5

Eravamo in soggiorno quando accadde... Grace, Amelia, Dana e io. Jane era tornata al suo cottage, e Kim Stratton non si era neppure fatta viva. Timothea e Lucy erano in cucina a riordinare.

Come al solito, dopo cena ci eravamo riunite davanti all'enorme caminetto di pietra, circondato da comode poltrone, dove, al posto del fuoco, c'era un grande mazzo di fiori freschi, in omaggio al tempo insolitamente caldo di cui le isole San Juan beneficiavano in quei giorni.

Eravamo tutte a stadi diversi della nostra vita di scrittrici. Dana lavorava al suo saggio sui rimedi naturali, Amelia a una nuova raccolta di poesie e Grace... Grace non aveva mai detto a che cosa si stava dedicando. Tutto quello che sapevo, a quel punto, era che doveva avere un'ottima ragione per essere venuta su quell'isola remota, con pochi abitanti e pochissime comunicazioni con il resto del mondo. Esme Island apparteneva a Timmy e agli altri proprietari delle case sull'isola. L'elettricità veniva fornita da generatori, e l'acqua dai pozzi. C'era una radio a batterie, a Thornberry, e un unico telefono cellulare che sfruttava un ripetitore a Orcas. Ci era stato chiesto di lasciare a casa i nostri cellulari, e Timmy riteneva che lei e il personale dovessero condurre una vita altrettanto semplice di quella delle sue ospiti.

Quanto al tempo, poteva diventare molto brutto anche in primavera, con forti venti e tempeste interminabili. Nessuno veniva a Esme senza una buona ragione.

Quella serata, comunque, era cominciata in modo abbastanza tranquillo. Attraverso le portefinestre potevamo vedere il tramonto. Una famiglia di cervi brucava l'erba del prato. Dana sorrise e commentò: «Jane aveva ragione. Questo è proprio il paradiso».

Amelia sbuffò.

«Il paradiso? Be', se per caso ti imbattessi in Dio, chiedigli come si fa a far funzionare quelle dannate stufette a legna dei cottage. Un giorno o l'altro vorrei riuscire a scrivere un'intera poesia di dieci righe prima che quell'aggeggio si spenga.»

Dana mi indirizzò un sorriso e io mi rivolsi ad Amelia.

«Parli come se questo posto non ti piacesse.»

Lei incrociò le braccia sul petto prosperoso.

«Non ho detto questo, no?»

Sorrisi.

«No, non l'hai detto.»

«Be', non mettermi le parole in bocca.»

Amelia fissò il caminetto come se ci fosse il fuoco acceso.

Forse Dana aveva ragione, pensai a quel punto. Vecchi traumi... perfino omicidi... dovevano aleggiare ancora attorno a Thornberry. Altrimenti, perché tanta gente era così di cattivo umore?

Quella sera era peggio che mai. C'era qualcosa nell'aria, e influiva su tutte. Kim Stratton era saggia, restando nascosta nel suo cottage. Da quella sera in avanti, mi ripromettevo di fare altrettanto.

«Be', credo che comincerò» annunciò Amelia, tirando fuori un sottile fascicolo di carta bianca da una borsa ricamata a piccolo punto.

Repressi un sospiro. Eccoci di nuovo. Altre donne sanguinanti su una terra dominata dai maschi. Il cielo mi scampi dalle femministe militanti.

L'ultima fatica di Amelia era, in effetti, fortemente politicizzata, e probabilmente destinata a vincere un altro premio.

Finsi di ascoltare, mentre in realtà, nella mia mente, lavoravo al mio libro.

Avvertii un sobbalzo, e aprii gli occhi di colpo.

«Qualcun altro lo ha sentito?» chiese Grace.

Amelia alzò gli occhi dal suo foglio e corrugò le sopracciglia.

«Sentito che cosa?»

Grace si massaggiò il collo.

«Non lo so... Ho creduto di sentire qualcosa.»

«Lo hai sentito» confermai. «L'ho sentito anch'io.»

«Probabilmente una folata di vento» aggiunse Dana. «Lucy deve avere aperto la porta di cucina.»

Amelia tornò alla sua lettura.

«Maledizione, eccolo di nuovo!»

Grace balzò in piedi.

Aveva appena finito di pronunciare quelle parole quando la stanza fu scossa violentemente.

«Il terremoto!» gridò Dana.

