15

«Non gridare.» Sentii la voce all'orecchio, bassa, soffocata. «Ora tolgo la mano. Non fiatare, Sarah.»

Allora capii chi era, e quando la mano sparì mi voltai di scatto e schiaffeggiai Luke. I miei occhi si stavano adattando all'oscurità, e potei quasi vedere l'impronta della dita. Per quanto tentassi di parlare a voce bassa, provavo una rabbia che mi stupiva con la sua ferocia.

«Cosa credi di fare? Che diavolo sta succedendo?»

Luke si portò la mano alla guancia bruciante. Anche nella scarsa luce, potei vedere i suoi occhi fiammeggiare.

«Sto cercando di tenerti fuori dai guai, maledizione!»

«Oh, davvero? E in che modo? E come sei arrivato qui? Ho lasciato Thornberry prima di te.»

«Tu sei passata per la spiaggia, io ho tagliato attraverso l'isola.»

«Neanche per sogno. Mi stavi seguendo.»

«Io non ti stavo seguendo, Sarah. Sono qui da dieci minuti buoni.»

«Be', qualcuno mi seguiva. Chi altri...»

«Non so chi altri, maledizione! Ma dal modo in cui ti comporti, è evidente che hai guidato qualcuno fin qui!»

Mi voltò le spalle e lo sentii strofinare un fiammifero. La fiamma di una candela illuminò debolmente la stanza. Vidi che le finestre erano coperte di carta catramata nera, inchiodata attorno alle cornici, in modo che nessuna luce potesse sfuggirne. Lungo una parete c'era una branda con sopra un sacco a pelo. Accanto, una bottiglia d'acqua.

Poi, lo sguardo mi cadde su un tavolo. Sopra c'erano alcune cartellette, una penna e un blocco per appunti bianco, a righe. Accanto, due pile di fogli, una più alta dell'altra, segno che qualcuno li aveva letti e passati sull'altra pila. Poco lontano c'era un dischetto di computer con un'etichetta di Disney. Sull'etichetta, in inchiostro nero, c'erano le parole GIUSTE RICOMPENSE.

«Quello è il mio libro» dissi, sconcertata. «Sei stato tu a rubare il mio libro.»

Lui non rispose, e quando lo guardai potei vedere i pensieri rincorrersi dentro i suoi occhi come topi spaventati.

Avrei dovuto nascondere il manoscritto e il dischetto, dicevano quegli occhi. Avrei dovuto chiudere la porta a chiave.

Ma se n'era dimenticato. O era stato troppo sicuro che laggiù non sarebbe mai stato scoperto.

«Che cosa sta succedendo?» ripetei, con la gola così secca che riuscivo a stento a parlare.

«Non è come pensi» rispose Luke, andando a chiudere a chiave la porta.

Il chiavistello c'era, più in alto di dove l'avevo cercato.

«Ah sì? E che cosa penso esattamente, Luke?»

Lui scostò una sedia dal tavolo.

«Sarah, siediti. Posso spiegarti.»

Fui quasi sul punto di sedermi. Ma poi notai una piccola bombola di propano in un angolo. Dalla bombola partiva un tubo che finiva in un piccolo generatore.

Non c'era molto altro nella stanza. Il mio sguardo si posò su una camicia di flanella gettata sul tavolo, vicino al manoscritto. La sollevai. Sotto c'era un telefono cellulare. Una lucina verde lampeggiava, la stessa lucina che, sul mio, indicava che l'apparecchio era funzionante.

«L'avevi fin dal principio?»

Ero sicura della risposta. Ma volevo sentirla dalle labbra di Luke. Sentire che per tutto il tempo aveva avuto un cellulare funzionante e che ci aveva tradito tutti tenendolo per sé.

«Io... sì. Lo tengo sempre qui» rispose.

«Sempre?»

«Ho... ecco, ho costruito questo capanno dieci anni fa. Lo uso, a volte, invece di aprire e riscaldare la casa.»

«E il telefono funziona?»

«Funziona» ammise Luke.

«I ripetitori sono stati riparati?»

«Qualcuno.»

«Fin dal principio?»

«Quasi.»

Le ginocchia mi tremavano e così mi lasciai cadere sulla sedia, davanti al mio manoscritto. La rabbia si mescolava alla perplessità, e non sapevo cosa pensare.

«Sei stato in contatto con la terraferma? Con Seattle?»

«Un paio di volte. Ma non è stato facile avere la comunicazione.»

«Hai chiesto aiuto? Stanno arrivando delle squadre di soccorso? La Croce Rossa? Qualcuno?»

«Sanno che siamo qui» rispose Luke, senza guardarmi.

«Verranno a soccorrerci?»

Lui esitò.

«Non subito.»

«Per l'amor del cielo, Luke!»

«Sono troppo impegnati. C'è un inferno laggiù, Sarah!»

«Be', avresti almeno potuto informarci. Perché non l'hai fatto?»

