CAPITOLO SESTO
Li avevo fiutati appena avevano messo piede alla Nena. Poi, quando avevano tirato fuori la foto del coglione, avevo avuto la conferma. Non erano sbirri e tantomeno venivano dal settore privato. Erano mercenari. Quello che non capivo era come avevano fatto ad arrivare a me. Avevo chiamato subito Federico Togno, ex carabiniere, ex investigatore privato, ex frequentatore perdente delle bische del Nordest, ex sniffatore di neve. Si era rovinato la vita senza un motivo preciso perché non valeva un cazzo. Il suo ruolo nel mondo era quello di servire. L’avevo raccattato dalla miseria un paio di anni prima e da allora mi seguiva come un cagnolino fedele. Gli avevo procurato una casa e perfino una moglie, Maria José Pagliaro, una troia altrettanto corta di cervello che mi era rimasta sul groppone quando avevo dovuto chiudere l’attività di papponaggio. Si era convinta con una certa ragione che le sue colleghe avessero fatto una pessima fine e si era detta disposta a tutto purché la risparmiassi.
Le avevo detto la verità. «Guarda che sono tutte in salute, solo che le ho mandate a lavorare un po’ lontano».
«Io non voglio andare lontano» aveva sussurrato Maria José.
Anche se non era affatto brutta non sapevo che farmene. L’avevo scopata un paio di volte senza il minimo godimento. L’unica cosa che poteva fare era la moglie, così l’avevo data in sposa a Federico.
«Devi rendere felice il mio soldatino» mi ero raccomandato. «Gli lustri la minchia e lo tieni d’occhio per me. Una volta al mese mi racconti tutto».
E così di Federico potevo fidarmi con un certo margine di sicurezza. Lo usavo come autista, guardia del corpo, investigatore a tremila euro al mese. In passato per ottenere informazioni mi ero servito di altre mezze calzette legate agli sbirri, ma lui era marcio al punto giusto e poteva ambire a risultati migliori. A poco a poco l’avevo abituato all’idea che talvolta doveva ricorrere alla violenza. Un paio di ossa rotte, qualche effrazione, uno stupro. Quando Maria José mi fece sapere che il marito aveva gradito quelle esperienze, gli avevo commissionato il primo morto. Una cosina facile facile. Un maghrebino che aveva deciso di rompere i coglioni alle mie clienti scippandole non appena mettevano il naso fuori. Alla quinta o sesta volta avevo deciso che abbatterlo era l’unico modo per liberare la città da quella zecca. Ci aveva pensato Federico. Un portico, una notte d’inverno. Alì Babà stava tendendo l’ennesimo agguato e si era beccato una coltellata al rene destro.
Mi ero mostrato generoso e avevo spedito il mio killer e la sua signora una decina di giorni in un resort in Tunisia. La scelta non era stata casuale ma lui non aveva colto l’ironia del messaggio.
Quella sera gli avevo ordinato di pedinare quei due stronzi e ora lo stavo attendendo con un certo nervosismo. Si stava facendo tardi e avevo fretta di conoscere il maggior numero di dettagli per poter reagire nel modo più consono.
Se fossi stato scoperto sarebbero stati altri ad arrivare e non certo per pagare un conto salato come quello che avevo propinato a quei due. Tra l’altro, la reazione che avevano avuto quando mi ero presentato era ben lontana dal manifestare il benché minimo sospetto.
Qualche labile indizio doveva averli portati alla Nena, ma la situazione poteva considerarsi ampiamente sotto controllo.
Il mio scagnozzo bussò alla porta del locale alle 2.30 del mattino. «Scusa, Giorgio, ma quei due prima si sono fatti un paio di birre qui in piazza, poi c’hanno impiegato una vita ad arrivare a Padova. Pensa che girano con una Škoda vecchia come il cucco».
«Una volta in città dove si sono diretti?».
«Hanno parcheggiato in corso Milano. Poi li ho visti entrare in un palazzo, al numero 78».
