CAPITOLO DODICESIMO

Dieci minuti alla chiusura e quei due ancora non avevano chiesto il conto. Rossini l’avevo riconosciuto subito. Mi era capitato di vedere qualche sua foto sui giornali ma ci sarei arrivato lo stesso per lo stile. Doppiopetto leggermente démodé, cravatta regimental chiusa da un Windsor, ben otto passaggi per ottenere un nodo di classe, scarpe fatte a mano. La divisa di un gangster di alto livello. Passando vicino al loro tavolo aveva “casualmente” allungato il braccio per far salire il polsino e mettere in evidenza i bracciali. Fino a quel momento ero certo si trattasse di una leggenda, e invece lui stesso aveva voluto farmi vedere la sua collezione di scalpi. Ogni braccialetto un morto. Povero vecchio stronzo, ne avevo sicuramente ammazzati più di lui.

La donna non era granché. Tratti un po’ grossolani come il francese che parlava, nessuna ricercatezza nell’abbigliamento. Però aveva il fisico, la postura, lo sguardo sveglio di chi è abituato all’azione. Non mi sarebbe servita a nulla perché quel tipo di femmina non frutta quattrini. Avrei dovuto eliminarla come il suo compare, però avrei goduto in ogni modo della sua compagnia, giusto per farle abbassare la cresta prima di morire. Assomigliava a una spagnola con cui avevo organizzato una rapina. Era così rognosa che per scrollarmela di dosso avevo dovuto cederla a due criminali di guerra croati.

Mi ero ben guardato dal presentarmi a Rossini e alla sua pupa e trattarli come clienti di riguardo. Avevo mandato il cameriere più inesperto ma loro non avevano fatto una piega. Li avevo osservati con attenzione tutto il tempo, avevano recitato la parte della coppietta che si divertiva, assaggiando pietanze e vini senza badare a spese ma con la discrezione necessaria per non farsi notare.

Ora centellinavano della grappa parlando sottovoce. Nel locale si udiva solo il rumore dei camerieri che rassettavano e preparavano i tavoli per l’indomani.

Guardai l’ora. Solo sei minuti. Preparai il conto e lo portai personalmente.

«Il locale sta per chiudere» annunciai.

«Non c’è da preoccuparsi. Sono certo che riaprirà con un’altra gestione» disse Rossini.

Scoppiai a ridere. Quell’avanzo di altri tempi era davvero divertente. Era venuto ad annunciarmi che voleva la mia testa. Nel mio locale, per giunta.

«Apprezzo la cortesia» ribattei. «Ma non si aspetti che ricambi».

«Non ho mai avuto dubbi in questo senso» replicò Rossini sussiegoso. «Nulla ci accomuna».

Decisi di provocarlo. «Non è detto. Potrei avere delle idee che riguardano la sua ospite» dissi in francese.

La tizia fu prontissima a rispondere. «Se sapessi che idee ho io su di te».

Una puttana pericolosa. Da abbattere senza ripensamenti. «Allora a presto» li salutai indicando la porta.

Rossini guardò il conto, prese alcune banconote dalla tasca e le gettò sul tavolo. «La notte porta consiglio» ricordò con un sorriso cordiale.

Li osservai mentre si allontanavano a braccetto chiacchierando amabilmente. Rossini era troppo sicuro di sé. Doveva essere accaduto qualcosa che lo aveva legittimato a venirmi a sfidare con l’ultimatum di una notte.

Finalmente arrivò il momento di chiudere la porta e abbassare la saracinesca. Dopo essermi assicurato di non essere seguito, anche se ero sicuro che il vecchio giocasse pulito, mi diressi verso la casa dei fratelli Centra.

Rimasi un buon quarto d’ora a osservare la via, le finestre chiuse, le auto in sosta. Non rilevai nulla di allarmante e annunciai la mia visita al cellulare. Mi aprì Togno. Era scocciato.

«Ma dove cazzo mi hai mandato?» esordì mentre mi faceva strada verso il vecchio laboratorio. «Questi due sono fuori di testa. Dove li hai trovati?».

«Tutto a posto?» domandai tagliando corto. Togno si lamentava troppo per essere un gregario.

