19
Arrivammo a Thornberry circa un'ora dopo, e Kim era tornata. Era silenziosa, raggomitolata vicino alla stufa e avvolta in una coperta, come se cercasse di scaldarsi. Aveva ancora il viso segnato dalle lacrime. Timmy e Amelia sedevano al tavolo, con aria preoccupata, parlando a bassa voce. Grace era a sua volta seduta in silenzio di fronte a loro, osservando Kim.
Luke le si avvicinò e le parlò sottovoce.
«Sono preoccupata per Kim» mi disse Dana. «Non ci guarda neppure. Non so che cosa le sia successo.»
«Io credo di saperlo» risposi.
Mi avvicinai a Kim e le sussurrai all'orecchio: «Vieni fuori con me. Parliamo».
Lei non rispose né si mosse.
La tirai leggermente per il braccio.
«Kim? Dobbiamo parlarne. Intendo farla pagare a Gabe. Gliela farò pagare per te... e anche per me.»
Lei alzò il viso pallido verso di me e sussurrò: «Puoi farlo?».
«Sì. Posso e lo farò» risposi.
Se Gabe lavorava per i Cinque, questo significava che era responsabile delle minacce alla vita di mia madre. E adesso ero anche certa che fosse responsabile della morte di Angel, e di avermi aggredita al mio cottage.
Con il mio aiuto, Kim riuscì ad alzarsi in piedi. Era come se fosse diventata vecchia e artritica, o il suo spirito l'avesse abbandonata al punto che non era più capace di muoversi.
Fuori, attizzai le braci che ardevano ancora dopo la cena. Scaldai dell'acqua e preparai una tazza di tè bollente.
«Ecco, bevi questo» dissi, avvolgendole la coperta attorno alle spalle.
Kim batteva i denti e aveva le labbra bluastre, come se fosse gelata. Sedemmo su dei ceppi vicino al fuoco, e lei strinse fra le mani la pesante tazza, una delle poche sopravvissute al terremoto. Se la portò alle labbra, ma non bevve. Lasciò semplicemente che il vapore tiepido la riscaldasse.
Io bevvi un sorso di tè, poi mormorai: «Non sembravi affatto felice, in quel capanno. Che è successo?».
Le lacrime le colmarono gli occhi, e se le asciugò con la mano.
«Oh, al diavolo» borbottò, con voce rotta dai singhiozzi. «Tanto lui racconterà tutto ugualmente.»
«Racconterà, che cosa?» insistetti. «Kim, può darsi che non abbiamo molto tempo.»
«Il mio passato.» Kim mi scoccò un'occhiata. «Oh, non è certo una storia nuova. Giovani attrici ancora sconosciute, senza un soldo, che fanno film porno per pagare l'affitto. Sai quante eravamo? Potrei fare dei nomi... tutte attrici che adesso lavorano nel grande cinema. Ma non lo farò. Sappiamo tutte quanto potrebbe danneggiare la nostra carriera, adesso.»
«Ma, Kim... è vero, non è una storia nuova. Guarda Marilyn Monroe, che ha posato nuda per un calendario... uno scandalo, a quei tempi. Non ha danneggiato la sua carriera.»
Lei rise, aspra.
«Non stiamo parlando di calendari, qui, Sarah, parliamo di film porno. Con uomini, con donne, con...» Rabbrividì. «Con animali. Dio, non riesco a credere a qualcuna delle cose che ho fatto.»
Aveva ragione. Anche in una cosiddetta epoca illuminata, era qualcosa che poteva distruggere la sua carriera.
«E se tu negassi?» chiesi, ma senza molte speranze.
«Lui sa troppo» rispose Kim, confermando i miei timori. «Immagino che abbia contatti con la polizia di Los Angeles. Sarah, alcuni di quei video si possono ancora trovare, se sai dove cercarli. Non c'è neppure bisogno che lui abbia i nastri. Basta che dica i titoli ai tabloid, e chiunque può scovarli. Non solo, ha intenzione di pubblicizzarli su Internet. È quello che ha detto. A meno che...»
«A meno, che cosa?»
«A meno che non lo aiuti a ottenere qualcosa che vuole da te» mormorò Kim, a occhi bassi.
«Ah.»
I pezzi stavano cominciando a combaciare.
Kim si passò le dita fra i capelli, e quando la coperta le scivolò dalle spalle vidi i lividi sulla sua pelle chiara. Mi sentii ribollire per la rabbia.
«Dio, Sarah, sembrava così gentile, sulle prime» disse lei. «Non ce ne sono rimasti molti, di tipi così. Perlopiù pensano solo alla loro carriera, e rifuggono da ogni tipo di impegno...»
Si interruppe, e seguendo il mio sguardo si coprì di nuovo con la coperta.