Mi colpì il fatto che vivessero nel rifugio segreto dei due patetici piccioncini. Non sembravano stranieri ma veneti, la parlata del ciccione era tipicamente padovana.
«Devo sapere chi sono, Federico. E in fretta».
«Ho la targa e un paio di foto scattate con il cellulare. Posso chiedere il favore al brigadiere Stanzani, che presta servizio a Padova. È un mio caro amico ma non rischia certo gratuitamente».
«Quanto vuole?».
Dalla sua smorfia capii che non si trattava di denaro. «Una donna, coca… Siamo attrezzati per accontentarlo».
«Una seratina completa. Cena e poi troia in hotel di lusso».
Pensai che sarebbe stato carino mandare Maria José. Era munita della necessaria esperienza per fargli godere i piaceri della corruzione. Mi trattenni. «Pensi a tutto tu, vero?».
Federico annuì. «Domani pomeriggio al massimo ti faccio avere le prime informazioni».
Spensi le luci, inserii l’allarme e tornai finalmente a casa. Martina e Gemma dormicchiavano sul divano davanti al televisore, in attesa delle disposizioni della notte. Di solito le fornivo durante la cena al ristorante ma i due ficcanaso mi avevano distratto.
«Buonanotte, Martina» dissi e lei si alzò docile come sempre, mi diede un bacio e si avviò verso la camera.
Gemma mi raggiunse e iniziò a slacciarmi le scarpe. Viveva con noi da tre anni, era da sempre la migliore amica di mia moglie e io avevo bisogno di qualcuno che le facesse compagnia. Così, quando avevo capito che la fuga del marito con un’altra donna in Salento l’aveva condotta sull’orlo del baratro avevo iniziato a manipolarla. Era quello che voleva. Lanciava messaggi precisi in questo senso. Si stava lasciando andare in modo evidente, a tratti chiassoso. Non era affatto stupida e aveva compreso le mie intenzioni. Mi amava e mi odiava con la stessa intensità. Non poteva fare a meno di me e della vita che le offrivo perché non le avevo lasciato altro. Martina non aveva fatto una grinza, anche quando le avevo imposto di fare sesso con Gemma. Non piaceva a nessuna delle due ma mia moglie lo viveva come un’ora di spinning. D’altronde ero il suo infinito amore, il marito che si occupava di lei e la rendeva felice. Meritavo di essere soddisfatto anche nelle richieste più insolite.
«Raccontami di quei due» ordinai.
«C’è ben poco da dire. Hanno mostrato la foto e dopo tua moglie li ha stesi con il suo argomento del mese: shopping a basso costo».
«Come hanno giustificato quella strana richiesta?».
«Un loro amico che frequenta un ristorante del centro gliene ha decantato le qualità e loro volevano essere certi che si trattasse della Nena».
“Che scusa del cazzo” pensai.
«Invece a me sembra di averlo già visto».
«Chi?».
«Quello della foto».
«E dove?».
«In televisione. Hai presente quel programma che si occupa di persone scomparse…».
Gemma non rinunciava mai a mettere in moto il cervello e a farmelo presente. Era il suo modo per dirmi che era perfettamente cosciente che fossi un criminale.
Le accarezzai la testa. «È venuto alla Nena?».
«Un paio di volte con una signora elegante».
«Hai buona memoria» constatai gelido.
«Per esserti utile, come in questo caso, Re di cuori».
Mi chiamava così quando mi voleva provocare.
«Scommetto che vorresti andare a dormire e che l’ultima cosa che ti piacerebbe farmi è un pompino».
«Proprio così».
«E allora credo proprio che ti toccherà darti da fare perché è quello che desidero».
«Puoi far di meglio, Re di cuori».
Guardai l’orologio e sbuffai. Mi sarebbero rimaste ben poche ore di sonno. «Non potevi scegliere notte peggiore».
Dal petto le uscì un suono roco che doveva assomigliare a una risata di sfida.