Si afferrò ai braccioli della pesante poltrona, che scivolò come un mobile da bambola lungo il parquet, andò a sbattere contro il caminetto e proiettò Dana contro la cornice di pietra. Lei urlò. Grace barcollò e andò a cadere dall'altra parte della stanza, battendo le ginocchia su di un tavolino e finendo contro una libreria. Il sangue sprizzò dal suo naso. La libreria crollò in avanti, seppellendola. Mi alzai, cercando di mantenere l'equilibrio, e afferrai Amelia. Era così pallida che temetti che svenisse. Non c'era nessun posto dove andare, comunque, nessun posto in cui nascondersi.

Tutt'attorno a me le finestre andavano in frantumi. I frammenti piovevano da tutte le parti. I vetri sottili delle portefinestre erano come lame affilate. Sentii una fitta alla guancia mentre le statuine di porcellana, trasformate in proiettili, volavano via dalla mensola del camino e dagli scaffali. Le veneziane vibravano e si rompevano, cadendo fragorosamente a terra. Il movimento ondulatorio continuò per un tempo interminabile, e il suono lacerante del sistema d'allarme riempì la notte.

Quando la terra smise di tremare, eravamo tutte in varie posizioni sul pavimento. Dana giaceva contro il caminetto, con un braccio sanguinante. Grace, ancora sepolta sotto la libreria, gemeva, ma si sottrasse al peso del mobile e strisciò fuori. Le sanguinava il naso. Amelia, accanto a me, sembrava stordita.

Mi arrabattai in piedi aggrappandomi a un tavolino. Attraversando la stanza per avvicinarmi a Dana, sentii il sangue colarmi lungo la guancia. Il soggiorno era pieno di macerie. Lo stucco si era staccato dal soffitto e il vetro scricchiolava sotto i miei piedi mentre rimuovevo cautamente una trave caduta dal soffitto, poi un'altra. Sdrucciolando su una pila di libri che erano atterrati nel mezzo del pavimento, caddi in ginocchio e lanciai uno strillo quando una scheggia di vetro mi tagliò la pelle. I pantaloni che indossavo si macchiarono di rosso.

Mi avvicinai a Dana ed esaminai il suo braccio ferito. Il taglio era lungo una decina di centimetri, e coperto di polvere di gesso. Questo aveva contribuito ad arrestare il sangue, ma la sporcizia e la polvere di anni non erano certo il massimo per l'igiene della ferita.

«Non sembra troppo brutto» mormorò Dana, visibilmente scossa, trasalendo al mio tocco. «Credo che abbiamo avuto fortuna. Sarah, hai un taglio sulla guancia.»

La voce di Grace risuonò alle nostre spalle, tagliente.

«Non possiamo restare qui. Ci saranno delle scosse di assestamento.»

«Bisogna pulire il braccio di Dana» dissi, aiutandola ad alzarsi. «Dev'essere disinfettato» ripetei.

Agivo automaticamente, sotto shock, mentre il mio cervello cercava di ricordare ciò che avevo appreso in tutte quelle riunioni di preparazione al terremoto, al palazzo di giustizia. Sapevo che dovevamo uscire dalla casa, ma niente aveva senso, in quel momento, a parte disinfettare la ferita di Dana. Il fatto che anche la mia faccia sanguinava non mi toccava minimamente.

«Anche tu, Grace» mormorai. «Ti sanguina il naso.»

Tenendo Dana per il braccio sano, cominciai a spostarmi cautamente con lei sulle schegge di vetro in direzione del bagno. La terra riprese a tremare.

«Maledizione, rimarremo sepolte vive, qui!» urlò Grace, agguantando Amelia e slanciandosi fuori dalla porta principale.

Anche Dana e io balzammo verso la porta, ma non riuscimmo a raggiungerla. La scossa fu ancora più violenta della prima, e stavolta venimmo gettate sul pavimento. Un'asse cosparsa di chiodi mancò il mio mento per pochi centimetri. Dana gridò, con il viso contorto dalla sofferenza.

Delle urla giungevano dalla cucina.

«Timmy!» esclamò Amelia. «È ferita!»

La scala centrale che portava dall'ingresso ai piani superiori crollò fragorosamente, mentre i sostegni della ringhiera si staccavano e schizzavano in tutte le direzioni. La voce di Amelia divenne istericamente acuta.

«Timmy! Sto arrivando!»

Cominciò a strisciare carponi verso le macerie della scala, che ora formavano un cumulo che giungeva quasi al primo piano.

«No!» urlò Grace, tirandola indietro giusto in tempo per salvarla da un gradino pieno di chiodi che volava nella stanza. «Non puoi passare da lì!»