«Ma non intendo cercare scuse. C'è ancora qualche brav'uomo, immagino. Forse io li intimidisco, semplicemente. Comunque, Gabe mi piaceva davvero, al principio. Sembrava così premuroso, disponibile... direi dolce, capisci?»
Annuii.
«Sì. È quello che pensavamo tutte.»
«Be', poi ha cominciato a farmi... delle cose. Ha detto che era parte del patto. O facevo quello che mi chiedeva, gli davo tutto quello che voleva, nel modo che voleva... e ottenevo quella cosa da te... o avrebbe reso pubblici i video.»
«Non ti ha detto di quale cosa si trattava?» chiesi.
«Stava per farlo, penso. Ma poi sei entrata tu...»
«Kim, sai dov'è Gabe? Avete lasciato il capanno insieme?»
«No. Subito dopo che te ne sei andata, abbiamo sentito una sirena, e Gabe ha pensato che stessi chiamando tutti per farli venire al capanno. A quel punto se n'è andato. E sai che cos'ha detto? "Allegra, carina. Non credere che non sia stato uno spasso."» Fece una smorfia. «Sono fuggita anch'io, ma non ho preso la stessa strada. Cercavo di stare alla larga da lui.»
«Be', non devi più preoccuparti di Gabe» mormorai, stringendole la mano. «Quello che voleva che ottenessi da me è al sicuro, e non dirò a nessuno dove. Se torna, farò in modo che lo sappia.»
Lei spalancò gli occhi.
«Sarah, non puoi farlo! Non sai che cos'altro ha fatto!»
«Di che stai parlando?»
«Ha detto di avere ucciso una donna perché non voleva dirgli dov'era quella cosa. L'ha uccisa proprio qui, sull'isola. Credo che parlasse di Jane.»
Avrei voluto piangere. No, non era Jane, anche se, probabilmente, Gabe aveva ucciso anche lei. Ma era Angel che aveva ucciso perché non voleva dirgli dov'era la scatola Allegra. Angel, che era stata leale sino alla fine.
Mi chinai in avanti e posai la testa sulle ginocchia piegate, a occhi chiusi. L'avrei fatta pagare a Gabe, anche se fosse stata l'ultima azione della mia vita. E non avrei lasciato alla legge il compito di punirlo. Sapevo troppo bene come andavano le cose, in questi tempi di insufficienza di prove. E anche se fosse stato accusato e condannato, c'erano sempre quei maledetti appelli.
No... avrei saldato il conto con Gabe personalmente. A un assassino come lui non doveva essere consentito di vivere.
Non mi resi conto di averlo dichiarato ad alta voce fino a quando Kim non disse: «Voglio aiutarti. Qualunque cosa tu gli faccia, ti aiuterò, Sarah».
Alzai gli occhi.
«Anch'io» rincarò la voce di Dana alle nostre spalle. «Quel sudicio bastardo.»
Ci voltammo, sorprese.
«Oh, non mi sono innamorata di lui... niente del genere» proseguì Dana. «Ma mi piaceva. E così, un giorno gli ho raccontato il mio progetto... lasciare mio marito e raggiungere un altro uomo a Vancouver. Mi ha fatto ogni sorta di domande su quest'altro uomo, e come uno stupida, io gli ho raccontato tutto. E allora, lui ha minacciato che se non l'avessi aiutato a ottenere qualcosa da te, Sarah, avrebbe detto a mio marito dove trovarci, una volta tornato sulla terraferma.»
«E tu che cos'hai risposto?» chiese Kim.
Dana sollevò il mento.
«Gli ho detto di andare all'inferno, che il mio amico e io saremmo stati fuori dal paese, prima di allora, e che non ci avrebbe mai trovati. E ho aggiunto che se mai avesse parlato con mio marito, l'avrei denunciato alle autorità. Non sapevo che cosa volesse da te, Sarah, ma capivo che non poteva essere niente di buono. Gli ho detto anche di lasciarti in pace.»
Le due donne mi guardarono, con una domanda negli occhi.
«Mi ha lasciata in pace» confermai. «Perlomeno, non ha cercato di costringermi con la forza a dirgli quello che voleva sapere. Invece, ha tentato la strada della seduzione.»
«Quell'uomo merita una dose della sua stessa medicina» affermò Grace, rabbiosa.
Solo allora ci accorgemmo che si era avvicinata anche lei e si era fermata a pochi passi dal cerchio di luce del fuoco.
«Deve sentirsi del tutto vulnerabile» continuò. «Indifeso. Privo di ogni potere. Anzi, quello che merita realmente è di morire.»
Incontrai il suo sguardo rabbioso e pensai al fratello che aveva perduto. Pensai ad Angel, alla sua vita spezzata, e a mia madre, che non avrebbe mai dovuto provare la paura di cui doveva essere preda ancora in quel momento. Pensai a Lonnie Mae, che aveva fiduciosamente creduto che l'avrei protetta, e a Jane, la povera Jane che non era vissuta abbastanza per rivedere i suoi bambini.