Arrivai al ristorante poco prima delle undici, l’ora del passaggio dalle colazioni ai primi aperitivi. I tavoli erano occupati perlopiù da signore di mezza età, fasciate in tailleur eleganti acquistati al primo giorno di saldi. Mi feci preparare un frullato di banane biologiche con latte di capra camosciata delle Alpi e mi dedicai alla lettura dei quotidiani locali. In quel periodo era un vero godimento. Il Veneto era sconvolto dall’arresto di un folto gruppo di politici, imprenditori, amministratori e altre figure di contorno, accusati di aver formato una vera e propria associazione a delinquere per arricchirsi alle spalle dei cittadini. Milioni e milioni di euro intascati grazie alle tangenti delle solite grandi opere. Soldi che erano finiti in Croazia e a Dubai, investiti in ville e speculazioni edilizie.
Lo sapevo fin troppo bene. L’avvocato nonché onorevole e addirittura ministro per breve tempo Sante Brianese, che aveva curato i miei interessi fin dal mio arrivo in Veneto, mi aveva convinto a investire due milioni di euro nella costruzione di un grattacielo nell’emirato. Quattrini sudati che lui pensava di fottermi allegramente perché convinto che dovessi solo essergli riconoscente. Ero stato costretto a mostrare i muscoli e a rendergli la vita difficile. Lui aveva reagito buttandomi tra le braccia della ’ndrina dei Palamara. Un altro tentativo fallito che lo aveva costretto alla resa e alla restituzione del maltolto.
Come i suoi compari anche Brianese aveva creduto di essere onnipotente. Aveva agito con arrogante spavalderia fino a quando il vento politico non era mutato: lui aveva perduto potere e i suoi uomini nei posti chiave erano stati sostituiti. I guai seri erano arrivati con l’arresto di Ylenia Mazzonetto, ex segretaria ed ex amante. La legittima consorte ne aveva preteso a suo tempo l’allontanamento e il mio ex avvocato l’aveva premiata sistemandola in una grande impresa di costruzioni che gli doveva un sacco di favori. Accusata di un lungo elenco di reati tra cui riciclaggio, Ylenia aveva cantato chiamando in correità altri corrotti, i quali di stare zitti e finire in galera non avevano mai avuto l’intenzione. Tutti avevano accusato Brianese di essere la mente, l’ideatore di una rete criminale dedita “a rendere più agile la politica”. Frase che ripeteva a coloro a cui chiedeva denaro. La sua difesa in parlamento per evitare l’arresto era stata patetica e inutile. Aveva tentato la carta degli arresti domiciliari resuscitando una vecchia frattura alla spalla con la compiacenza di nomi importanti della medicina locale, ma il massimo che aveva ricavato era stata una cella nel centro clinico di un grande carcere piemontese.
Il Veneto che lo aveva osannato gli aveva voltato le spalle. La sua fotografia era scomparsa da bar e ristoranti. Centinaia di copie con dedica del suo libro, Il mio Nordest, erano finite nei cassonetti della raccolta differenziata. Tutti prendevano le distanze. Perfino il quotidiano che gli aveva leccato il culo senza ritegno lo maltrattava come fosse l’ultimo dei reietti.
Moglie e figlie erano rimaste in disparte a guardare mentre affrontava l’umiliazione del patteggiamento: poco più di due anni e poco più di due milioni di euro da risarcire allo Stato.
Era un modo per impedire un processo pericoloso dove gli equilibri sarebbero stati retti da fili sottili. Le grandi famiglie e i loro nuovi alleati eletti dal popolo veneto avevano raggiunto l’obiettivo di mettere in guardia il complesso mondo degli affari e della politica: il tempo dei Brianese era finito per sempre. Nessuno poteva arrogarsi il diritto di arraffare senza spartire.
Ero stato fermamente convinto che la politica fosse l’eccellenza della creatività dal punto di vista criminale. Avevo dovuto ricredermi. Nessuno era stato in grado di spiccare il volo e di creare una relazione stabile e vincente tra potere, corruzione e crimine. Sante Brianese ne era l’esempio. Il politico corrotto serve esclusivamente se è un esecutore fedele, altrimenti si fotte da solo.