«Avevo le mie ragioni.»

«Quali ragioni? Per tutto questo tempo ci siamo preoccupati per le nostre famiglie, a casa, ci siamo chiesti come saremmo riusciti ad andarcene da quest'isola, e tu avevi un telefono cellulare?»

Lui incrociò le braccia sul petto, distante da me in ogni senso.

«Mi dispiace, ma tutti avrebbero voluto usarlo, e la batteria non sarebbe durata abbastanza.»

Scossi la testa, ancora sbalordita.

«Lasciamo perdere... per il momento. Hai detto che mi avresti spiegato tutto.»

«A proposito del libro? L'ho preso per metterlo al sicuro, Sarah.»

«Al sicuro? Nelle mani di uno che ci ha traditi tutti...» Il mio cuore mancò un battito. «Tu lavori per i Cinque di Seattle» affermai. «Ti hanno mandato qui per prendere il libro e...»

Chiusi la bocca di colpo prima di pronunciare le parole e la prova.

«E, che cosa?» chiese Luke a bassa voce. «Che cosa, Sarah?»

«E il dischetto» rimediai. «Volevano che scoprissi quanto sapevo.»

«Oh, andiamo, pensa a quello che stai dicendo. Io vivo a New York. Che rapporti potrei mai avere con un gruppo di poliziotti corrotti di Seattle?»

«Non lo so. Ma c'è qualcosa, Luke, e scoprirò cos'è.»

Lui andò a una delle finestre oscurate, come per guardare fuori.

«Perché pensi che qualcuno ti seguisse?» chiese dopo un momento.

«Perché l'ho sentito.»

«Poteva essere un cervo.»

«Sicuro. Vengo continuamente pedinata dai cervi.»

Luke corrugò le sopracciglia, irritato.

«Era qualcuno di Thornberry, allora? Hai visto qualcuno seguirti fin qui?»

«Non guardavo. Vi ho lasciati tutti... o almeno così credevo... a giocare a quello stupido gioco.» Studiai il suo viso. «Perché non dovrebbe essere stato qualcuno di Thornberry? C'è qualcun altro sull'isola? Qualcuno di cui non sappiamo ancora nulla?»

«No. Almeno, non credo.»

«Maledizione, Luke!» esclamai balzando in piedi. «Devi darmi qualcosa. Qualunque cosa. Altrimenti, tornerò a Thornberry e racconterò a tutti di questo telefono, e del fatto che, a quanto pare, non l'hai usato per aiutarci in alcun modo.»

«Non puoi farlo, Sarah. Non puoi assolutamente dirlo a nessuno.»

«Oh, davvero? Be', è qui che ti sbagli. Posso fare tutto quello che mi pare.» Un pensiero sgradevole mi colpì. «A meno che, naturalmente, tu non abbia intenzione di fermarmi in qualche modo.»

«Diavolo, Sarah, non so che cosa fare con te. Devo riflettere.»

«Be', mentre tu rifletti su che cosa fare con me, io me ne vado» annunciai dirigendomi alla porta.

«Non lo farei, se fossi in te.»

Allungai la mano verso il chiavistello, ma in un batter d'occhio Luke mi fu accanto e mi fermò.

«Non puoi tornare là fuori da sola. Chiunque ti abbia seguita può essere ancora là.»

«E che cosa vorrebbe da me, Luke?»

La mia mente stava cominciando a schiarirsi, e potevo pensare a una sola risposta: la prova di Lonnie Mae.

Il che mi fece ripensare alla scomparsa della scatola Allegra.

«Il manoscritto è tutto quello che mi hai rubato? O c'era anche qualcos'altro?»

«Di che altro stai parlando?».

«Non lo so» mentii. «Qualunque cosa.»

Mi avvicinai al tavolo e toccai la prima pagina del mio manoscritto, che sembrava non avesse subito alcun danno dal terremoto. I fogli erano ancora bianchi e puliti, solo un po' stropicciati.

«Vedo che sei a pagina settanta» osservai. «Che cosa te ne pare, finora?»

«Non posso dare un giudizio professionale, ma credo che tu stia facendo un ottimo lavoro» rispose Luke.

«Be', grazie. Temo che non leggerai la conclusione, però. Non ho ancora deciso quale sarà.» Presi il manoscritto e il dischetto. «Anzi, non leggerai più niente.»

Il telefono cominciò a trillare. Un suono basso, attenuato. Luke fece l'atto di rispondere... ma poi si fermò.

«Avanti, rispondi» dissi.

«Può aspettare.»

«Forse, ma io no. Non vedo l'ora di sapere chi ti chiama e che cosa ha da dirti.»

Con ciò, afferrai il telefono e me lo portai all'orecchio.

Un voce familiare disse: «Luke? Luke, sei tu?».

«Mamma?» chiesi, stupefatta.

Con un clic, la comunicazione si interruppe, e Luke mi strappò di mano l'apparecchio.