«Che cos'hai in mente?» chiesi.
«Non lo so ancora» rispose Grace. «Ma non gli permetteremo di farla franca. E non lo consegneremo neppure semplicemente alla polizia. Non ancora.»
«Sono d'accordo» affermai, alzandomi.
Mi sentivo bene, in quel momento, sapendo di avere il suo appoggio alla mia rabbia.
Dana si alzò a sua volta, e anche Kim. Tutte noi ci prendemmo per mano attorno al fuoco, guardando le fiamme, come streghe che lanciassero una maledizione. Onestamente, non so che cosa pensassero le altre... ma per me, si trattava solo di vendetta.
Dopo qualche istante, ci accosciammo accanto al fuoco, e avvicinando le teste concepimmo un piano.
Era un piano orribile, un piano che poteva nascere solo in menti che erano state sottoposte a una tensione eccessiva e avevano sopportato troppo. Ma ci trovammo tutte d'accordo. Non lo avremmo realmente ucciso, ci dicemmo, anche se avremmo desiderato farlo. Volevamo solo spaventarlo. Dargli una lezione.
Il problema era che nessuna di noi capiva del tutto i nostri motivi. O la nostra rabbia. Ed è così che accadde... la nostra discesa all'inferno.
Nessuna di noi dormì molto, quella notte. Potevo sentire le altre girarsi e rigirarsi, proprio come me. Una volta, sentii Kim piangere. Un pianto sommesso, ma che racchiudeva un mondo di sofferenza.
Lasciammo Thornberry al mattino presto, ciascuna portando uno zaino. Luke era andato al suo capanno per parlare al telefono con suo padre. La sera prima mi aveva detto che l'arrivo dei soccorsi era imminente, e sarebbe giunto entro le prossime quarantotto ore.
Non gli avevamo parlato del nostro piano. E neppure a Timmy e ad Amelia. Tutti credevano che andassimo in cerca di altra legna per accendere un falò, nel caso in cui un aereo o un elicottero avesse sorvolato l'isola.
Raccogliere legna per il fuoco era la scusa perfetta per partire così presto tutte assieme. Pensavamo di sapere dove Gabe aveva passato la notte: nell'altro capanno, quello vuoto lungo la costa, a breve distanza dal suo. Avrebbe voluto avere un tetto sopra la testa, ragionavamo, nel caso di un temporale. Se, come sospettavamo, aveva ucciso Angel e sapeva che l'avevamo trovata, era probabile che si fosse nascosto là per la notte. Il capanno era isolatissimo e si trovava a circa tre chilometri da Thornberry. Se ci arrivavamo abbastanza presto, potevamo sorprenderlo là.
Di una cosa eravamo certe: non sarebbe mai tornato a Thornberry, dopo che io avevo sorpreso il suo piccolo rendez-vous con Kim.
Dana, Grace e Kim si fermarono a una certa distanza dal capanno, nascoste fra gli alberi, mentre io andai alla porta. Se Gabe era là, ero certa di poterlo attirare all'esterno, avevo affermato.
Dopo avermi vista entrare, il piano prevedeva che andassero in un luogo che avevamo scelto in precedenza, nei boschi, una piccola radura nei pressi dell'Albero del fantasma. Luke e io avevamo nascosto la scatola Allegra in un cavo dell'albero, la sera prima. Sarebbe stato un posto perfetto per il nostro piano.
Bussai, aspettai, poi bussai di nuovo. I miei muscoli si tesero. E se il nostro piano non fosse andato come avevamo previsto?
Se Gabe non era là?
Dopo un intero minuto, la porta si socchiuse. Mi rilassai leggermente. Poi la porta si aprì, permettendomi di entrare.
«Sarah!» esclamò Gabe, mentre mettevo piede nella piccola stanza. «Speravo d'incontrarti. Volevo spiegarti ciò che hai visto ieri.»
Il suo sorriso era accattivante come sempre.
«Piantala, Gabe» dissi stancamente. «So che non sei quello che affermi di essere.»
Lui parve sorpreso.
«Che cosa intendi...»
«Senti, veniamo al punto. Ho parlato con Kim, e anche con Dana. Se vuoi continuare il tuo gioco, va bene, me ne vado. Sono venuta qui solo per darti quello che cerchi.» Allargai le braccia. «Ma se non lo vuoi...»
Feci per andarmene.
«Aspetta un momento» mormorò lui.
Gli lanciai un'occhiata da sopra la spalla e vidi la sua aria indecisa. Voleva credermi, ma non ci riusciva. Provai una certa soddisfazione.
Gabe si strofinò il mento.
«Stai forse parlando della tua prova contro i Cinque di Seattle?»
Annuii.