Il vero limite sono le regole del gioco. Non puoi dedicarti alla nobile arte del ladrocinio, del ricatto, della corruzione, del riciclaggio escludendo totalmente l’uso della violenza. Avevo cercato di spiegarglielo in tutti i modi quando le nostre relazioni lo permettevano, ma l’onorevole e la sua amante si erano solo spaventati. A morte. Forse per questo l’idea di coinvolgermi non li aveva minimamente sfiorati.
Come spesso era accaduto nella mia vita, mi ero dovuto reinventare dal punto di vista professionale. Avevo sempre scelto un tipo di crimine che garantiva buoni profitti e al contempo aiutava a realizzarmi sul piano umano. Sono un predatore. Amo appropriarmi degli altri, delle loro vite. Controllarle, esserne padrone, e come tale avere il potere di renderli peggiori, impedire loro di guardarsi allo specchio senza provare ribrezzo.
Ero uscito dallo scontro con Brianese e i calabresi più forte e più ricco, e potevo accontentarmi di quello che possedevo. Però non sarei riuscito a sopportare la noia di un’esistenza così limitata e nemmeno la ripetizione di esperienze già vissute come droga, puttane, rapine. Non solo per l’assenza di novità ma soprattutto perché il settore presuppone flessibilità per evitare l’attenzione e i rigori della legge. Le specializzazioni malavitose di lungo corso conducono inesorabilmente al carcere.
Il fatto è che non tutti posseggono le capacità e il coraggio per cambiare. Io sono sempre stato un cavallo di razza. Un vincente. Un precursore. E la dimostrazione è la quantità di reati commessi di cui non pagherò mai il conto. Quello lo pagano gli altri alla Nena, il mio regno indiscusso, il tesoro che nemmeno la ’ndrangheta è riuscita a portarmi via.
I clienti arrivano, si siedono, pensano solo a stare bene e ignorano che io li osservo, li catalogo. Valuto se e quanto possano essermi utili. Un giorno, a pranzo, si presentò un tizio con la figlia quattordicenne. Aveva tenuto a precisarlo al momento della prenotazione. Solo che io sapevo che si trattava di una bugia. Lui difficilmente poteva ricordarsi di me, ma ci eravamo incontrati un paio di anni prima in Friuli, per delle iniziative enogastronomiche dedicate ai ristoratori. Si chiamava Pierluigi Zettina, possedeva un’azienda a conduzione familiare di ottimi prosciutti e salumi. La figlia non era affatto male, era anche simpatica e competente, peccato che avesse venticinque anni, oltre a essere la minore di tre fratelli. L’imprenditore era un cinquantacinquenne che aveva fatto i soldi, girava con una macchinona ma ignorava la regola aurea che sei ti vuoi scopare una minorenne senza correre troppi rischi non la devi portare nei luoghi pubblici.
La differenza di età era evidente e se la somiglianza non certifica immediatamente la paternità tutti sono autorizzati a pensare male. Li avevo osservati con attenzione e l’uomo stava sulle spine, voltava continuamente la testa a caccia di sguardi di riprovazione. Doveva essere stata un’idea della ragazzina. Magari aveva fatto i capricci e aveva inserito anche il ristorante costoso nel pacchetto. O forse era una mignottella avviata al professionismo e il suo pappone voleva mostrarla in giro.
Parlavano fitto. A un certo punto notai che lei gli aveva accarezzato fuggevolmente una mano. Zettina l’aveva subito ritratta incenerendola con lo sguardo. Non sembrava che la sbarbina provenisse dai ceti medio bassi. Il taglio dei capelli era elegante, jeans e maglione di marca. E si sentiva a proprio agio in un ristorante di classe. Nel giro di pochi minuti mi ero convinto che fosse lei a gestire la situazione e che l’uomo in qualche modo subisse.
