6

Il mattino dopo il terremoto, un sole rosso sangue si levò sullo stretto. Avevamo passato una notte miserabile e piena di paura sul prato davanti ai resti della casa di Thornberry. A parte il freddo e l'umidità, c'erano le scosse di assestamento, alcune decisamente molto forti.

Cominciammo a muoverci e a rialzarci a sedere.

«Credevo che il giorno non sarebbe mai venuto» commentò Dana, strofinandosi vigorosamente le braccia per scaldarsi. «È stata la notte più lunga della mia vita.»

Fui costretta a convenire con lei. Mi ero assopita alcune volte, ma avevo avuto solo degli incubi in cui la terra sobbalzava sotto di me... incubi che ogni volta che mi svegliavo risultavano anche troppo reali.

Mi alzai e mi liberai della coperta, passandomi le dita fra i capelli in un futile tentativo di ravviarli. Da quando li avevo tagliati erano cresciuti di qualche centimetro, e i riccioli naturali si arruffavano, la notte.

Darei il braccio destro per una doccia, pensai sconsolata. O anche solo per lavarmi la faccia. Ma benché il lavello della cucina di Thornberry fosse pressoché intatto, i tubi che portavano l'acqua dal serbatoio del pozzo erano rotti, e la pompa era fuori uso.

«Non intendo tornare al coperto» dichiarò Jane di punto in bianco. «Né in quel che resta della casa, né da nessun'altra parte.»

Si strinse attorno la coperta, mentre un'altra scossa faceva tremare la terra. Tutte quante aspettammo che finisse con il fiato sospeso.

Dopo, Jane continuò con voce ancora più tremante: «Non dovrebbero essere sempre meno forti, col passare del tempo?».

«Sì, e la gente dovrebbe prepararsi meglio» disse Grace a Timmy. «Perché diamine non hai messo da parte acqua e razioni di emergenza in un posto sicuro? Per non parlare di radio portatili, batterie, torce elettriche, fornelli da campo, lampade a gas...» Si interruppe, imprecando. «Dove diavolo avevi la testa? Un solo telefono cellulare in tutta la tenuta? E adesso è sotto le macerie!»

Timmy impallidì, ma non rispose. Credetti di vedere le sue labbra tremare, ma c'era poca luce, quindi non potei esserne certa. Stavo per interrompere la tirata di Grace quando Amelia mi precedette.

«Timmy ha fatto del suo meglio» affermò. «Non poteva...»

«Non poteva, che cosa?»

«Zitta, Amelia» intervenne Timmy. «Grace ha ragione. Inoltre, non capirebbe.»

Amelia scoccò a Grace un'occhiata sprezzante e le voltò le spalle.

Grace scosse la testa.

«Puoi scommetterci che non capirei. Certo, ci sono dei cibi in scatola in cucina, ma non possiamo cucinare, ora che le tubazioni del serbatoio del combustibile sono interrotte. Il fornello è elettrico, e il generatore è inutile senza combustibile. Inoltre, quello che c'era in frigorifero è immangiabile... o lo sarà presto.»

«Be', almeno c'è abbondanza di cibi in scatola» affermò Dana in tono sorprendentemente irato. «Possiamo benissimo mangiarlo freddo! Per di più, c'è una quantità di ostriche, qui intorno. Non sono male, crude.»

Grace rabbrividì.

«E l'acqua?» Mostrò una delle bottigliette di Perrier. «Se queste sono tutto ciò che siamo riuscite a trovare ieri sera, dubito che ce ne siano molte di più. Buon Dio, Amelia, se Timmy avesse speso meno in ninnoli...»

«Immagino che tu abbia tutte queste provviste in casa tua» la interruppe Amelia, rabbiosa. «Tu sei preparata per qualunque evenienza.»

«Hai perfettamente ragione. Abbiamo avuto abbastanza avvertimenti negli ultimi anni, perfino a New York. Non solo sui terremoti, ma anche su tormente di neve, tifoni e inondazioni. E se eri già amica di Timmy, come sembra, o se fossi stata una persona responsabile, ti saresti assicurata che avesse delle scorte d'emergenza...»

«Volete smetterla, voi due?» esclamò Jane. Si alzò e gettò a terra la coperta, stringendo i pugni. Aveva il viso rigato di lacrime. «I miei bambini potrebbero essere morti! Ve ne rendete conto? Mentre voi due litigate, i miei figli potrebbero essere morti!»