«Perché dovresti volermela dare proprio adesso?» chiese lui, sospettoso.
Sospirai, abbassando gli occhi. Dopo un momento dissi a bassa voce: «Perché non ce la faccio più. E perché non voglio che qualcun altro abbia a soffrire per il pasticcio in cui mi sono cacciata.» Sollevai lo sguardo, supplichevole. «Ti prego, Gabe. Questa storia deve finire. Nessun altro deve soffrire. Non ne vale la pena. Puoi fare quello che vuoi, con me. Solo, lascia in pace tutti gli altri.»
Ero certa che Kim sarebbe stata fiera della mia esibizione. Per la verità, non era poi così difficile apparire disperata. Era esattamente così che mi ero sentita dopo avere trovato il corpo di Angel, come se non mi importasse più di nulla. Tutto quello che dovevo fare era dirlo ad alta voce.
Gabe parve studiarmi, soppesando le mie parole.
Finalmente, tese la mano.
«Okay, vediamo questa prova.»
Esitai.
«Se te la do, non avrai alcuna ragione per fare del male ad altre persone, giusto?»
Lui si strinse nelle spalle.
«Nessuna ragione.»
«Lascerai tutte in pace?» chiesi, in tono speranzoso. «Anche Kim?»
Lui rise.
«Mia cara, non potrebbe importarmi meno di quella sciocca bambolina. È stata solo uno strumento, e neppure molto buono. Non appena avrò ottenuto quello che voglio, farò una telefonata dal cellulare del tuo amico e me ne andrò da qui. Nessuno sentirà mai più parlare del sottoscritto.»
Annuii e accennai alla porta.
«È là fuori. L'ho nascosta nel cavo di un albero. Ti porterò là.»
Il trionfo di Gabe era evidente.
«È il tuo show, Sarah. Fammi strada.»
Uscimmo dal capanno e percorremmo il sentiero che conduceva all'Albero del fantasma. Quando vi giungemmo, infilai la mano nel cavo, tirai fuori la scatola Allegra e la porsi a Gabe.
«Dimmi solo una cosa. Per chi lavori? È evidente che non sei un poliziotto di Seattle mandato da Ian per proteggermi.»
Ignorando la mia domanda, lui aprì la scatola ed esaminò il contenuto. Sorridendo, tirò fuori la busta di plastica con le calze, guardandola in controluce.
«Sperma? Intendevi richiedere la prova del DNA?»
Annuii.
«Guarda, guarda. Avevo pensato che si trattasse di qualcosa del genere. Su una cosa ti sbagli... sono un poliziotto di Seattle. O almeno, lo ero. Dopo avere consegnato queste nelle mani giuste, potrei essere costretto a lasciare la zona. A tenermi defilato per un po'.»
«Sei un poliziotto? Lavori per i Cinque di Seattle?»
«I Cinque?» Gabe rise, sprezzante. «Credi che solo perché c'erano cinque agenti in quel particolare turno, non ci sia nessun altro?» Rimise le calze nella scatola, poi mi guardò. «Be', ecco fatto, allora. Ti rendi conto che non posso andarmene da qui lasciandoti viva.»
«Be', immagino che questo sia ancora tutto da vedere» affermai, incrociando le braccia sul petto.
Lui rise.
«Devo riconoscere che hai fegato. Ma sai, non è difficile sopraffarti. Ricordi quel giorno in cui io ti ho colpita alla testa nel tuo cottage? Intendevo portarti a vedere la tomba della tua amica Angel. Pensavo che forse, allora, avresti ceduto.»
Quando Gabe pronunciò il nome di Angel con tanta noncuranza, mi salì il sangue alla testa. Poi, mi resi conto di ciò che aveva detto. Quando mi aveva trascinata lungo il sentiero, non sapeva che avevo la scatola Allegra nella camicia. Doveva essere stato sorpreso da Luke e Grace, ed era fuggito senza accorgersi che la scatola era caduta.
«Tu hai ucciso Angel?» chiesi, cercando di apparire sorpresa.
«In effetti, no. Ha battuto la testa...» Gabe si interruppe, come irritato di dover ripensare all'episodio. «È stato un incidente.»
«Come sarebbe a dire, un incidente?»
«Non ha importanza, adesso. Torniamo al capanno.»
«Al capanno?» ripetei, chiedendomi quali cose innominabili quel pazzo avesse in programma per me. «Non andrò da nessuna parte fino a quando non mi dirai che cos'è successo ad Angel.»
Il sorriso di Gabe era crudele. Tutto il suo fascino era solo un ricordo. Sembrava convinto del potere che aveva su di me.
Rigirando la scatola Allegra fra le mani, disse: «C'è tempo, immagino. La verità è che Angel e io ci frequentavamo da un po' di tempo. Avevo attaccato discorso con lei in un bar di Seattle, il McCoy's. Stava cercando un uomo, sai?» Rise. «Angel fu una conquista facile. Era sola da molto tempo, suppongo. Da così tanto, che sulle prime non riuscivo neppure a farle aprire le gambe.»