C’è una storiella che mi è sempre piaciuta moltissimo di un tizio che si ritrova legato a un albero. Viene soccorso da un automobilista di passaggio a cui racconta di aver vissuto una giornata pazzesca perché il destino si è accanito contro di lui procurandogli una sventura dietro l’altra. L’ultima, l’aggressione di un rapinatore che non solo lo aveva ripulito dell’auto e dei suoi averi ma lo aveva pure immobilizzato con una corda. Il soccorritore ascolta in silenzio, poi sorridendo dice che gli dispiace molto, si slaccia i pantaloni e lo inchiappetta.
Di fronte alla fragilità perversa di quell’uomo provai lo stesso desiderio di divertirmi, di entrare nella sua vita a gamba tesa. Di fotterlo. Mi sentii all’improvviso rilassato, la mente leggera e attenta, un calore benefico nello stomaco.
Li pedinai di persona fino a un motel a metà strada fra Padova e Venezia. Zettina scese dall’auto per ritirare la chiave. Allo scadere del trentesimo minuto entrai alla reception.
Il portiere mi accolse con un sorriso. «Ha prenotato?».
«No. Ho bisogno di fare una telefonata. Devo chiamare la stanza 29».
L’uomo annusò un venticello di rogne in arrivo e si mise sulla difensiva. «Non so se sono autorizzato. Il cliente non mi ha lasciato disposizioni in proposito».
«Il signore si sta intrattenendo con mia nipote, una ragazzina minorenne» spiegai gelido. «Posso sempre chiamare la polizia».
Il portiere afferrò il pacchetto di sigarette e l’accendino. «Vado a fumare» annunciò.
L’imprenditore rispose al sesto squillo. «Pronto».
«Ciao Pierluigi».
«Chi parla?».
«Sono Giorgio, il tuo miglior amico».
«Chi sei? Non conosco nessun Giorgio».
«Di’ alla ragazzina di rivestirsi» tagliai corto. «La riporto a casa».
Zettina precipitò nel panico. Faticai a calmarlo. «Nessuno saprà nulla perché troveremo insieme il modo di impedire alla mia coscienza di gridare al mondo che sei un pedofilo di merda».
«Non mi fai paura» balbettò l’uomo.
«Nemmeno un po’, vero?» lo canzonai. «Sei un duro. Affronterai a testa alta lo scandalo, il processo, la tua famiglia, la sua famiglia…».
La ragazzina uscì qualche minuto più tardi. Mi fissò con odio attraverso il parabrezza. Aprii la portiera dal lato del passeggero «Sali» ordinai.
Ubbidì. Non aveva paura. «Non è come credi» disse. «Noi ci amiamo».
Scoppiai a ridere. «Mi chiamo Giorgio e tu?».
«Virginia».
Risi ancora più forte.
«Quanti anni hai?».
«Quattordici».
«Dove abiti?».
«A Udine».
Indicai il navigatore. «Digita l’indirizzo».
«Perché lo fai?» chiese dopo un po’.
«Perché alla tua età non si va a letto con uomini che hanno quarant’anni più di te».
«Non abbiamo rapporti completi».
«Ah, no? E il tuo bel Pierluigi cosa fa? Ti tocca, te la lecca? E tu glielo succhi?».
Gli occhi della ragazzina si riempirono di lacrime. «Non parlare così, sporchi tutto».
Scossi la testa. La fessa era proprio innamorata.
«Cosa farai adesso? Lo denuncerai?» domandò tra i singhiozzi. «Ha detto che è pronto ad ammazzarsi».
Le strinsi il braccio e le parlai con dolcezza. «Non c’è bisogno di arrivare a tanto. Se lui dimostrerà di avere buon senso non dirò nulla ma tu mi devi promettere che fino a quando non avrai compiuto sedici anni non lo incontrerai più».
«È impossibile. Sono sua nipote. Le nostre famiglie si frequentano».
Sospirai. «Intendevo da soli, Virginia. Basta gite, basta pranzetti a due, basta motel, d’accordo? Per fortuna vi ho scoperto io, un altro vi avrebbe rovinato per sempre. Ma lo sai cosa rischia Pierluigi? Se lo ami davvero, due anni non sono poi così lunghi».
