, arrivino così lontano. Diavolo, per quello che ne sappiamo potrebbero passare settimane

«Be', io mi rifiuto di pensarlo» ribattei, irritata. «E dobbiamo credere che fra noi sette... otto, adesso, con Luke... abbiamo abbastanza cervello da tirarci fuori da questa situazione.»

Grace mi guardò disgustata.

«Non lo capisci, vero? Siamo in un guaio serio...»

Si interruppe e si voltò di scatto quando Kim chiese: «Dov'è Luke?».

Sembrava che nessuno lo sapesse. La sua casa stava bruciando fino alle fondamenta, e il solo indizio che avevamo era che Amelia lo aveva visto sparire nei boschi dal lato orientale dell'edificio.

Grace allargò le braccia e si allontanò. Avvicinandosi al fuoco più di quanto io avrei ritenuto prudente, lo fissò con le mani sui fianchi, come sfidandolo a raggiungerla.

Accanto a me, Kim commentò: «Se vuoi la mia opinione, è lei che dobbiamo sorvegliare».

«Che intendi dire?»

Kim si coprì la bocca e tossì, per liberare la gola dal fumo.

«Intendo dire che penso che sia più interessata alla tua vecchia fiamma di quanto voglia dare a vedere.»

«Grace? Interessata a Luke?» Mi stropicciai gli occhi irritati. «A me sembrava che si detestassero. Inoltre, credo che abbia paura.»

«Paura? Vuoi scherzare? Quella donna non ha paura di niente.»

«Così sembrerebbe, vero? Ma è troppo tesa, e ho la sensazione che non sia il suo comportamento normale.»

«E su che cosa si basa questa tua sensazione?» chiese Kim.

«Non lo so... sull'istinto, forse. Credo che quando Grace si comporta normalmente, può fare qualunque cosa voglia. Anzi, la vedo come una di quelle persone che fanno escursioni rischiose, scalano montagne e sopravvivono nutrendosi di corteccia e pelle di cervo.»

«Buon Dio.» Kim rabbrividì. «Se è vero, allora è peggio di quanto pensassi. Però devo ammettere che mi trovi d'accordo. Senza offesa, ma fra tutte noi pensavo che sarebbe stata lei ad assumere il comando, dopo il terremoto. Invece, sei stata tu. Ci sono momenti in cui Grace...»

«... Sembra troppo preoccupata di come ce la caveremo fino all'arrivo dei soccorsi?» conclusi io.

«Proprio così. Per la maggior parte del tempo si comporta come se fosse stufa di averci intorno. Poi, un attimo dopo, ho la sensazione che abbia in mente qualcosa di completamente diverso.»

«Qualcosa di cui noi non sappiamo nulla» convenni. «E che la turba più del terremoto. Sai, odio pensarlo, ma potresti avere ragione. Forse abbiamo due persone da tenere d'occhio, non una sola.»

«Non credi che farebbe davvero del male a una di noi, vero?» chiese Kim, pensierosa.

La guardai, sorpresa.

«Grace? No, per la verità non era affatto quello che pensavo. Piuttosto, visto quello che ha combinato Jane, temo che Grace potrebbe perdere la testa e fare qualcosa di altrettanto dannoso. È la sua perpetua rabbia che mi preoccupa.»

«Zitta» mi avvertì Kim. «Eccola che torna.»

Guardammo Grace attraversare il prato diretta verso di noi, con le mani sprofondate nelle tasche della giacca a vento e i piedi calzati dagli stivali che scalciavano cenere rovente a destra e a manca. Per la prima volta pensai che sembrava stanca e scoraggiata.

«Sono sorpresa che questi alberi non abbiano ancora preso fuoco» commentò.

«Ho visto un certo numero di incendi, in California, e avrei creduto che a quest'ora tutta l'isola sarebbe stata in fiamme» convenne Kim.

«Los Angeles è una scatola di fiammiferi, a paragone di Esme Island» intervenne Timmy, avvicinandosi a noi. «È piovuto a dirotto durante tutto l'inverno, e gli alberi sono ancora verdi. È anche una fortuna che la famiglia di Luke abbia avuto la preveggenza di mantenere uno spazio libero così vasto attorno alla casa.»

Mi incamminai verso Dana e Jane, che erano a diversi metri da noi. Amelia era ancora con loro, un po' in disparte.

Mentre mi avvicinavo, Dana chiese, preoccupata: «Non credi che l'incendio si propagherà a tutta l'isola, vero?».

«Non lo so. Siamo a più di quattro chilometri da Thornberry, qui, e questo potrebbe bastare, se non si leva di nuovo il vento. Mi sembra che Timmy pensi che non avremo problemi.» Guardai Jane, che non alzò gli occhi. «Lo sai che cosa hai fatto, vero?» non potei fare a meno di dirle, come se rimproverassi un bambino cattivo.

Jane si voltò dall'altra parte, e io non insistetti. Una parte di me avrebbe voluto scrollarla, come aveva fatto Grace, per costringerla ad accettare la responsabilità della situazione in cui ci trovavamo. L'altra parte provava compassione e capiva bene lo stress a cui era sottoposta, preoccupata com'era per i suoi figli.

Tuttavia, a pensarci bene, Jane non era mai sembrata del tutto equilibrata. Anche prima del terremoto, c'erano stati dei segnali che mi avevano fatto pensare che sarebbe potuta crollare, anche solo sotto le pressioni di Grace. Mi chiedevo che cosa, nella sua vita, potesse avere contribuito a quell'instabilità.

«Mi dispiace tanto per Luke» mormorò Dana. «Dov'è, a proposito?»

«Non lo sappiamo. Sembra sparito.»

Rimanemmo a guardare, impotenti, mentre la casa in cui Luke e i suoi genitori avevano trascorso ogni estate della loro vita veniva distrutta dalle fiamme.

Quando, poco dopo, Luke tornò, disse semplicemente che non se l'era sentita di restare ad assistere. Era andato nei boschi per rimanere solo per un po'.

Sembrava sconvolto, e tutte gli dicemmo che non c'era bisogno di scusarsi. Potevamo capire che cosa provava.