Spinse rudemente Amelia attraverso la porta d'ingresso, che ciondolava appesa a un solo cardine. La donna atterrò in ginocchio sull'erba, con un grido.

Dana e io ci alzammo in piedi e la seguimmo. Grace fu l'ultima a uscire. Lanciò uno sguardo all'entrata bloccata della cucina, poi varcò barcollando la soglia. Si voltò e alzò gli occhi, e un'espressione d'orrore le comparve sul viso. Io seguii il suo sguardo giusto in tempo per vedere i due piani superiori della casa che slittavano verso di noi come gli strati di una torta nuziale.

Voltammo le spalle e cominciammo a correre. Giunte a distanza di sicurezza, guardammo, incredule, l'intera massa che si scuoteva, poi crollava al suolo col fragore di un tuono.

Quando la polvere fu ricaduta, ci avvicinammo, stordite, alle macerie e fissammo la rovina: assi, tubi, stucco, mobilia, indumenti e lavabi dei bagni. L'enorme camino era crollato, e benché parte dei muri del soggiorno restassero in piedi, non c'era più un soffitto, né un tetto. Non restava altro che un mucchio di calcinacci e di mattoni.

Fu Dana che ci fece notare che la terra non tremava più.

«Sentite? Ha smesso.»

Ci guardammo l'un l'altra, con un misto di sollievo e di paura.

«Ricomincerà» affermò Grace. «Quando è così forte, ci sono centinaia di scosse d'assestamento.»

«Hai ragione» convenni.

Non volevo ammettere che ero molto spaventata. Le autorità, a Seattle, ci avvertivano da anni che il Big One stava arrivando, e se era quello ci sarebbero state centinaia, forse migliaia di scosse, e magari anche dei maremoti. Mi chiesi quanto fosse vicino l'epicentro.

Guardai in direzione della cucina, che era di costruzione recente e a un solo piano. Era ancora in piedi, anche se le finestre erano esplose e parti del tetto si erano piegate verso l'interno.

«Ascoltate» dissi.

«Che cosa?» chiese Grace, secca.

«C'è troppo silenzio, là dentro.»

«Oh, mio Dio, Timmy!» esclamò Amelia. Si rivolse a Grace. «Avresti dovuto lasciare che andassi a cercarla!»

«Ti ho salvato la pelle, vecchia mia» ritorse Grace, con le mani sui fianchi. «Potresti essere sotto quelle macerie con loro.»

Amelia arrossì. Aveva il viso rigato di lacrime, le mani tremanti.

«Non so chi credi di essere...»

Mi intromisi.

«Smettetela, tutt'e due, per l'amor del cielo!»

«Non sembra troppo male» osservò Dana sottovoce. «Forse sono salve. Ma... Jane e Kim?»

Provai un'ondata di paura. Erano sopravvissute? Era sopravvissuto qualcuno?

«È impossibile che Timmy sia salva» disse Amelia, querula. «Sarebbe già qui a vedere come stiamo. Le è successo qualcosa, o sarebbe già qui!»

Non era più possibile entrare dalla porta principale. Corremmo attorno alla casa, dirette alla porta di cucina, e rallentammo solo quando la raggiungemmo. Dana si teneva il braccio per fermare il sangue che aveva ripreso a uscire, e Grace si passò un dito sotto il naso, con il solo effetto di spalmarvi il sangue che si era coagulato. Mi tremavano le gambe, e potevo vedere che Amelia non stava meglio. Le presi il braccio, invitandola ad appoggiarsi a me.

La porta della cucina era incastrata, ma riuscimmo ad aprirla, nonostante gli oggetti che vi erano caduti contro. Una volta dentro, la scena ci pietrificò. Benché parti del tetto fossero effettivamente intatte, c'erano degli enormi buchi. L'intero soffitto interno era crollato, come pure il lucernario. C'erano vetri dappertutto, sulle credenze, sui tavoli, nel lavandino, sul pavimento. I paioli di rame che solo pochi minuti prima scintillavano appesi alle pareti, giacevano a terra in un mucchio. I piatti erano volati via dalle credenze ed erano sparpagliati da un capo all'altro della stanza. L'enorme frigorifero in acciaio inossidabile si era rovesciato e giaceva su un fianco attraverso la stanza. La portiera si era aperta, e vasetti di conserve erano caduti fuori e si erano rotti. Rivoli rossi e violacei di marmellata di mirtilli e di lamponi scorrevano come sangue sul pavimento.

Fu questo che attirò la mia attenzione, sulle prime. Pensai che fosse sangue e corsi a vedere, poi mi resi conto del mio errore. Nello stesso momento sentii un gemito.