«Era perfettamente inutile portare qui quella disgraziata perché il suo amante è disposto a tutto pur di riaverla. Era sufficiente il semplice ricatto» commentò.

«Queste sono valutazioni che spettano a me».

Federico cambiò subito atteggiamento. «Non mi permetterei mai di criticarti, lo sai, solo che non vedo l’ora di lasciare questo posto».

«A che punto sono le trattative?».

«Domani mattina Rosario Panichi va in banca a svuotare una cassetta di sicurezza. Tra gioielli e contanti sono almeno trecentomila euro garantiti».

«Ti avvertirò io quando chiamarlo, d’accordo?».

Mi guardò sorpreso. «Forse mi sono spiegato male, ma domani pomeriggio possiamo chiudere l’affare».

Gli diedi uno schiaffetto sulla guancia, appena più forte del dovuto. «E tu hai capito che devi telefonargli solo quando io ti dico di farlo?» domandai scandendo le parole.

Togno ammutolì. A mano a mano che ci avvicinavamo al seminterrato si udivano le risate sgangherate di Furio e Toni.

Mi fermai in un angolo buio delle scale che offriva una visuale completa dello spazio sottostante. I Centra stavano giocando a briscola con l’ostaggio e si divertivano come bambini. La donna indossava una sottoveste macchiata di vino rosso. Riusciva a stento a tenere in mano le carte. Un po’ piangeva, un po’ rideva.

«Cosa le hanno fatto?».

«Ogni volta che perde la costringono a bere un bicchiere» spiegò a voce bassa. «È già ubriaca e secondo me tra un po’ se la trombano».

«Vedi se riesci a evitarlo».

«Non ci penso proprio. Sono due bestie. Sarebbero capaci di sfogarsi su di me e io al culo ci tengo».

«Va bene. Ho visto abbastanza» dissi tornando sui miei passi.

Lo scagnozzo ghignò. «Così presto? Non vuoi salutare i fratellini?».

«La signora Palazzolo mi conosce. Veniva sempre alla Nena» risposi in tono gelido. E poi sbottai. «Ma mi spieghi che cazzo hai? Ti lamenti, ti prendi delle confidenze. Io sono il tuo principale e ti sto facendo guadagnare cinquantamila euro. Devi portarmi rispetto».

«Hai ragione, ti chiedo scusa ancora una volta» bofonchiò. «Il fatto è che non capisco che cazzo di fine ha fatto Maria José. Il telefono di casa squilla a vuoto, al cellulare non risponde…».

«E tu perché telefoni alla mogliettina mentre gestisci un sequestro?» domandai furibondo.

Federico capì di aver fatto un’altra cazzata e si affrettò a spiegare. «Maria José doveva fare una puntata per una corsa di cavalli. Dato che io non posso, volevo dirle di andare lei da Longoni».

Sergio Longoni. Un galoppino del giro delle scommesse clandestine. Aveva frequentato anche La Nena fino a quando non gli avevo intimato di smammare. «Non mi piace come ti comporti, Federico» gli feci notare. «Sei avventato, rischi inutilmente e ci metti tutti in pericolo».

«Stai esagerando, Giorgio. Non lo puoi considerare un sequestro vero e proprio, questi non denunciano, stanno zitti».

Non avevo nessuna voglia di perdere il mio tempo a insegnare i fondamenti a un decerebrato come Federico Togno.

«Maria José potrebbe essere andata da qualche amica, parente, una breve vacanza» ipotizzai giusto per sondare.

Scosse la testa risoluto. «Lo sa che se non è sempre reperibile le riempio la faccia di schiaffi» sibilò. «Altrimenti mi dici a che cazzo serve mantenerla come una signora se non è sempre a disposizione?».

«Magari è incazzata con te e ti sta tenendo il broncio».

«No. Sarà finita sotto una macchina, ed è quello che le auguro perché appena ce l’ho tra le mani la suono come un tamburo. Mi ha fatto perdere una puntata sicura».

Un’intuizione improvvisa. Un presentimento. Allungai la mano. «Le chiavi di casa» ordinai.

«Di casa mia?».

Trattenni a stento la rabbia. «Le mie le ho già in tasca, Federico!».

«A che ti servono?».