All'improvviso avevo di nuovo paura. Che cosa aveva fatto Luke a mia madre?

Non conoscevo più quell'uomo. Non potevo neppure immaginare quali segreti nascondesse... o che cosa potesse essere disposto a fare per salvaguardarli.

«Non avvicinarti» mormorai, indietreggiando.

Lui tese una mano e io la scansai.

«No!»

Luke corrugò le sopracciglia.

«Sarah, rilassati. Non ti farei mai del male.»

«Non m'importa niente di me! Che cosa hai fatto a mia madre?»

«Assolutamente niente. Sta benissimo, te l'assicuro.»

«Non voglio le tue dannate assicurazioni. Non so neppure più chi sei!»

«Sono la stessa persona di sempre, Sarah.»

«No. Quella persona si sarebbe confidata con me, mi avrebbe detto che cosa stava facendo qui. Luke...» La mia voce tremò. «Perché mia madre ti ha telefonato? Che hai fatto, in nome del cielo?»

«Te lo sto dicendo... niente. Si è messa in contatto con mio padre perché era preoccupata per te, dopo il terremoto. Lui le ha dato questo numero, in modo che potesse chiamarmi e assicurarsi che tu stessi bene.»

«E allora perché ha riattaccato quando ha sentito la mia voce?»

«Sarah, per l'amor del cielo! Probabilmente è caduta la linea. Succede in continuazione, dopo il terremoto. Non vederci una specie di cospirazione!»

Lo fissai. Aveva ragione? Era così semplice?

«Voglio richiamarla» dissi.

Luke si ficcò il telefono nella tasca posteriore.

«No. Sarebbe uno spreco. Ho bisogno di conservare la batteria il più a lungo possibile, fino a quando non verremo soccorsi.»

La sua espressione era dura. Fra noi si era aperto un solco della larghezza di un oceano.

«Hai ucciso Jane?» chiesi a bassa voce.

Gli occhi di Luke si strinsero.

«Ucciso Jane? Adesso mi sembri davvero pazza, Sarah. Pensi che potrei fare una cosa del genere?»

«Non lo so. Forse. E quanto a me? Sei stato tu ad aggredirmi al mio cottage?»

Luke scosse la testa come se avesse a che fare con una bambina di sei anni dalla fantasia troppo vivace.

«Sarah, sii ragionevole. Grace e io ti abbiamo trovata sul sentiero. Non ci siamo avvicinati al tuo cottage. Inoltre, eravamo insieme. Ciascuno è l'alibi dell'altro.»

«Interessante parola, Luke... alibi. Tu e Grace avete bisogno di un alibi?»

«Non è questo che intendevo» replicò lui. «Volevo solo farti ragionare, vedere le cose razionalmente. Dov'è finita la tua logica da avvocato?»

«Al diavolo la mia logica» scattai, rabbiosa. «Sai che cosa mi disturba realmente in tutto questo? Tu conoscevi Jane. L'avevi incontrata prima che incendiasse Ransford, e devi avere visto che tipo era, com'era spaventata. Come hai potuto non dirle che avevi un telefono funzionante? Perché non l'hai aiutata a mettersi in contatto con i suoi figli? Maledizione, Luke, se l'avessi fatto forse Jane non avrebbe dato fuoco alla tua casa!»

«Te l'ho detto» ritorse lui. «La batteria non durerà per sempre. Inoltre, la maggior parte delle linee telefoniche di Seattle è interrotta. Probabilmente non avrei comunque saputo niente. Sarebbe stato uno spreco inutile.»

«Non è una buona scusa, maledizione! E perché hai tenuto segreto questo posto? Tu stai ingannando tutti noi, Luke.»

«Mi dispiace se la pensi così» affermò lui, freddo. «Forse è tempo che tu te ne vada. Torna a Thornberry.»

Si appoggiò al tavolo, a braccia conserte, aspettando che me ne andassi. Un pesante silenzio riempì la stanza.

«E così, tutt'a un tratto, è sicuro andare là fuori?» chiesi. «Non c'è nessuno che mi segue?»

«Che diamine, hai sempre preferito badare a te stessa» disse Luke. «Sono sicuro che non ti succederà niente.»

Ero così spiazzata dalla sua freddezza che avrei voluto schiaffeggiarlo di nuovo. Non per rabbia, ma per strappargli quella maschera. Sentivo che il solo modo in cui avrei potuto forse ritrovare il vecchio Luke era riuscire a infrangere quella barriera.

Nello stesso tempo sapevo che, qualunque cosa facessi, non avrebbe fatto alcuna differenza. Luke non era mai stato un tipo facile. Quando si fissava su qualcosa, era irremovibile. Se eri suo amico, questo significava una lealtà incondizionata. Altrimenti...

Aprii la porta e uscii, tenendo fra le braccia il manoscritto e il dischetto. Dietro di me, lasciavo un'infinità di sogni... Luke li aveva fatti rivivere tutti... e ora li aveva infranti per sempre. Non avrei mai più potuto pensare di conoscerlo.