«Zitta!» gridai a Grace, che stava lanciando ordini a Dana e ad Amelia perché frugassero fra le macerie. «C'è qualcuno, qui.»

Sollevammo insieme il pesante frigorifero, mettendoci tutt'e quattro alla stessa estremità, e lo spingemmo da parte. Sotto trovammo Lucy e quando le sue condizioni divennero evidenti, Amelia cominciò a piangere.

«Lucy... o povera Lucy.»

Le tastai il polso, anche se non era necessario. La bizzarra angolazione della testa diceva chiaramente che Lucy aveva il collo spezzato.

«È morta» annunciai a bassa voce.

«Povera, povera Lucy» sussurrò Amelia, dondolandosi avanti e indietro sulle ginocchia e toccando il viso della cuoca come per riportarla in vita.

«Per l'amor del cielo, donna!» esclamò Grace. «Non era poi la tua migliore amica!»

Amelia sussultò e si guardò attorno freneticamente.

«Timmy? Dov'è Timmy?»

«Ho sentito un gemito» mormorai. «Se non era Lucy...»

Cominciammo a scavare fra i calcinacci e finalmente, in un angolo, trovammo Timothea, con gli occhi chiusi.

Amelia le toccò delicatamente il viso.

«Va tutto bene, va tutto bene, tutto bene...» ripeté, più e più volte.

Ravviai i capelli grigi dalla fronte di Timmy, che era sporca di sangue. Dana andò al lavello a prendere un panno umido, ma quando aprì il rubinetto non ne uscì nulla.

«Maledizione!» Frugò sotto il lavello, poi nelle credenze aperte, in cerca di una bottiglia d'acqua. Finalmente ne scoprì una fra le macerie, sul pavimento.

«Non troppa» l'avvertii, mentre bagnava il panno.

Lei mi guardò con aria interrogativa.

«Non sappiamo per quanto tempo resteremo senz'acqua, né quanta altra ne troveremo» spiegai. «È meglio razionarla.»

Dana annuì e riavvitò il tappo sulla bottiglia, porgendomi il panno bagnato. Ripulii dal sangue la fronte di Timmy, e lei aprì gli occhi. Lo shock iniziale che esprimevano si trasformò in comprensione, poi in ansia.

«Stanno tutte bene?»

La voce tremava, ma la stretta sul mio braccio era forte.

«Non sappiamo ancora nulla di Jane e Kim» risposi. «Per il resto, stiamo bene. Come ti senti?»

«Dolorante. Ammaccata dappertutto.» Cercò di mettersi a sedere. «Lucy? Era vicino al...»

La costrinsi gentilmente a tornare ad appoggiarsi alla parete.

«Riposa, Timmy.»

«Ma Lucy...»

Scossi la testa.

«Mi dispiace. Non abbiamo potuto fare niente per lei.»

L'espressione di Timmy mi disse che aveva capito.

«Oh no, Buon Dio...»

I suoi occhi si colmarono di lacrime.

«Non sappiamo ancora che cosa è accaduto ai cottage» continuai, «ma l'intero piano superiore e parte del soggiorno sono crollati. Mi dispiace.»

Timmy chiuse gli occhi un momento, poi annuì.

«Sto bene. Davvero. Aiutami ad alzarmi, vuoi?»

«Non sono sicura...»

«Aiutami ad alzarmi!» ripeté lei, rabbiosamente. Le tremavano le labbra. Anzi, tremava in tutto il corpo. «Devo rendermi conto della situazione!»

Riluttante, l'aiutai a rimettersi in piedi, poi mi rivolsi a Dana e Amelia.

«Volete accompagnarla fuori? E restare con lei?» Poi, dissi a Grace: «Vieni con me a controllare i cottage di Jane e Kim».

Due ore dopo, eravamo tutte e sette sul prato buio, avvolte in coperte, con accanto i guanciali e le bottiglie d'acqua che eravamo riuscite a recuperare. Solo quel pomeriggio c'erano state dieci donne a Thornberry. Non sapevamo nulla della sorte delle due impiegate che erano partite per Whidbey, ma là, su Esme Island, una di noi adesso era morta.

Avevamo avvolto il corpo di Lucy in una coperta recuperata fra i calcinacci e l'avevamo collocato, provvisoriamente, sotto quello che, a detta di Timmy, era il suo albero preferito. Non sapevamo quanto sarebbe potuto durare quel provvisoriamente. Sull'isola non c'era polizia, e di solito le altre case erano abitate solo in estate.