La rabbia mi soffocò.
«E così, Angel ti ha fatto il filo» riuscii a dire a stento.
«Non ci credi?» ironizzò Gabe. «Mi si è letteralmente appiccicata. Voleva farmi conoscere la sua famiglia, i suoi amici... come se ci fosse realmente qualcosa fra noi. Stupida sgualdrina.»
Avrei voluto ucciderlo. Le mani mi prudevano dal desiderio di stringersi attorno alla sua gola, e non so come riuscii a trattenermi.
«Come sapevi che era legata a questa vicenda?» chiesi.
«Era con te al McCoy's quando hai annunciato a Mike Murty e agli altri che avevi qualcosa contro di loro. Ho pensato che avessi detto a lei più di quanto avevi detto a noi. Allora, il punto è diventato quello di tirarglielo fuori.»
«E come hai fatto a scoprire che ero a Thornberry?»
«Pensaci. Hai chiamato l'ufficio di Angel e hai lasciato un messaggio e il numero di Thornberry alla sua segretaria. Quando sono passato a prendere Angel per portarla fuori a pranzo, quel giorno, ho visto il messaggio sulla scrivania. Ho inventato una scusa per sparire per qualche giorno, in modo da poter venire sull'isola a cercarti. Quando sono arrivato qui, ho trovato un capanno con il cartello VENDESI, e ho deciso che sarebbe stata una buona copertura fingere di averlo comprato. Non ero arrivato neppure da dieci minuti, però, quando Angel mi ha raggiunto. Si era insospettita e mi aveva seguito. Stupida sgualdrina. Era anche gelosa.»
Povera Angel. Aveva messo la sua vita nelle mani di quel mostro, solo perché aveva voluto aiutarmi.
«Che è successo? Che cosa le hai fatto?» chiesi a bassa voce.
«Ho deciso che, visto che sapeva che ero qui, tanto valeva che cercassi di farmi dire dov'era la prova.»
«Ma l'hai uccisa! Come poteva dirti qualcosa, se era morta?»
«È stato un incidente. Non intendevo ucciderla, credimi. La volevo viva. Mi avrebbe detto dov'era quella maledetta prova, prima che la notte finisse. Ma quando l'ho colpita, la sedia si è rovesciata, e ha battuto la testa.»
«Come sarebbe a dire la sedia si è rovesciata?»
«Dio, sei proprio ottusa! L'avevo legata a una sedia per farle qualche domanda.»
«Hai legato Angel a una sedia?» L'immagine della mia amica che soffriva in quel modo mi bruciò nel cervello. «Per quanto tempo?»
«Non lo so. Qualche ora. Un giorno, forse.»
«Un giorno. E in tutto questo tempo, che cosa le hai fatto?»
«Niente. Cercavo solo di farmi dire...» Gabe scosse la testa. «Come ho detto, era una stupida sgualdrina.»
«Abbastanza furba da seguirti fin qui» non potei fare a meno di ribattere. «Ma se non fosse accaduto in quel modo, l'avresti uccisa ugualmente, giusto? Non potevi liberarla, perché appena tornata a Seattle ti avrebbe denunciato. Proprio come ora non puoi lasciare in vita me.»
Lui si strinse nelle spalle.
«E così, l'hai seppellita nei boschi vicino al tuo capanno, pensando che non sarebbe mai stata trovata. Ma poi il terremoto di ieri notte l'ha fatta riaffiorare.»
«E così, l'hai scoperto. L'avevo immaginato.»
«E Jane? Anche quello è stato un incidente?»
«No, ma non avevo intenzione di ucciderla. Avevo trovato il cellulare nel capanno di Luke. Visto che il mio era andato rotto nel terremoto, non avevo potuto mettermi in contatto con la terraferma. Non volevo ancora scoprirmi, perciò ho pensato di usare il suo telefono, e poi di rimetterlo a posto. Me lo sono portato nei boschi per essere certo che Luke non mi sorprendesse a usarlo, ma Jane è comparsa proprio mentre componevo il numero per fare rapporto. Ragazzi, avresti dovuto vedere la sua faccia quando si è resa conto che avevo un telefono! È impazzita. Ha lottato per prendermelo, ma poiché non avevo ancora trovato la prova, non potevo permetterle di chiamare qualcuno che avrebbe mandato i soccorsi.»
«E così l'hai uccisa.»
«È stata piuttosto una zuffa.» Gabe mi mostrò la scatola Allegra. «E ora, mia piccola Sarah, a proposito della prova... ho un po' di cose da fare, come per esempio andarmene da questa dannata isola.»
Fece per afferrarmi.