Ma in ogni caso avrei scoperto che cosa stava combinando con mia madre.

«Che ne dici di questa promessa, Luke?» chiesi a bassa voce, voltandomi indietro sul margine della foresta per uno sguardo d'addio.

I boschi sono belli, scuri e profondi, ricordai, dalla poesia di Frost. Troppo scuri, e niente affatto belli, quella sera. Volai fino al sentiero principale. Non sapevo se qualcuno mi seguiva, perché non mi fermai neppure una volta ad ascoltare. Continuai semplicemente a correre, e se uno sconosciuto avesse tentato di afferrarmi lo avrei colpito con tanta forza che avrei potuto anche ucciderlo, tanto alto era il mio livello di adrenalina.

Quando giunsi a Ransford, scelsi il sentiero centrale per tornare a Thornberry e corsi ancora più velocemente, ora che ero più sicura della mia strada. Tutt'a un tratto un'enorme figura con le braccia aperte mi si parò davanti, Il cuore mi balzò in gola e le gambe mi mancarono. Sentii un ululato e avvertii un respiro sulla guancia.

Il respiro era solo un alito di brezza, l'ululato il verso di un gufo e la figura risultò essere un albero. Avevo dimenticato l'Albero del fantasma, come Luke e io lo chiamavamo tanti anni prima. La luna piena lo illuminava. I suoi rami sembravano tendersi verso di me, e io vi vidi quasi un segno... un segno che almeno qualcosa, su quell'isola, cercava di proteggermi.

Ero così a corto di fiato che mi bruciavano i polmoni, e mi fermai per un momento a riposare nel cavo del tronco, un'apertura triangolare grande giusto a sufficienza per insinuarvisi dentro.

Fu allora che udii il suono. Proveniva dalla parte del sentiero che avevo già percorso, ed era ben definito, adesso: un rumore di sterpi spezzati che denunciava un passo. Mi nascosi ancor meglio nella cavità e cercai di respirare regolarmente. Mentre i passi si avvicinavano, mi chiesi se sarei stata vista. I miei indumenti, una maglietta grigia e un paio di jeans, erano poco appariscenti. Quella sera avevo lasciato a casa il giubbotto rosso che avevo indossato quando il tempo era cattivo. Ma la luna era così brillante che se le ombre non erano proprio giuste avrebbe potuto illuminarmi.

Mi tornò alla mente un fumetto che avevo letto da bambina. Il protagonista chiudeva gli occhi, quando si nascondeva, per non essere visto. Era un vecchio mito, e in qualche modo era vero: se guardi il tuo nemico, lui, a sua volta, per qualche misteriosa energia sarà spinto a guardarti.

Strinsi gli occhi e mi coprii il viso. Ma quando i passi si fermarono proprio davanti a me, non potei fare a meno di arrischiare una sbirciata. I miei occhi si posarono prima sugli stivali, poi sui jeans, e finalmente sulla camicia e la faccia.

Era Grace. Scorsi chiaramente i suoi lineamenti alla luce della luna. Per un momento, voltò la testa nella mia direzione, e fui certa che mi avesse vista anche lei. Ma poi brontolò: «Maledetto albero... Mi ha spaventata a morte...».

Allungò un pugno al tronco e proseguì.

Sentii i nervi e i muscoli allentarsi, e non sarei potuta uscire dal tronco cavo neppure se ne fosse andato della mia vita. Rimasi là un buon quarto d'ora, molto tempo dopo che i passi di Grace si erano allontanati attraverso i boschi in direzione di Thornberry. Quando ritenni di potermi muovere senza fare troppo rumore, uscii di nuovo sul sentiero. Rimasi là ferma per un momento, pensando al manoscritto e al dischetto che tenevo ancora in mano. Allora girai sui tacchi e tornai all'albero. Li ficcai nel recesso più nascosto del tronco e li coprii di foglie secche.

Soddisfatta di averli messi al sicuro nel modo migliore possibile, certo meglio che in qualunque nascondiglio che potessi trovare a Thornberry, percorsi il resto della strada di ritorno.

Non avevo la forza di correre, e se qualcuno avesse voluto, avrebbe potuto raggiungermi. Ero una facile preda, quella sera.

Il resto del percorso, comunque, fu privo di incidenti, e quando entrai in casa vidi che c'erano tutti, tranne Luke. Grace era seduta al tavolo a braccia conserte, ascoltando la conversazione degli altri. I sassi erano stati piazzati di nuovo sul tavolo, e chiesi chi avesse vinto, nel tono più normale possibile.

«Timmy» rispose Dana. «Dove sei stata, Sarah? Eravamo preoccupati per te.»

«Avevo voglia di fare due passi. C'è una bellissima luna piena. L'avete vista?»

Aspettai che Grace dicesse che era stata fuori anche lei, ma non disse nulla.