Con quella manfrina da padre spirituale riuscii a conquistarmi la sua fiducia. Mi raccontò tutto. Zettina aveva iniziato a corteggiarla quando non aveva ancora compiuto dodici anni.
«Sei un idiota» lo insultai quando lo incontrai un paio d’ore più tardi. «Quanto pensavi sarebbe durata la tresca con la ragazzina? Vivi a due passi dal confine, come tutti gli altri malati te ne puoi trovare una di famiglia povera in qualche villaggio del cazzo e te la puoi pure trombare con la benedizione dei genitori».
«Non capisci…».
Alzai il pugno, pronto a colpirlo. «Guai a te se provi a rifilarmi la storiella dell’amore impossibile. Virginia mi ha frantumato i coglioni con questa panzana».
«Quanto vuoi?» chiese in tono stanco. «Ti avverto subito che posso pagare poco e una volta sola».
Gli diedi una pacca sulla spalla. «Tranquillo, Pierluigi, mi accontento di un camion bello carico. Il tuo autista si ferma a bere un caffè lungo la strada e qualcuno con la copia delle chiavi lo fa sparire. L’assicurazione penserà a risarcirti. Come vedi te la cavi a buon mercato».
«Va bene» disse.
Lasciai che si allontanasse di due passi. «Ovviamente organizzerai ogni tre mesi una degustazione nel mio ristorante che da oggi rifornirai gratuitamente».
«Non esagerare» implorò. «I miei figli non sono stupidi».
Finsi stupore. «Ti sto solo aiutando, Pierluigi, e ricorda il mio consiglio: le ragazzine cercale all’Est».
Zettina fu il primo e il più facile. Ma anche il meno soddisfacente. Mi ero comportato come un bullo che ruba le merendine ai compagni di scuola. Avevo ottenuto un tornaconto di tutto rispetto ma non ero riuscito a farlo sprofondare in quella disperazione fatta di vergogna, paura, umiliazione che non ti abbandona più. Quella che rimane piantata nel cuore e non vi è modo di scacciarla. Pierluigi avrebbe imparato la lezione e si sarebbe fatto più furbo. Invece avrei dovuto usare Virginia, rovinarla per sempre, farla annegare in un mare di incubi. Il problema era che non mi piacciono le ragazzine. A me piacciono le quarantenni. Posso fare delle eccezioni ma la donna in quel caso deve avere qualcosa di speciale. Oppure devono essere troie professioniste, già formate e dure al punto giusto, convinte che non esista nulla di peggio rispetto a quanto hanno già vissuto. Spezzarle come rami secchi presuppone determinazione e fantasia. E a me non sono mai mancate.
A me interessavano le coppie che avevano non “qualcosa” da nascondere ma “tutto”. Quelle che una volta scoperte avrebbero perso ogni cosa, quelle che non se lo potevano permettere. Erano difficili da stanare, per la maggior parte era solo tempo perso. Le seguivo, prendevo informazioni e poi cercavo il modo per entrare nelle loro esistenze con la delicatezza del condottiero medievale che conquista un castello.
A volte il ricatto non era sufficiente. Allora era necessario passare alle minacce, privando la metà della coppia che possedeva i quattrini della compagnia dell’altra metà. Avevo messo in piedi una piccola banda. Due fratelli, Furio e Toni Centra, odontotecnici falliti non solo a causa della crisi ma anche della poca voglia di lavorare, custodivano i miei ospiti per una cifra ragionevole nello scantinato della loro ex azienda. Si trattava di brevissimi periodi e nessuno di loro era stato rapito con la forza. Si illudevano di recarsi a un appuntamento dove avrebbero finalmente chiarito quella sgradevolissima faccenda e si ritrovavano legati e imbavagliati. Venivano trattati bene tutto sommato. I Centra avevano esagerato solo con la proprietaria di una profumeria, moglie di un noto primario con ambizioni smisurate, che aveva una relazione con una esponente della destra cattolica più intransigente.
Certi di guarirla dall’omosessualità si erano dati da fare con troppo entusiasmo e non era stato facile sistemare la faccenda.