«Non credo» ribattei. Feci un passo indietro e dissi chiaramente: «È ora».
Dana e Kim uscirono nella radura. Gabe si voltò a guardarle, sorpreso. Grace si portò rapidamente alle sue spalle, e usando lo stesso bastone da passeggio con cui lo avevo colpito la prima notte, sulla porta di cucina, gli vibrò un colpo sul capo. Stordito, Gabe si portò le mani alla testa e cadde in ginocchio.
In un secondo, fummo su di lui.
Grace gli si inginocchiò sulla schiena e gli tirò le braccia sopra la testa, immobilizzandole sul terreno. Avevamo nascosto gli zaini nel cavo dell'albero, e io tirai fuori il mio e lo vuotai a terra. Kim prese un lungo pezzo di filo di ferro e legò i polsi di Gabe. Dana e io ci occupammo delle gambe, e fra tutte e quattro lo rivoltammo sulla schiena.
Kim gli si sedette sopra, puntandogli al collo un punteruolo per il ghiaccio. Vuotai a terra il contenuto degli altri zaini, e dal mucchio scegliemmo dei paletti da giardino di legno e due martelli, con i quali Grace e io piantammo profondamente i paletti nel terreno, distanziati di poco meno di un metro, due sopra la testa di Gabe per le mani, e due per i piedi. Grace gli sciolse i polsi mentre tutte noi lo tenevamo fermo. Poi legò ciascun polso a un paletto, e io gli legai le caviglie agli altri due.
Ci vollero meno di due minuti per assicurarlo saldamente al terreno, a braccia e gambe larghe.
Era stata un'idea di Grace, ma Dana aveva aggiunto i dettagli. Una vecchia usanza indiana, disse ad alta voce, adesso, a beneficio di Gabe.
«Tranne che loro legavano il loro nemico nel deserto, sotto il sole, e lo lasciavano a essere divorato dalle formiche e dai falchi. Per te sarà diverso, Gabe. Alla fine, la fame ti torturerà le viscere e la sete ti chiuderà talmente la gola che non sarai più capace di parlare.» Rise. «Immaginate... Gabe senza la sua lingua sciolta.. Potresti perdere anche quel sorriso accattivante.»
«Dovrebbe essere una bella giornata, oggi» contribuì Kim, come se chiacchierasse del tempo con un'amica. «Calda e soleggiata. Questo dovrebbe giovare.»
Nei primi momenti, Gabe era stato troppo sbalordito per ribellarsi. Questo ci aveva fornito un vantaggio. Ora che cominciava a capire, iniziò anche a dibattersi per liberarsi.
«Per l'amor del cielo, smettetela!» gridò. «Lasciatemi andare! Siete impazzite?»
Probabilmente, era più vicino alla verità di quanto si rendesse conto.
Io, per parte mia, avrei voluto piantargli uno di quei paletti nel cuore. E quando guardai Grace, l'espressione del suo viso terrorizzò anche me. Pensai che Gabe Rossi non aveva più probabilità di uscirne vivo di quante ne avesse una palla di neve all'inferno. E lui lo sapeva.
Il che era proprio il nostro scopo. Volevamo che provasse la paura. La mancanza di potere. Lo stesso genere di tortura che dovevano avere subito Angel e Jane... e Ramon, il fratello di Grace.
A parte questo, ci aveva usate. Ci aveva ingannate, indotte a fidarci di lui. Ci sentivamo sciocche e infuriate. Volevamo vendetta.
Ma solo una piccola vendetta, un'intera giornata nei boschi, immobilizzato, nudo e vulnerabile, con il tempo di riflettere sui suoi peccati. Un giorno e una notte con gli avvoltoi che gli volavano in cerchio sopra la testa.
Al mattino lo avremmo slegato, e poi tenuto prigioniero nel capanno di Luke fino all'arrivo della squadra di soccorso. Allora l'avremmo consegnato alla legge.
Ma non avevamo ancora finito con lui.
Grace cominciò il rituale. Prese un paio di affilate forbici da cucina dal mucchio di oggetti che avevamo portato con noi, s'inginocchiò di nuovo sul petto di Gabe e gliele puntò contro il viso. Poi, con un movimento rapido, improvviso, sollevò le forbici e vibrò un colpo verso il basso, in direzione del petto.
L'urlo di Gabe mi diede i brividi, e insieme un freddo, chiaro senso di soddisfazione nel vedere il suo terrore. Il solo problema, per me, fu che non durò abbastanza a lungo.
Quando Gabe si rese conto che le forbici si erano fermate a pochi centimetri dal suo petto, guardò in basso per vedere che cosa stava facendo Grace. Lei gli rise in faccia.
«Non avrai pensato di cavartela così a buon mercato, vero? No, ti vogliamo vivo.»