«Vuoi scherzare?» chiese Dana. «Basta alzare gli occhi.»

Lo feci, e infatti ecco là la luna che splendeva attraverso l'apertura del tetto. La luna piena... di nuovo un'amica.

«Quasi non abbiamo neppure bisogno di lampade, stasera» continuò Dana.

Amelia, che aveva trovato da qualche parte degli aghi da maglia e un gomitolo di lana, lavorava alacremente a qualcosa di lungo e verde che sembrava una sciarpa.

«Fa anche abbastanza caldo senza fuoco, non credete?» osservò.

«Sarebbe bene farne a meno comunque» disse Dana. «In caso ci sia un altro terremoto.»

«Be', non attirarcelo addosso» borbottò Amelia.

«Non preoccuparti, non ne ho l'intenzione» rispose Dana. «Ma statisticamente ci sono più terremoti con la luna piena. E certe lune sono peggiori di altre.»

«Oh, e perché?» volle sapere Kim.

«Non ricordo. So solo che è così.»

«E che cosa ci dici di questa?» chiese Amelia.

«Non lo so. Penso solo che dovremmo essere preparate a ogni evenienza.»

Grace non disse nulla, ma di tanto in tanto la colsi a guardarmi. Alla fine, la fissai a mia volta, e lei distolse lo sguardo.

«Dov'è Luke?» chiesi, senza rivolgermi a nessuno in particolare, anche se ero curiosa di sentire la risposta di Grace.

«È andato anche lui a fare una passeggiata» rispose Timmy. «Mi sorprende che non vi siate incontrati.»

«Be', l'isola è grande.»

Un'occhiata a Grace mi rivelò che non mi guardava più, e che apparentemente non aveva intenzione di rispondere.

«Abbiamo pensato che forse avevate deciso di fare una passeggiata nello stesso momento» commentò Dana.

«Niente affatto» ribattei.

«Oh, via» sorrise lei. «Tu e Luke non eravate forse qualcosa di più che amici, un tempo?»

Questo mi attirò una rapida occhiata di Grace. Così rapida da essere appena percettibile.

«Oh, cose da ragazzi» risposi, disinvolta. «È stato molto tempo fa.»

«Questo posto ha il potere di suscitare strane emozioni, però» osservò Kim.

La guardai e mi chiesi se stava parlando di se stessa e di Gabe. Mi resi conto all'improvviso che anche Gabe non c'era. Non mi ero ancora abituata a includerlo nel gruppo, e non avevo notato prima la sua assenza.

«E Gabe?» chiesi. «Dov'è?»

«È andato a letto presto» rispose Kim. «Ha detto che voleva leggere per un po'.»

«È fuori nell'ingresso?»

«Con una lanterna, proprio come John Boy

«Oh, non so se paragonerei Gabe Rossi a John Boy» disse Amelia, secca.

«Piuttosto a Peck's Bad Boy» convenne Kim.

«E chi sarebbe?» chiese Dana.

«Era un vecchio film con Jackie Coogan» spiegò Kim. «Il nome divenne una specie di etichetta per chiunque fosse un imbarazzo o una seccatura. Un monello, si potrebbe dire.»

«Era un libro, prima che ne facessero un film. Peck's Bad Boy and his Pa. Che ci crediate o no, era perfino prima dei miei tempi. Sono sorpresa che tu conosca quel film, Kim.»

«Be', sono pure andata alla scuola di cinema.»

«Davvero?» Amelia la guardò con un misto di sorpresa e di rispetto. Poi, arrossendo, aggiunse: «Scusa. Immagino di avere pensato che fossi semplicemente...».

Si interruppe, mordendosi il labbro.

«Che cosa?» chiese Dana in tono scherzoso. «Saltata fuori da una pizza di pellicola già bell'e pronta?»

Amelia scosse la testa.

«Non esattamente.»

A quel punto Kim parve a disagio e si affaccendò a piegare i tovaglioli che avevamo lavato in precedenza.

«E così, hai vinto tu il gioco, Timmy?» chiesi, per cambiare discorso.

«Oh, non è stato niente» rispose lei, stringendosi nelle spalle. «Ho esperienza di giochi, ricordi? Quando tu e i tuoi genitori venivate qui, ne facevamo sempre qualcuno, la sera. Non c'era molto altro da fare.»

«È vero, l'avevo dimenticato. Vincevi sempre tu a Scarabeo e a Monopoli. Anzi, se ben ricordo eri la più astuta di tutti noi.»

Lei arrossì al complimento e si toccò i capelli.

«Be', non so se ero astuta. Ma dopo tutte quelle sere estive, anno dopo anno, era sperabile che avessi sviluppato qualche abilità, almeno nei giochi da tavolo.»

Timmy faceva la modesta, ma ora che la mia memoria si era risvegliata, ricordavo che avevo sempre pensato che fosse una furbacchiona. Anzi, ricordavo che anche mia madre lo diceva.