«Vado a dare un’occhiata» risposi. «Ti faccio un favore. Invece di andare a dormire dopo una giornata di lavoro vado a sincerarmi che a tua moglie non sia accaduto nulla».

Tirò fuori il mazzo e lo lasciò cadere sul palmo della mia mano. «Grazie Giorgio».

 

L’appartamento era immerso nel buio. Accesi la luce dell’ingresso e mi annunciai per evitare l’attacco isterico di una donna spaventata. Notai subito che qualcosa non andava. Cassetti aperti, qualche oggetto sul pavimento. In camera da letto ebbi la certezza: Maria José, in tutta fretta, aveva infilato i suoi stracci in una borsa e se l’era svignata.

Andai in cucina a cercare nel frigorifero qualcosa di fresco. Secchezza delle fauci, effetto collaterale delle fregature. Dovetti accontentarmi di una bottiglia di vino bianco.

Mentre la stappavo mi domandai cosa avessi trovato di tanto speciale in una puttana da cinquecento euro a botta come Maria José Pagliaro da convincermi a non venderla insieme alle altre. Mi avrebbe anche fruttato bene. Invece mi era sembrata una bella idea tenermela per farla accoppiare con Federico Togno, il mio deludente tirapiedi. Mi ero illuso di aver creato la coppia perfetta sempre dedita a soddisfare ogni mio desiderio.

Un errore clamoroso. Forse fatale. L’unica volta che avevo scordato il principio che il superfluo va sempre eliminato il destino mi presentava il conto.

Dietro la scomparsa della puttana dovevano per forza esserci Rossini e Buratti. Si erano presentati e lei aveva trattato. Non era a conoscenza degli affari più importanti, ma sapeva del vecchio giro di prostituzione e di tutto quello che riguardava Togno.

Assieme alle altre informazioni che dovevano aver raccolto, ora avevano un quadro abbastanza preciso della situazione. Avevano capito che dietro alla scomparsa del professorino c’ero io e Rossini si era sentito in dovere di venire a lanciarmi il guanto di sfida.

Non c’era modo di aggiustare la faccenda senza pagare una parte del conto ma quel guanto glielo avrei infilato nel culo. Anche loro stavano commettendo un errore sottovalutandomi.

Me ne andai dopo aver lavato il bicchiere e cancellato le impronte. E mi guardai bene dall’avvertire quel fesso cornuto di Federico. Avevo ben altro da fare.

Tornai in centro, parcheggiai l’auto e a piedi raggiunsi un antico palazzo di cui possedevo le chiavi. Aprii il portone e scesi le scale che portavano ai box. Quello che mi apparteneva era il numero 7. Era intestato a una vecchia zia di Gemma che naturalmente ignorava di possederlo. Conteneva alcuni vecchi mobili. Una credenza custodiva una borsa con denaro, gioielli, armi e documenti, tutto l’occorrente per una fuga di lungo periodo. E la possibilità di ricominciare. Controllai due volte. Non potevo più concedermi il lusso dell’errore.

Arrivai a casa verso le sette del mattino. Martina e Gemma erano ancora vestite in attesa delle disposizioni della notte. Erano confuse, preoccupate, timorose di chiedere spiegazioni. Puntai l’indice contro Gemma. «Chiama il tuo amico Buratti e digli che stasera lo aspetto insieme a Rossini alla Nena dopo la chiusura. Hai capito?».

Le due donne annuirono come marionette. «Preparate le valigie per una vacanza di una settimana, vi voglio fuori di qui entro mezzogiorno».

«Ma io stamattina ho il corso di pilates e anche il massaggio» replicò mia moglie.

«Zitta!» le intimò l’amica, che poi mi chiese: «Dove dobbiamo andare?».

Alzai le spalle. «Dove volete. Non m’interessa» risposi. «Voglio la casa libera a partire da quell’ora».

Gemma si alzò di scatto. Aveva colto la gravità della situazione. Per la prima volta non avevo dato loro un ordine preciso e il campanello d’allarme doveva essere stato assordante.

Mi prese una mano. «Giorgio, ti prego» farfugliò.

Mi liberai con uno strattone e mi chiusi in camera. Avevo sonno e in quel momento volevo solo dormire. Dovevo essere fresco e riposato per mettere in atto il piano B. Salvare il salvabile, fottere il nemico.