«Va bene, basta così» dissi, alzandomi. «Prima di tutto, ne ho abbastanza di te, Grace. Forse hai ragione, forse Timmy avrebbe potuto prepararsi meglio. Ma non serve a niente starsene qui ad azzannarci a vicenda.» Mi rivolsi a Jane e le misi le mani sulle spalle. «Senti, so che è terribile per te. Ma dobbiamo concentrarci per trovare il modo di comunicare con la terraferma. Più presto ci riusciremo, prima saremo, forse, in grado di raggiungere tuo marito e i tuoi figli. Come minimo, una radio portatile potrebbe darci notizie più aggiornate. Potremmo sapere come stanno andando le cose laggiù.»

Jane rimase in silenzio, e Dana chiese: «Che cos'hai in mente?».

«Ci ho pensato tutta la notte. Ci sono altre tre case sull'isola. Due, se ben ricordo, sono semplici capanni estivi. È giusto, Timmy?»

Lei annuì.

«Sono state vendute un paio di volte, nel corso degli anni, ma ora sono vuote da tempo.»

«E la casa dei Ford?»

«C'è ancora, naturalmente. Ora appartiene al figlio, ma viene qui solo in estate.»

«Intendi dire Luke?»

Lei annuì di nuovo.

È ancora in circolazione.

«C'è qualche possibilità che sia qui, adesso?» chiesi. «L'estate è vicina.»

«Non mi risulta che sia mai venuto così presto» rispose Timmy. «Sono certa che me lo avrebbe fatto sapere, se fosse qui.»

«Perciò, a meno che qualcuno non si trovasse per caso in uno dei due capanni, noi siamo le sole persone sull'isola, giusto? Allora, quello che dobbiamo fare è una visita a quei capanni e alla casa di Luke, per vedere se hanno resistito al terremoto. In questo caso, potremmo trovare qualcosa che ci sarebbe utile mentre aspettiamo i soccorsi.» Mi rivolsi a Timmy. «Due di noi dovrebbero restare qui, in caso arrivasse una squadra di soccorso... Tu e Amelia. Ti dispiace?»

«Lasci indietro le due vecchie, eh?» commentò Amelia vivacemente. «Neanche per idea. Lascia Jane. Io sono forte almeno quanto lei.»

«Non ne dubito» borbottai, anche se in realtà non ne ero molto sicura.

Il problema non era l'età di Amelia, visto che molte settantenni sono delle buone camminatrici. Ma l'avevo vista tremare, quando credeva di non essere osservata. Erano state dodici ore difficili e Amelia aveva bisogno di riposare, non di andare in giro per i boschi. Quanto a Timmy, aveva sofferto troppe perdite. La vedevo sul punto di crollare.

«Ho anche pensato che tu e Timmy potevate dare una occhiata qui intorno» spiegai. «Vedere che verdure si possono trovare negli orti, per esempio delle carote rimaste dall'autunno scorso. Vi dispiace?»

Amelia esitò, ma guardò Timmy, che all'improvviso sembrava molto fragile.

«No» rispose. «No, certo.»

«Okay, allora andiamo» intervenne Dana. «Io sono pronta.»

Ci guardammo tutte l'un l'altra, in cerca di un segno di approvazione. Kim, che non aveva ancora parlato, disse: «Solo una cosa. Qualcuna ha un'arma?».

Jane rise, incerta.

«Santo cielo, no. Chi avrebbe mai pensato che ne avremmo avuto bisogno, qui?»

Dana scosse la testa e Amelia sollevò le sopracciglia e commentò: «È una strana domanda».

«No, se ti sei già trovata in un terremoto» ribatté Kim. «A me è successo.»

«Vuoi dire, a Los Angeles?»

Lei annuì.

«Quello nel Northridge. La gente era impazzita.»

«Ma là era completamente diverso» osservai. «Los Angeles è una grande città. Qui non c'è nessuno, a parte noi.»

Kim mi lanciò un'occhiata penetrante, poi guardò Grace.

Tutte seguimmo il suo sguardo.

Grace arrossì, poi esclamò: «Oh, per l'amor del cielo! Non sarò la persona più paziente del mondo, ma non ho intenzione di uccidere nessuno!».

Nessuna fece commenti.