«A Timothea non sfugge nulla» aveva commentato un giorno, quando avevo lasciato cadere accidentalmente un bicchiere di cristallo, in quella stessa stanza, e l'avevo rotto.

Mia madre mi aveva sorpresa mentre cercavo di nascondere i miseri resti nella pattumiera, e mi aveva detto che era meglio che confessassi.

«Timothea non è una persona con cui si possa scherzare... in nessun senso. In qualche modo, ti coglierà sempre in fallo.»

Fino a quando non avevo ricordato quell'episodio, avevo sempre pensato a Timmy un po' come a una testa vuota, una donna che aveva sempre avuto la vita facile e denaro più che sufficiente, almeno fino a poco tempo prima, e che non metteva molto a profitto la mente sveglia di cui era dotata. Ora, pensai che quella era l'impressione che dava, con la sua voce svagata, i capelli ben curati, i brillanti e il carattere superficialmente vivace.

Ma era solo un'impressione? Un'immagine accuratamente costruita?

Se mia madre aveva ragione su Timmy, se era davvero così acuta, come aveva fatto ad andare in rovina?

E una volta accaduto, non avrebbe reagito subito? In qualunque modo possibile... e senza tanti scrupoli?

Ripensai alla storia di Amelia a proposito della probabile bancarotta di Timmy, e a come aveva trovato un finanziatore. Un finanziatore di cui non aveva voluto parlare con la stessa Amelia... la sua migliore amica.

Pensai anche a come mi aveva invitata là, tramite Bill Farley. Certo, Bill era sempre stato abbastanza amichevole, pronto ad aiutarmi a trovare i libri giusti per le mie ricerche. Ma gli avevo forse detto più di quanto avrei dovuto, circa i temi su cui conducevo quelle ricerche?

La mia mente era in subbuglio. Una parte di me credeva a quello che stavo pensando, mentre l'altra parte mi diceva che mi stavo aggrappando alle pagliuzze. Non poteva esserci alcun sinistro rapporto fra Timmy e Bill Farley o, assumendo che Bill non ne sapesse nulla e fosse stato usato da qualcuno per un losco scopo, fra Timmy e i Cinque di Seattle.

Ma quella casa ora distrutta dal terremoto era sempre stata il primo amore di Timmy. Lei era sempre stata un piccolo tornado che sfrecciava per la casa, metteva in ordine, badava alle necessità di tutti i suoi ospiti.

Non molto doveva essere cambiato quando Thornberry era diventata una colonia di scrittori. Anzi, nella prima settimana della nostra permanenza l'avevo vista comportarsi come la vecchia Timmy, aggiungendo tutti quei piccoli tocchi in più, come i fiori e le candele sul tavolo, senza lesinare sulla cucina o su altri lussi. Il capanno da bagno aveva sempre biancheria fresca di bucato e lozioni di ogni tipo, e per chi voleva fare il bagno di notte un'infinità di candele profumate. C'erano perfino dei petali di rosa da spargere sull'acqua e anche del rosmarino fresco.

Tutte queste cose costavano parecchio denaro, dunque Timmy doveva avere trovato un finanziatore molto ricco.

Ma che interesse pretendeva? Che cosa doveva fare Timmy per ripagare il suo debito?

«Fino a dove sei arrivata?» chiese Dana.

«Come? Oh, scusa. Ho solo fatto un giro nei boschi, godendomi i rumori della notte e il chiaro di luna. Credo di avere sentito qualche cervo.»

«Ma non hai incontrato Luke? Mi chiedo che cosa stia combinando.»

L'interesse di Dana era solo superficiale, ne ero certa. Ma mi chiesi perché non ero capace di indurmi a rivelare a nessuno quello che avevo scoperto su Luke. Senza dubbio le altre avevano il diritto di sapere che aveva un telefono cellulare.

Non era tanto il fatto che fossi restia a rivelare il suo tradimento, mi dissi, quanto che non volevo che qualcun altro sapesse che sospettavo di Luke fino a quando non avessi scoperto quello che aveva in mente di fare. Dopotutto, mi aveva lasciata andare. Non mi aveva fatto alcun male, quando niente avrebbe potuto impedirglielo. Mi sentivo al sicuro tenendo per me i miei sospetti ancora per un po'. In questo modo avevo il coltello per il manico. Potevo far saltare la sua copertura in qualunque momento.

Le cose non andarono così, naturalmente. Accade di rado che vadano proprio secondo i nostri piani. Di rado, tuttavia, vanno in modo così disastroso.

Kim e io rimanemmo al tavolo dopo che tutte si furono ritirate. Parlavamo a bassa voce per non disturbare le altre, che dormivano sul pavimento attorno alla stufa, come ogni notte.

«Kim» cominciai, «perché hai definito Gabe Bad Boy? Credevo che ti piacesse.»

«È vero» rispose lei. «È solo che è un tipo impossibile.»

«Hai detto che era una seccatura.»