Nonostante l’impunità garantita dal silenzio delle vittime, avevo deciso che la svizzera e il professore sarebbero stati gli ultimi per il principio che una pratica criminale invecchia presto. E poi perché, come dicono i bambini, “il gioco è bello se dura poco”. E io mi stavo già stufando. Volevo passare ad altro anche se non sapevo ancora a cosa con esattezza. L’agiatezza economica mi permetteva di guardarmi attorno senza affanno.
I due erano arrivati una sera e li avevo presi subito in simpatia. Lei apparteneva a quella tipologia di ricchi che in Veneto sono quasi del tutto assenti. Giusto quelle grandi famiglie che dai tempi dei dogi si sono spartite la terra e poi sono approdate all’industria, ma quelle non venivano nel mio ristorante. Erano a conoscenza dei miei problemi con Brianese e mi evitavano. Non mi ritenevano degno della loro attenzione.
Lui invece era insignificante. Modesto nell’aspetto, nel vestire e nel gusto. Versandogli del vino ovviamente scelto da lei da cento euro tondi a bottiglia, avevo annusato un profumo di cui si era generosamente cosparso e che ne costava la metà. I due provenivano da universi lontani, il destino li aveva fatti incontrare e si era creata quella strana alchimia che li aveva fatti innamorare e arrivare nel mio locale.
Perché di vero amore si trattava. Non vi era alcun dubbio. Un’isola di puro sentimento in una sala frequentata da gente che nemmeno sapeva cosa si intendesse con quella parola. Io per primo. Per questo pensai che quella coppia sarebbe stata il finale perfetto di quella breve stagione criminale dedicata alle relazioni segrete.
Due mesi per raccogliere le informazioni necessarie. Il punto debole era senz’altro Guido Di Lello.
Si arrese subito e senza condizioni. Lo intercettai mentre stava uscendo dall’università a Venezia e gli mostrai, sul display del mio cellulare, una foto scattata alla Nena.
Lo invitai a bere un caffè e lui mi seguì come un manzo diretto al macello. Quando gli dissi che il mio obiettivo era alleggerire di un po’ di denaro la sua amante sospirò di sollievo. Era disposto a fare qualsiasi cosa pur di uscire indenne da quella vicenda. Mi divertii a umiliarlo facendomi raccontare tutti i particolari della loro relazione, anche i più intimi.
Fu facile convincerlo a prestarsi a un finto sequestro. Al massimo mezza giornata. Oriana avrebbe preso i gioielli, attraversato il confine e una volta consegnato il “riscatto” lui sarebbe tornato a vivere la sua vita.
«Ascolta un consiglio» gli dissi mentre lo accompagnavo dai fratelli Centra, dove sarebbe stato ospitato per il tempo necessario, ovviamente ben più lungo di quello che gli avevo prospettato. «Lascia stare le amanti. Tu non sei adatto a relazioni così complesse, sei troppo debole e vigliacco».
Pianse e io finsi di stupirmi.
Il piano che ritenevo perfetto nella progettazione e nell’esecuzione si trasformò in una sconfitta per il semplice fatto che la ricca signora si rifiutò di piegarsi al ricatto. Tagliò i ponti, scomparve. Abbandonò l’uomo della sua vita al destino. Davvero buffi quei due. Si erano giurati amore eterno e poi si erano traditi a vicenda nel peggiore dei modi senza battere ciglio.
Quella gran troia della svizzera andava punita. Avrei potuto rovinarla mettendo in piazza la storia con il professore ma in questo modo avrei attirato l’interesse degli sbirri.
Invece mi recai dai fratelli Centra e ordinai loro di uccidere l’ostaggio. Un servizio adeguatamente retribuito, ovviamente. Furio e Toni erano due debosciati. Avevano superato i quarant’anni senza riuscire a costruire relazioni stabili. Le puttane erano il loro unico orizzonte affettivo, a cui attingevano grazie al denaro di cui avevano sempre un bisogno disperato perché non erano mai stati in grado di mettere a frutto le proprie capacità. Gretti e ignoranti, odiavano tutto ciò che fosse diverso da loro, dal loro ambiente di periferia veneta. Guido Di Lello rientrava nella categoria: intellettuale, romano, musicista per diletto, che non capiva il dialetto e si esprimeva solo in un italiano forbito. L’idea di eliminare un parassita li eccitò.