Cominciò a tagliargli via la camicia. Dana spinse da parte le due metà, in modo da denudargli interamente il petto. Il viso di Gabe era inespressivo, e la sua pelle rabbrividiva per la paura sotto le mani di Dana. Lei aveva la stessa espressione di quando aveva suonato il tamburo, sere prima, come se si fosse trasferita su un diverso piano della realtà.
Grace tagliò le maniche della camicia, e Dana gliele sfilò. Poi, Grace consegnò le forbici a me, e io cominciai con i jeans. Mi fermai dopo avere scoperto la zona dell'inguine, e consegnai le forbici a Kim... che le tenne un po' troppo a lungo sospese sopra il pene. Se non fossimo state tutte là, avevo la sensazione che forse gliel'avrebbe tagliato via.
Gabe pensò seriamente che lei stesse per farlo. I muscoli del suo addome nudo si contrassero, e il viso sbiancò.
«No, no, ti prego, no, non farlo...» gemette.
Quel lamento mi diede maggiore soddisfazione di quanta me ne avesse data l'urlo. Avrei solo voluto essere stata io a provocarlo.
Kim rise.
«È buffo» gli disse a quel punto. «È esattamente quello che ho detto io quando mi toccavi, ieri nel capanno, ricordi?»
Spostò le forbici più vicino, fino a toccare il pene con le lame.
«Avanti» mormorò Grace. «Fallo.»
Kim la guardò.
«Dovrei?»
Grace annuì.
«Fallo! O lo farò io.»
Afferrò le forbici.
«No!» urlò Gabe.
Grace rise. E anche Kim.
A quel punto, noi quattro gli avevamo tagliato via tutti gli indumenti. Gli rimaneva ben poca forza, e quella poca si esaurì negli sforzi per liberarsi.
Desiderai avere il coraggio di ucciderlo. Volevo farlo. Ma quando ci pensai seriamente, mi parve che non ne valesse la pena. Invece, presi da terra la scatola Allegra e me la infilai nella cintura dei jeans, voltando le spalle alla sua faccia disgustosa.
Lo lasciammo là, immobilizzato a terra. Gli augurammo una buonanotte... purché sopravvivesse alla notte, aggiungemmo.
Streghe pazze, eravamo, chine sopra un ribollente calderone d'odio. Se avessi dovuto difenderci tutte e quattro in tribunale, pensai a un certo momento, avrei vinto a mani basse invocando l'infermità mentale.
Più tardi, quella notte, mi svegliai con l'impressione di avere sentito un rumore... una specie di schiocco lontano, soffocato. Pensai perfino, insonnolita, che sembrava quasi un colpo di pistola, ma poiché nessuno di noi aveva una pistola o almeno era quello che credevo, diedi per scontato che si trattasse di un tuono e tornai a dormire. I lampi avevano solcato il cielo per tutta la notte, e prima di metterci a dormire Dana, Kim, Grace e io avevamo discusso di come questo avrebbe potuto influire su Gabe. Kim aveva riso, aspra, e aveva detto che forse un fulmine l'avrebbe colpito e ucciso. Ma nessuna di noi lo credeva, in fondo al cuore.
Questo è il pensiero a cui mi aggrappo, ancora adesso. Nessuna di noi lo credeva, in fondo al cuore. E benché questo possa non contare molto di fronte ai freddi occhi della legge, il pensiero che non stavamo facendo nulla di veramente male ci confortava. Era solo un modo per fargli pagare una piccola parte delle sue colpe. Al mattino l'avremmo liberato e tenuto rinchiuso fino all'arrivo delle autorità, e tutto sarebbe andato bene.
Fu poco prima dell'alba che mi svegliai e sentii qualcuno aprire la porta di cucina e scivolare silenziosamente nella stanza. Non mi mossi, tranne che per abbassare la coperta di quel tanto che bastava per vedere chi era.
Grace era in piedi vicino alla stufa a legna. Le braci si erano quasi del tutto spente, ma c'era ancora un bagliore rossastro sufficiente a permettermi di vedere che il suo viso era pallido e sconvolto. Le mani, quando le protese al di sopra del calore, tremavano.
«Grace?» bisbigliai. «Che succede?»
Lei mi guardò con gli occhi spalancati, neri come carboni. Le chiesi di nuovo che cosa succedeva, ma non rispose. Invece, andò alla sua coperta, dall'altra parte della stufa, e vi si avvolse, tirandosela sopra la testa.
Il mattino dopo, quando andammo a liberare Gabe, Grace rimase a casa. Non aveva ancora parlato con nessuna di noi, e non insistemmo. Non c'era problema, le assicurammo. Saremmo andate sole. Capivamo.
Ma nessuna di noi capiva realmente. Delle quattro, avevamo pensato che Grace sarebbe stata la più accanita nel tormentare Gabe. Una specie di chiusura dei conti, come aveva detto Luke, per ciò che era accaduto a suo fratello.