La piccola radio a batterie che avevamo scoperto fra le macerie dell'ufficio aveva trasmesso solo pochi minuti, e non c'erano altre batterie perché Timmy aveva dimenticato di comprarne. Quei pochi minuti, tuttavia, erano stati sufficienti ad apprendere che, in effetti, il terremoto era stato il tanto temuto Big One, e che Seattle era nel caos. Il terremoto era stato avvertito, con diverse intensità, fino a San Francisco e all'Alaska.

Si sapeva, dai rapporti dell'ufficio geologico centrale, che le isole San Juan erano state colpite, aveva detto lo speaker. Tuttavia gli elicotteri che, normalmente, sarebbero stati adibiti ad accertare i danni in quell'area così fuori mano venivano usati per il trasporto dei numerosi feriti e morti di Seattle.

Quanto alle squadre di soccorso, erano state decimate. Molti membri del servizio civile che si trovavano a casa al momento del terremoto erano nell'impossibilità di raggiungere i loro posti, e a ogni modo si stavano occupando dei loro familiari, molti dei quali erano morti o dispersi. Edifici e viadotti erano crollati, com'era accaduto durante il terremoto del 1995 a Kobe, in Giappone. Coloro che avevano creduto che Seattle fosse preparata per un simile disastro erano sotto shock. Nessuno era preparato a questo... un terremoto del nono grado, e forse più, quando tutti i rapporti fossero giunti.

L'ultima cosa che avevamo sentito, prima che le batterie si esaurissero, era che l'intera costa occidentale era in allarme per la possibilità di un maremoto.

Mi strinsi nella giacca imbottita e guardai le altre donne. Avevamo trovato Jane e Kim, come in trance, fuori dai loro cottage completamente distrutti. Quando le scosse di assestamento fossero cessate, o almeno diminuite d'intensità, avremmo cominciato a liberare dalle macerie la cucina, dove avremmo dovuto accamparci fino all'arrivo dei soccorsi. Non ci restava che pregare che non piovesse.

Jane singhiozzava, terrorizzata per la sorte dei suoi bambini e di suo marito a Seattle. Si era raggomitolata in posizione fetale, con le ginocchia strette al petto, e si rifiutava di guardare chiunque. Grace si teneva distante da tutte e Dana era seduta in silenzio, a occhi chiusi. Non parlava del marito che aveva lasciato a Santa Fe. Il viso di Amelia era di pietra. Era sotto shock quanto noi, ma si rifiutava di ammetterlo.

Mi chiesi perché, per tutto quel tempo, lei aveva finto di essere come noi, un'ospite che era stata invitata a Thornberry, ma non conosceva nessuno. Era evidente che, invece, conosceva Timmy, e anche Lucy, assai meglio di quanto ci avesse dato a intendere. Una strana, vecchia signora, dura all'esterno, ma con dentro sentimenti sorprendentemente profondi.

Kim aveva dimostrato più coraggio e autosufficienza di quanto chiunque si aspettasse. Benché tutto ciò che aveva portato a Thornberry fosse rimasto sepolto sotto le rovine del suo cottage, aveva aiutato Jane a portare sul prato della casa le poche cose che era riuscita a salvare. Ora sedeva in silenzio, con i lunghi capelli ramati raccolti in una coda di cavallo, con il viso rigato di sporcizia e di sudore.

Quanto a me, mi chiedevo se avevo ancora una casa a cui tornare e mi preoccupavo per mia madre, che sarebbe impazzita dall'ansia, non avendo mie notizie. Ma questo era tutto. Avevo tagliato i ponti con la maggior parte degli amici e dei colleghi, dopo l'arresto. O loro avevano tagliato i ponti con me.

C'era Ian, naturalmente. Era scampato al terremoto?

E, in quel caso, si preoccupava per me?

Non era probabile. E, onestamente, non me ne importava un fico secco. C'era sempre stato, in Ian, qualcosa che non mi piaceva, anche quando eravamo insieme da mesi. A letto, mi capitava di guardarlo negli occhi e di chiedermi quali segreti celassero. Quando mi aveva tradito, non ero rimasta molto sorpresa.

E così, tutto era finito. Anche il processo che mi attendeva impallidiva, al confronto della situazione presente. Ora, quello che importava era uscirne viva.

Mentre ragionavo su tutto questo, la terra cominciò a tremare di nuovo. Jane nascose il viso sulle ginocchia e singhiozzò. Io, come le altre, mi strinsi miseramente nella mia coperta. Credevo di sapere che cosa pensavano... la stessa cosa che pensavo io: la fine del mondo era forse arrivata?