«Scherzavo. Proprio quando penso di averlo agganciato, lui si divincola dalla lenza.»

«È una cosa seria, per te, allora?»

«Oh... probabilmente no. È solo troppo facile annoiarsi, qui.» Kim rise piano e aggiunse: «Avevo creduto di cominciare a odiare Los Angeles. Ora mi manca tanto...».

«Senti, non voglio ferirti, davvero» affermai. «Ma non ti sei accorta che Gabe ci prende in giro tutte?»

«Certo» rispose Kim. «Anzi, mi ricorda un'infinità di uomini che conosco a Hollywood... che fanno carte false per avvicinare le persone da cui vogliono qualcosa. Ma finora non ho ancora capito che cosa vuole Gabe.»

«Be', è un uomo» osservai sorridendo.

«È vero. Solo pensavo...»

«Che in realtà si interessasse a te e non alle altre?»

«Immagino di sì. Il modo in cui si comporta... almeno, quando è con me.»

«E non fanno tutti così?» chiesi.

Kim scosse la testa.

«Ragazza mia, devi essere stata morsa da un serpente molto velenoso. Chi è stato?»

«Un serpente a sonagli» risposi. «Il tipo che si raggomitola e aspetta il momento giusto per colpire.»

Lei spalancò gli occhi.

«Stai parlando di Luke?»

Mi strinsi nelle spalle.

«Se me l'avessi chiesto ieri, ti avrei risposto di no. Il mio serpente era a Seattle. Ora, non sono sicura che non ce ne siano dappertutto.»

«Be', quel tizio di Seattle di sicuro te l'ha fatta grossa. È tutto finito?»

«Finito, morto e sepolto» asserii senza riflettere.

Ma mentre pronunciavo quelle parole, mi colsero sentimenti che mi sorpresero. Ian era morto? Sepolto sotto tonnellate di cemento a Seattle?

Al pensiero che forse non l'avrei più rivisto provai una profonda sofferenza. Possiamo lasciare un amante, a quanto pare, non avere contatti con lui anche per anni. Ma lui è sempre là, sempre qualcuno che può di nuovo farsi vivo, qualcuno che possiamo incontrare per strada, qualcuno all'altro capo del filo del telefono. Sappiamo sempre che possiamo prendere quel telefono e trovarlo... anche se ora è tutto diverso e del vecchio rapporto non resta più nulla. Almeno, la persona in cui abbiamo investito tanto tempo ed energie c'è ancora.

Nel caso di Ian, potevo non saperlo per settimane. E il mondo senza di lui sembrava in qualche modo sminuito.

Indossai il giubbotto, uscii e mi fermai vicino alla tomba di Lucy. La luna era ormai bassa nel cielo, e a ovest l'orizzonte era ingombro di nuvole. Si era levato un vento che mi faceva svolazzare i capelli in tutte le direzioni. Rabbrividii, stringendomi le braccia attorno al corpo.

Avrei dovuto raccontare tutto, pensai. Avrei dovuto dire che cosa avevo trovato nei boschi e che cosa sospettavo a proposito di Jane. Se qualcuno l'aveva uccisa a causa di qualcosa che sapeva, qualcosa in cui poteva essersi imbattuta per caso, questo significava che la stessa cosa poteva capitare a chiunque di noi.

Il capanno di Luke, per esempio. Era quello che Jane aveva trovato? E il suo telefono cellulare? Le sarebbe sembrato una specie di miracolo, al quale non avrebbe rinunciato tanto facilmente. Senza ombra di dubbio avrebbe preteso di usarlo per chiamare i suoi figli.

E se Luke gliel'avesse negato, come aveva fatto con me? Come avrebbe reagito Jane?

Si sarebbe ribellata, e nello stato in cui si trovava sarebbe stata un'avversaria temibile.

Luke era stato incapace di tenerla a bada? Sarebbe arrivato a ucciderla, se non fosse riuscito a dissuaderla?

Poteva facilmente averla uccisa nel suo capanno, e poi portata fino al precipizio per simulare un incidente. Gabe aveva detto di avere visto Luke che si puliva le mani dal terriccio. E se Jane era già morta quando era caduta...

Questo avrebbe spiegato perché nessuno l'aveva sentita gridare.

Era qualcosa a cui nessuno di noi aveva pensato. Se Jane era caduta, o era stata spinta, nella gola, perché non l'avevamo sentita gridare?

Ancora immersa nei miei pensieri, sentii alle mie spalle lo strofinio di un passo. Con tutti i nervi tesi, fui sul punto di voltarmi di scatto e colpire per difendermi dall'ipotetico assalitore. Ecco fino a che punto ero nervosa.

«Ehi, ehi» disse Gabe, quando sollevai il braccio. «Calma, sono solo io.»

Mi rilassai, ma solo un po'.

«Questo non basta a tranquillizzarmi.»