Kim e io ci incamminammo verso oriente lungo la costa, mentre Dana, Jane e Grace si dirigevano a occidente per controllare i due capanni. Il nostro piano era incontrarci alla casa dei Ford, che era approssimativamente nel centro dell'isola, sulla costa settentrionale. Il sentiero più diretto, attraverso l'isola, che io e Luke avevamo creato tanti anni prima, era stato cancellato dalla vegetazione, e non ero stata capace di trovarlo. Il percorso che avevamo scelto avrebbe richiesto più tempo che se fosse stata disponibile la via più diretta, lunga poco più di quattro chilometri, ma pensavamo che, camminando di buon passo, saremmo arrivate in meno di quattro ore.

La spiaggia era rocciosa, non sabbiosa, ed era bordata di abeti e cedri. A volte eravamo costrette ad aggirare enormi tronchi che erano stati divelti durante le tempeste, e in diversi punti la spiaggia era sbarrata da massi che dovevamo scalare per passare oltre.

Era una fortuna che la sera prima, per andare a cena, avessi indossato gli scarponcini da trekking, jeans, un pullover pesante e il giubbotto. Un rapido controllo al mio cottage, quella mattina, aveva rivelato che la maggior parte della mia roba era sepolta sotto le macerie. Non c'era stato il tempo di verificare che cosa poteva essere recuperato... e me n'era mancata anche la voglia. Avevo i nervi troppo tesi e mi sentivo esausta, dopo la notte quasi insonne.

E neppure avevo potuto mangiare. Timmy e Amelia avevano messo insieme una colazione a base di frutta e avevano trovato dei muffin. Ne avevo avvolto uno in un tovagliolo e lo avevo ficcato nella tasca del giubbotto, riservandolo per più tardi. Kim e io portavamo ciascuna una bottiglia d'acqua.

Ognuno dei due gruppi aveva uno dei corni usati per le segnalazioni antinebbia che avevamo trovato in cucina, semisepolti dai sacchi di farina. Erano fra le poche cose che Timmy aveva messo da parte per i casi d'emergenza. Non che si fosse aspettata niente di simile. Più probabilmente una malattia, o un'invasione di orsi.

Ci sono degli orsi, quaggiù?, mi chiesi all'improvviso, scrutando un boschetto di abeti. Un orso poteva uccidere una persona con una sola zampata e mangiarsela senza lasciare tracce prima che qualcuno se ne accorgesse. Smettila. Meglio preoccuparsi per queste maledette scosse di assestamento. Cesseranno mai?

Incapace di mantenere l'equilibrio, durante un'ennesima scossa, mi lasciai cadere sulle ginocchia, poi mi appiattii al suolo. Kim cadde accanto a me.

«Questa sembrava più forte delle altre» commentò, aggrappandosi al terreno. «Che Dio ci aiuti, se la prima era solo una scossa preliminare.»

«Non pensarlo neppure.»

Se prima di andare a Esme Island pensavo di avere passato l'infermo a Seattle, adesso tutta la storia mi appariva più come un purgatorio... il luogo da cui i cattolici credono si possa guadagnare l'uscita con le preghiere. Non sapere che cosa sarebbe accaduto fra un momento... quello era l'inferno.

O così pensavo allora, non sapendo quanto le cose sarebbero ancora peggiorate.

Mi alzai, spazzolandomi dalle mani e dalle ginocchia la sabbia aguzza, simile a ghiaia. Avevo voglia di urlare, di correre nei boschi e buttarmi a terra. La sola cosa che mi impediva di farlo era sapere che dovevo mantenere il controllo, se non per me stessa, almeno per Kim. Anche se, probabilmente, lei non aveva bisogno di me per conservarsi calma.

Al primo incontro, Kim mi era sembrata viziata e superba. Le due volte in cui si era fatta viva per il caffè, dopo cena, aveva posto innumerevoli domande pettegole sulla nostra vita privata. Avevo immaginato che questo fosse ciò che passava per conversazione a Hollywood.

Tuttavia, dovevo ammettere che Kim aveva dimostrato una grande forza d'animo, fin da quando l'avevamo trovata fuori del suo cottage, il giorno prima, più arrabbiata che spaventata.

Ora, mentre riprendevamo a camminare, le dissi: «Sono sorpresa di come stai reagendo a tutto questo».

«Perché sono una star, vuoi dire?» chiese lei, in tono divertito.

«Be', no...»