Lungo la strada, vedemmo degli elicotteri che volavano in cerchio. Cercavano il punto migliore per l'attracco dei battelli, immaginammo, e con un po' di fortuna saremmo state fuori dell'isola e di ritorno a Seattle prima di mezzogiorno. Luke era andato sulla spiaggia, sperando di guidare l'atterraggio verso una radura da quella parte. Timmy e Amelia stavamo già preparando i bagagli.
Quando giungemmo nel punto in cui avevamo lasciato Gabe, ci fermammo di colpo. Lo shock non fu dissimile da quello che avevamo provato durante il terremoto.
Gabe era morto. Una pallottola gli aveva attraversato la testa.
Dopo il primo momento d'incredulità, convenimmo che era chiaro che era stata Grace. Non sapevamo come si fosse procurata una pistola, ma come ex poliziotto poteva averne avuta una fin dal principio. Deciso questo, non ne discutemmo più a lungo. Invece, cominciammo a rimuovere qualunque cosa avesse anche la più remota probabilità di recare impronte digitali o tracce di DNA. Fu una mia idea, ma nessuna sollevò obiezioni.
E così, cercavamo di coprire Grace, la sola per cui nessuna di noi aveva simpatia. La coprivamo perché sapevamo che eravamo colpevoli quanto lei della morte di Gabe. L'avevamo messo in una posizione in cui era stato impossibilitato a difendersi, in quegli ultimi momenti.
Quando i soccorritori arrivarono, non dicemmo nulla di Gabe, ma lasciammo che fossero loro a trovarlo. Fu chiamato l'ufficio dello sceriffo di San Juan, e venne lo sceriffo in persona. Trovarono anche Jane. E Angel. Avevano intenzione di arrestarci tutte, comprese Timmy e Amelia, di condurre dei test e di prenderci le impronte digitali. Ci sarebbero state indagini approfondite su tutte noi, comprese Dana e Kim, che avevano entrambe dei segreti che, se scoperti, potevano rovinare la loro vita.
Non potevo permetterlo. E non potevo neppure permettere che Timmy e Amelia subissero un trattamento del genere, quando erano state trascinate in quella vicenda solo a causa mia. Perciò, feci quello che dovevo fare. Confessai. Dissi che avevo ucciso Gabe per la rabbia, quando avevo scoperto che era in combutta con gli stessi poliziotti che mi avevano incastrata con una falsa accusa di possesso di droga, e che aveva ucciso sia Angel sia Jane.
Lo sceriffo di San Juan era scettico. Si chiedeva come fossi riuscita ad avere la meglio da sola su un uomo della corporatura di Gabe.
«L'ho colto di sorpresa» dichiarai. «L'ho colpito alla testa e ha perso i sensi. È quello che mi ha confessato di avere fatto a Jane. Mi sembrava una giusta punizione.»
Non riuscirono a smuovermi dalla mia storia, e tutte le altre donne rimasero in silenzio, come avevo chiesto loro di fare.
«Aggiusterò tutto io» avevo detto. «Non vi preoccupate. Finirà tutto bene.»
Questo era da vedersi, ma dovevo convincerle. Non potevo permettere che qualcuno soffrisse a causa mia.
Alla fine, lo sceriffo lasciò andare le altre, in attesa di ulteriori indagini.
Ian era venuto con la squadra di soccorso, e cercò di prendersi cura di me. Parlò con lo sceriffo di San Juan e gli chiese di trattarmi bene. Fu sollecito, quasi come il vecchio Ian, cercando di frapporsi fra me e chiunque altro. Non gli piaceva neppure che parlassi con le altre donne, una volta che fui arrestata. Rammentandomi i miei diritti, aggiunse: «Non parlare con nessuno. Non si sa mai chi può comparire in tribunale e testimoniare su qualcosa che può metterti in cattiva luce».
Aveva ragione. Lo sapevo, e seguii il suo consiglio.
Mentre lo sceriffo mi faceva salire sull'elicottero per portarmi a Friday Harbor e alla prigione della contea di San Juan, guardando indietro vidi Luke che, con il cellulare in mano, parlava con un tale che era arrivato con la squadra di soccorso. Ora, alzò gli occhi una volta mentre l'elicottero si sollevava in aria. Cercai di leggere la sua espressione, ma era neutra. Mi parve che indicasse il cellulare, ma non potevo esserne sicura. Non sapevo se stava inviando un messaggio a me o a qualcun altro.
Le donne erano tutte là, comunque... Timmy, Amelia, Dana, Grace e Kim. Tenendosi per mano, si erano riunite tutte assieme per dirmi addio. Mi salirono le lacrime agli occhi. E pensare che, a volte, avevo desiderato separarmene, non avere più nulla a che fare con loro. La catastrofe creava davvero strani compagni di letto. Era successo a tutte noi.