«Oh, santo cielo» commentò lui sorridendo. «A quanto pare sto cadendo sotto il famoso ombrello del sospetto di cui ho tanto sentito parlare nei notiziari, negli ultimi anni.»

«Tutti sono sospetti, qui, da quando Jane è morta» replicai.

«Questo posso capirlo, immagino.» Gabe aveva il viso rivolto verso la luna che stava tramontando, e vidi che il suo sorriso era un po' impallidito. «Ho solo pensato che ti avrebbe fatto piacere la mia compagnia» continuò. «Posso condividere il tuo ombrello?»

«Il mio?»

«Be', certo. Non crederai di essere immune dai sospetti, no?»

«Non ci avevo pensato» ammisi. «Ma diamine, grazie per avermi dato qualcos'altro di cui preoccuparmi. Qualcuno ha parlato di me?»

«Oh, tutti parlano di tutti. Sarei sorpreso se quelle signore non si uccidessero a vicenda prima dell'arrivo dei soccorsi.»

«Che intendi dire?»

«Be', prima di tutto si sono saltate alla gola per quello stupido gioco con i sassi. Poi hanno trovato una quantità di ragioni per rimproverarsi l'un l'altra... chi aveva lasciato acceso il fuoco della cena, chi si prendeva il posto più vicino alla stufa per dormire, chi aveva bevuto troppa acqua, chi...» Gabe sospirò. «Che i santi ci scampino dalle donne che litigano nel bel mezzo di un terremoto.»

Non potei fare a meno di sorridere.

«A dire la verità, sono più o meno com'erano anche prima del terremoto.»

Gabe si voltò verso di me.

«Non dirmelo. Come hai resistito anche solo una settimana?»

«Quasi non ce l'ho fatta. Avevo in mente di nascondermi nel mio cottage per il resto del mese... quando, tutt'a un tratto, non ho più avuto un cottage.»

Lui rise.

«E ora vivete a stretto contatto l'una con l'altra, e tutte pensano che la persona che hanno vicino abbia ucciso la povera Jane. Sembra uno di quei vecchi libri gialli. Dieci piccoli indiani era il titolo, no?»

Anche Kim aveva parlato di quel libro. Era una coincidenza?

«A proposito» continuò Gabe, «adesso sembra sorprendente, ma quel libro di Agatha Christie uscì per la prima volta con il titolo Dieci piccoli negri. Lo sapevi? Immagino che in Inghilterra fosse ancora accettabile. Quando fu pubblicato qui, il titolo diventò E poi non rimase nessuno, e solo più tardi Dieci piccoli indiani...» Si interruppe. «E neppure questo è tanto politicamente corretto, adesso, pensandoci bene.»

Il mio stomaco aveva dato un balzo alla parola dispregiativa negri, che era diventata così fastidiosa negli ultimi anni. Ora, dopo la vicenda di Lonnie Mae, mi disgustava letteralmente.

«Non conoscevo questa storia sul libro della Christie» risposi. «Ma ce lo vedi intitolato Dici piccoli nativi americani? Dubito che qualunque editore di New York l'avrebbe permesso.»

«D'altra parte, negli anni Quaranta non era insolito riferirsi alla gente di colore con il termine negri. Il comportamento razzista, o quello che viene percepito come tale, non sempre è quello che sembra. Potrebbe essere una cosa da tenere bene a mente, quando te la prendi con quei poliziotti con cui ce l'hai tanto.»

Sentii subito risuonare un campanello d'allarme.

«Aspetta un momento. Che cosa ne sai, tu?»

«Del tuo arresto? E dello stupro di quella donna di colore? Sarah, è stato su tutti i giornali di Seattle per settimane. E ora stai scrivendo un libro su quella storia, giusto?»

«Sei un'inesauribile fonte di informazioni» commentai.

«Oh, via, Sarah, sei qui in una colonia di scrittori» disse lui pazientemente, come se parlasse a un bambino.

«E allora? Magari scrivo poesie.»

«Difficile. No, questo lo lasceremo ad Amelia. Il fatto è, Sarah, che le persone per cui lavoro hanno condotto un'accurata indagine sul tuo arresto. Non c'è molto che non sappiamo di te... e non abbiamo avuto bisogno di leggerlo sui giornali o su Publisher's Weekly. Anche se, devo dire, ti hanno offerto un contratto notevole. Lo abbiamo appreso solo di recente.»

Fissai Gabe Rossi, raggelata. Mi tremavano le ginocchia, e vedevo delle macchie scure davanti agli occhi. Quando riuscii a parlare la mia voce non era niente di più di un bisbiglio.

«Chi diavolo sei?»

«Sono qualcuno che può aiutarti, se me lo permetterai» rispose Gabe.

«Aiutarmi...» Continuai a fissarlo. «Io non... Chi sei

«Be', non sono un creatore di videogiochi, se non per hobby» ammise lui. «Sono un poliziotto, Sarah. E sono il nuovo compagno di Ian. Sono stato mandato qui per proteggerti.»