Ma era esattamente ciò che avevo inteso.

«Be', non sembreresti il tipo...» Mi interruppi. «Scusa.»

«Oh, diavolo, non c'è problema. Non puoi sapere che in meno di due anni a Los Angeles sono passata attraverso incendi, inondazioni, disordini e il peggiore terremoto che abbia colpito la California negli ultimi decenni. Ero nella Valley per girare un film quando accadde. Siamo rimasti isolati per giorni, e il peggio è stato che quando siamo riusciti a tornare a casa, alcuni di noi non hanno più trovato neppure il cortile, sotto le macerie. E poi è cominciato a piovere.» Kim rise brevemente. «Dio, è stato terribile. Ho perso la prima casa che avessi mai comprato col mio denaro. È scivolata giù per una collina fin sulla Pacific Coast Highway

«Mi dispiace.»

«Grazie. È stata dura. Perciò, immagino di dover dire che, finora, questo piccolo terremoto è stato una passeggiata.»

Sorrisi.

«Sono contenta che qualcuno la pensi così. Ma avevo tratto delle conclusioni affrettate su di te, ed è una cosa che di solito non faccio.»

Kim si ripulì una macchia di terriccio dal viso.

«Se ti può consolare, non sei la prima. Su, andiamo.»

Stavolta mi incamminai dietro di lei, guardando la coda di cavallo rosso cupo che mi dondolava davanti. La giornata era fredda e il cielo minacciava pioggia. Kim indossava solo i jeans, la felpa e le scarpe di tela che portava quando era iniziato il terremoto, il giorno prima. Ormai era tutto fradicio.

La raggiunsi.

«Kim, senti. Non ho riflettuto, quando ti ho chiesto di venire con me. Avremmo dovuto prenderci il tempo di cercarti degli indumenti più pesanti.»

Lei sorrise.

«Immagino che tu non sia mai stata su un set dove si gira in esterni, vero?»

«No. È dura?»

«Prova a nuotare in un ruscello di Yellowstone quando sta cominciando a nevicare.»

«Oh. Però devi amare il tuo lavoro, per riuscire così bene. Si dice che abbiamo maggiore successo nel lavoro che amiamo di più.»

«Immagino che sia vero, almeno per qualcuno. Per me, arrivare dove sono adesso è stata una strada lunga e dura. Qualche parte, non voglio neppure ricordarla.» Il suo viso si rabbuiò. «E tu?»

Stavo per rispondere quando aggirammo un'ennesima curva della costa, ma solo per trovarci di fronte a un'altra distesa di spiaggia deserta.

«Maledizione, dov'è quella casa? La ricordavo più vicina» protestai.

«Vuoi riposare?» chiese Kim.

Scossi la testa.

«Però ho bisogno di mangiare qualcosa.»

Tirai fuori il muffin, lo ruppi in due e ne offrii metà a Kim.

«Grazie. Senti, sediamoci un momento in modo che possa togliermi le calze. C'è entrata molta sabbia, che ora mi fa male ai piedi.»

Tenendo il mezzo muffin fra i denti, Kim si slacciò le scarpe, si sfilò le calze e se le ficcò in tasca. Rimanemmo sedute per un momento, mangiando in silenzio.

«Sei avvocato, vero?» chiese Kim, quando l'ultimo boccone di muffin fu sparito. Si spazzolò le briciole dai jeans. «Avvocato d'ufficio?»

«Lo ero.»

«Lo eri? Che cos'è successo? O non dovrei chiederlo?»

Mi strinsi nelle spalle.

«Pare che resteremo insieme su questa dannata isola per un po', perciò puoi chiederlo. Ero avvocato d'ufficio a Seattle. Ho perso il posto.»

«Tagli al personale?»

«No. Sono stata licenziata.»

Lei mi guardò.

«Non riesco a immaginarti mentre fai qualcosa di tanto grave da essere cacciata.»

«Davvero? Ma se ci conosciamo appena!»

«Be', è vero che non ti conosco molto bene» ammise Kim. «Ed è colpa mia. Che tu lo creda o no, riesco a rilassarmi davanti alla macchina da presa, ma non mi sento a mio agio in un gruppo di donne. Sembra che non abbia molto in comune con loro, e non so mai che cosa dire. Ma il modo in cui tu hai assunto il comando ieri, dopo il terremoto, senza farti prendere dal panico o niente del genere... Credo di avere pensato che avevi un lavoro di responsabilità e che non fai mai niente di sbagliato.»

