EPILOGO
Avevo telefonato a Giannella Marzolo annunciandole che il caso era risolto e che potevo dare una risposta alle domande che tormentavano da troppo tempo la nostra comune cliente.
«Ho letto la notizia del ritrovamento del cadavere del professore. Una segnalazione anonima, pare» disse l’avvocatessa.
«La solita soffiata».
«Oriana non è ancora pronta» spiegò Giannella. «Ti avvertirò non appena lo sarà. E credo che dovrai attendere anche per il saldo».
«Nessun problema».
L’avvocatessa chiamò a metà novembre. Nel frattempo Max era uscito dall’ospedale, Christine era tornata in Francia dal suo Luc e il vecchio Rossini vegliava su di noi.
La convalescenza del ciccione, che stava osservando sul serio la dieta imposta dai medici, era la scusa per rinviare ogni decisione sul nostro futuro. Le tempeste che ci avevano travolti in quegli anni ci avevano fatto perdere il gusto e il senso della quotidianità, così fingevamo di essere entusiasti della sua riscoperta.
L’avvocatessa Marzolo aveva messo a disposizione casa sua per l’incontro con Oriana Pozzi Vitali. Era ingrassata di qualche chilo ma stava indubbiamente meglio.
«Guido ha sofferto?» domandò a voce bassa.
«Purtroppo sì» risposi. I clienti hanno diritto alla verità, anche se dolorosa.
Le feci un riassunto delle indagini. Ogni tanto interrompeva il mio racconto con un gesto appena accennato della mano per chiedere spiegazioni.
Quando ebbi terminato rimase a lungo in silenzio per l’evidente bisogno di assimilare ogni singola parola.
«Ho un’ultima domanda» disse. «Guido è morto a causa del mio rifiuto di pagare?».
«Sì» risposi sapendo di essere impietoso. «Il capo ha voluto punirla. Si è trattato di un atto inutile e crudele ma si era ritenuto oltraggiato dal suo comportamento».
«E questo capo è morto nell’incendio di quella casa?».
«No. è in fuga».
«è un essere malvagio, continuerà a fare del male alle persone».
«Non posso entrare nei dettagli ma posso assicurarle che, a differenza di un tempo, deve stare molto attento perché la sua vita è in pericolo».
«Magra consolazione» obiettò.
«Ha barattato la sua vita in cambio della verità sul suo Guido. È stato scaltro» spiegai, convinto una volta di più che Beniamino aveva commesso un errore a non ascoltarmi quando lo avevo implorato di uccidere Pellegrini. Ero certo che un giorno ci saremmo pentiti di non aver tradito le nostre regole.
La donna cambiò argomento. «Ho dato disposizione per il pagamento del suo onorario».
«La ringrazio».
«E ho deciso di regalarle l’appartamento di Padova».
«E perché?».
«Voglio che sia abitato da una persona che conosco, l’idea di estranei che si aggirano per quelle stanze dove sono stata felice, seppure per così poco tempo, mi amareggia».
«Le sono davvero grato».
Oriana Pozzi Vitali si alzò, prese la borsa e si allontanò senza degnarmi di uno sguardo. Il suo comportamento non mi offese, anzi. Mi aveva offerto un incarico e mi aveva corrisposto il compenso pattuito. Verità in cambio di denaro. E ognuno per la sua strada.
La mia portava a Padova, dove ero atteso da Max e Beniamino. Ma non avevo fretta. Volevo riprendere fiato. Avvertivo l’urgenza dell’amore di una donna. E la bussola del mio cuore fuorilegge mi condusse a Berlino dove mi unii alla Triade, un organ trio tutto italiano guidato dal “sindaco” del blues Antonio Santirocco.
Era da un pezzo che non m’imbattevo in un gruppo di autentici “posseduti dalla musica del diavolo”.
Ogni concerto era un evento in cui ciascun brano era interpretato in modo diverso. Il sindaco alla batteria, Bob, brizzolato e occhialuto cinquantenne con laurea in filosofia, alle tastiere e Babe, appena quarantenne, nonché noto fotoreporter, alla chitarra.
Diventammo buoni amici. Ogni tanto trovavo il coraggio di salire sul palco e raccontare come storie le vecchie canzoni del mio repertorio. Fu così che ad Amburgo incontrai Huri, quarantenne puttana turco-tedesca. Bella, dolce e di una simpatia irresistibile. Notai che mi fissava mentre ricordavo un amore del liceo, poi m’invitò al suo tavolo dove beveva tutta sola e infine, ubriachi e felici, fuggimmo sulla sua macchina verso sud.
Quella di Huri era una fuga vera e propria. Una delle tante. Il problema era che non era stata minimamente preparata e Günther, il suo protettore, ci scovò a Stoccarda in una pensione d’infima categoria dal nome improbabile: Edelweiss. Era frequentata da prostitute e il portiere ci tradì per intascare qualche banconota da cinquanta euro.
I gorilla di Günther avevano pessime intenzioni ma la mia ragazza calmò gli animi chiedendo perdono e promettendo di lavorare il doppio. Me la cavai con una costola incrinata.
Huri, prima di uscire, mi mandò un bacio. «Torno in strada» disse alzando le spalle.
I’m on the road again. Abbandonai quella topaia senza rimpianti e per nulla fiero di me stesso. La storia con Huri era sbagliata fin dall’inizio. Per entrambi. E comunque non era quello di cui avevo bisogno. Diedi la colpa all’alcol e comprai un biglietto per Berlino. Ma non ci arrivai.
All’altezza di Lipsia ricevetti una telefonata dal vecchio Rossini.
«C’è un tizio che ti cerca. Sostiene di essere nei casini».
«Chi è?».
«Una vecchia conoscenza».
Nel nostro gergo significava che lo avevamo conosciuto in galera.
«Dal tono non mi sembra che ti stia particolarmente simpatico».
«In realtà è anche un buon diavolo ma lavora in un settore che non condividiamo».
«E allora mandalo a quel paese».
«Non è così semplice e poi tocca a te decidere. La rogna è tua. Ti vuole ingaggiare come paciere».
Il particolare catturò il mio interesse. «D’accordo. Il tempo di trovare un aeroporto e salto sul primo volo».
Beniamino riattaccò. E io iniziai a frugare su Internet dal cellulare a caccia di informazioni. Ora avevo fretta di tornare. Una fretta maledetta.