Quasi scoppiai a ridere.

«Be', in parte hai indovinato. Avevo un lavoro di responsabilità, e non ho fatto niente di sbagliato. Qualcuno mi ha incastrata con un'accusa di possesso di droga, e ora sono in attesa di processo.»

«Stai scherzando!»

«Magari.»

«Ma, Sarah, essere avvocato non ti dà maggiori possibilità di scagionarti? Puoi convincere una giuria della tua innocenza, giusto?»

«Già, questo è il problema... convincere una giuria della mia innocenza.»

Kim annuì e sospirò.

«Mi è stato offerto un ruolo del genere. Una donna innocente dietro le sbarre. L'ho rifiutato perché il mio agente non voleva che impersonassi una carcerata.» Alzò gli occhi al cielo. «Come se la gente non sapesse distinguere la differenza fra la vita reale e la finzione cinematografica. Laura West, che ha accettato la parte... La conosci?»

«La conosco di fama, naturalmente.»

«Be', ha vinto un Oscar per quel ruolo. E io sono rimasta a guardare la strada che non ho preso...»

«Robert Frost» dissi. «Due strade divergevano in un bosco, e io...»

«Io ho preso la meno battuta» concluse Kim per me, sorridendo. «Scuola superiore. E non fare quella faccia sorpresa. Ho la memoria di un elefante.»

«Immagino che sia un vantaggio, quando devi studiare un copione.»

Lei annuì.

«Mi è stato utile quando ero agli inizi e lavoravo in produzioni a basso costo. Un avvocato d'ufficio... non guadagna molto, vero?»

«No, ma non lo facevo per i soldi.»

«Già, capisco quello che intendi dire. Una volta, in un film, ho ricoperto il ruolo della presidente di una ditta di profumi. A quarant'anni piantava tutto e diventava una missionaria.» Kim rise. Una risata forte, libera, che mi sorprese, venendo da lei e in quelle circostanze. «Un pessimo film. L'hai visto? Heavenly Scent?»

Scossi la testa.

«No, mi dispiace. Non ho mai avuto molto tempo per andare al cinema. Di solito, la sera studio i miei casi.»

«Anch'io. Voglio dire, quando non sto girando, resto a casa, riposo e guardo la televisione. Naturalmente, di solito guardo dei film. Immagino che tutti tendano a rilassarsi con lo stesso genere di lavoro che fanno.»

«Com'è vero.»

«Allora, questa accusa contro di te... C'è modo di provare la tua innocenza? Voglio dire, come avvocato devi sapere come si fa, no?»

Esitai. Il terremoto mi aveva sciolto la lingua, eppure non mi sentivo del tutto a mio agio a raccontare a Kim come intendevo provare la mia innocenza.

«Spero che quando ce ne andremo da qui mi ricorderò di come si fa l'avvocato» scelsi di rispondere. «Perché non ci incamminiamo? La giornata sta cominciando a sembrarmi lunga.»

Kim infilò le scarpe umide e riprendemmo il cammino. Una foschia proveniente dal mare stava coprendo l'isola. Ricordai l'allarme maremoto che avevamo sentito alla radio, la possibilità che un'ondata alta diversi piani colpisse la costa e ci sommergesse tutte. Quella proveniente dall'Alaska, nel 1964, aveva raggiunto un'altezza di oltre ottanta metri... più o meno come un palazzo di venticinque piani... ed era arrivata, a sud, fino a Crescent City, in California, distruggendo vaste parti di quella città. Se un maremoto avesse avuto origine da un epicentro a Seattle avrebbe raggiunto questi luoghi, come ipotizzato dal notiziario? O si sarebbe spostato verso meridione?

Non riuscivo a ricordarlo dalle lezioni di preparazione al terremoto. Potevamo solo sperare di trovare una radio portatile a casa Ford. Magari perfino un telefono cellulare. Anche se non ci sarebbe servito a molto, se la batteria era scarica. E quanto a questo, il servizio sarebbe stato attivo? Le città vicine erano intatte, o erano distrutte a loro volta?

Non potevo pensarci. L'ansia bastava a farmi perdere le forze.

«Per rispondere alla tua domanda» continuai, mentre scansavamo le onde che risalivano la spiaggia, «stavo cercando di aiutare una donna... una prostituta. Era stata stuprata da alcuni poliziotti, e loro l'hanno uccisa per impedirle di testimoniare. Poi se la sono presa con me. Due omicidi sarebbero stati troppi, immagino, perciò mi hanno incastrata montando un'accusa per droga, per screditarmi. Speravano anche di spaventarmi per farmi tacere sui loro crimini. Be', morta la vittima, poteva anche andare a finire così. La storia era su tutti i giornali, nonché nei notiziari serali. Sarah Lansing, che nel corso degli anni aveva difeso così brillantemente dei criminali, adesso era una di loro.» Mi interruppi per scrutare la linea degli alberi, ma non vidi niente che somigliasse a un tetto, quindi continuai: «Come avvocato d'ufficio, ero già nota per aver fatto uscire di prigione le peggiori specie di criminali. Era il mio lavoro... allestire una difesa per chiunque, colpevole o no, per quanto a volte potesse farmi sentire a disagio. Naturalmente, i poliziotti mi odiavano per questo».

«Avevano paura di te» affermò Kim. Per un attimo rimasi sorpresa, come se, in qualche modo, lei sapesse già quello che era accaduto. Ma poi spiegò: «Se questo fosse un film, e tu te la prendessi con loro... il che, a quanto sembra, era quello che stavi per fare... saresti un potente avversario. Dovrebbero metterti a tacere. Giusto?».

Mi fermai e raccolsi un lungo pezzo di legno gettato sulla spiaggia dal mare, che usai come bastone per appoggiarmi un momento. Quella conversazione, assieme alla lunga camminata, mi stancava più di quanto avessi immaginato. Le ginocchia mi tremavano.

«E così» continuò Kim, «quello di cui avresti bisogno sarebbe una prova materiale a cui i poliziotti non potessero giungere. Qualcosa da far pendere sulle loro teste.»

La scrutai in viso.

«Chi ti ha dato questa idea?»

Lei sorrise.

«L'ho visto in un film. Mi pare che Brian Dennehy fosse il poliziotto buono, e James Woods quello cattivo, ma forse mi confondo con un altro film.» Il suo tono divenne serio. «Tutto quello che posso dire, Sarah, è che probabilmente dovresti stare in guardia. Non mi sembra che quei poliziotti si accontenteranno di farti processare. Potrebbero saltare fuori troppe cose, no? Cose che potrebbero incriminarli. Se fossi al loro posto, cercherei di chiuderti la bocca prima del processo. E di farlo in un modo che si accordi con l'accusa di possesso di droga. Un'overdose, o qualcosa di simile. Anzi, penso che montare quell'accusa sia stato solo il primo passo di un piano più vasto.»

La fissai per un lungo momento. Alla fine lei rise, imbarazzata.

«Scusa. A volte mi lascio trasportare dall'immaginazione.»

«A dir poco» commentai.

Guardai Kim negli occhi, e lei sostenne il mio sguardo senza battere ciglio.

«Non permetterai che la facciano franca, vero, Sarah?»

«Io... no. Non lo permetterò.»

«Hai un piano?»

Mi resi conto, ora, che avevo detto anche troppo. Mi ero lasciata prendere da quella sindrome per cui si crea un legame con qualcuno con cui abbiamo condiviso una catastrofe. Ma chi sapeva quali erano i motivi di Kim?

«Sarah?»

«Mmh? Scusa.»

«Ti stavo chiedendo se sei riuscita a procurarti la prova di cui hai bisogno per dimostrare che l'accusa è una montatura.»

Descrissi un ampio arco con il bastone e lo scagliai lontano, nell'acqua, osservandolo mentre la marea lo portava via. Immaginai che portasse via nello stesso modo anche i miei guai...

«Sai una cosa?» dissi. «Sono stanca di pensare a questo. E sono quasi certa di vedere i camini di casa Ford laggiù, fra gli alberi.»

«Hai ragione» rispose Kim, guardando nella direzione che indicavo. Il momento di tensione era passato. «Grazie al cielo! Mi sto stancando di passeggiare per questa maledetta isola. Inoltre, se questo fosse un film, almeno ci sarebbe un lieto fine. Nella realtà, non ne sono affatto sicura.»

«Temo che tu abbia ragione» commentai, mentre la casa di Luke compariva davanti a noi.

La situazione non sembrava affatto buona.