Io adoravo i fratelli Centra, insospettabili mostri pronti a essere plasmati e spinti verso eccessi inimmaginabili. Strumenti utili quanto sacrificabili. Li avevo conosciuti tramite una mia vecchia socia nel settore prostituzione, una volta al mese procurava loro la compagnia di una ragazza. Nessuna voleva essere a disposizione dei due e più di una volta mi era toccato ricordare le regole d’ingaggio. Incuriosito dalla loro fama di laidi maiali una volta avevo accompagnato una dominicana recalcitrante per fare la loro conoscenza e avevo immediatamente fiutato il marcio di cui erano fatti. Mi era stato sufficiente fingere un po’ di simpatia nei loro confronti e Furio e Toni mi avevano spalancato l’abisso dei loro cuori e delle loro menti.
Nonostante fosse trascorso oltre un anno, non ero ancora riuscito a trovare le parole adeguate per descrivere il modo in cui il professore aveva affrontato la morte. Era certamente terrorizzato ma lo sguardo suggeriva una certa costernazione che gli impediva di chiedere pietà. Venne torturato fino a quando non mi annoiai delle sue sofferenze e delle sue grida. Poi lo uccisero a martellate. Convinsi i due fratelli a seppellire il cadavere nell’orto ricavato dietro l’edificio che un tempo ospitava la loro piccola attività di odontecnici, per avere un ulteriore margine di trattativa qualora i nostri rapporti si fossero guastati.
Ripagai la signora Oriana Pozzi Vitali con la stessa moneta: il silenzio. Nella speranza che l’incertezza sulla sorte del suo amante e il senso di colpa rendessero la sua vita un inferno. Invece era riuscita a sorprendermi un’altra volta incaricando due mercenari di scoprire i responsabili del rapimento e dell’omicidio del professore.
Non mi facevano paura. Solo che dopo un bel po’ ero riuscito a trovare l’ultima coppia di amanti in grado di ripagarmi adeguatamente dello smacco che avevo subìto dalla svizzera e per procedere avrei dovuto attendere che quelle due mezze calzette si arrendessero all’evidenza che era impossibile scoprire la verità.
Federico Togno si fece vedere all’ora di pranzo. Non avevo tavoli liberi e lo feci sedere al bancone. Mi occupai dei clienti mentre lui si ingozzava di tagliatelle ai funghi.
Un impresario che voleva fare bella figura con alcuni clienti mi prese da parte e mi chiese di occuparmi dei vini senza badare a spese. Sbirciai la comanda per farmi un’idea degli abbinamenti. «Verrà a costare sui mille euro» sparai senza ritegno.
«Non c’è problema. L’importante è che i miei ospiti se ne rendano conto».
«Lasci fare a me».
Dopo aver recitato la parte del sommelier estasiato per aver avuto finalmente l’occasione di servire vini di così grande pregio, riuscii ad avvicinarmi al mio spione di fiducia.
«E allora?».
«Marco Buratti e Max la Memoria. Lavoravano come investigatori privati senza licenza» disse allungandomi una cartellina. «Ma erano anni che non si facevano vedere in zona. A un certo punto avevano venduto tutto ed erano scomparsi. Secondo il brigadiere Stanzani sono innocui».
Scorrendo le informative dei carabinieri lessi un nome che mi fece sobbalzare: Beniamino Rossini. Gente che lo aveva avuto per nemico si era pentita amaramente di averlo incrociato.
«E lui si è visto?».
«No. Pare che viva in Libano».
Annuii soddisfatto. Meglio così. Quei due stronzi erano gestibili ma il loro amico cattivo sarebbe stato un osso duro anche per uno del mio calibro.
«Continua a seguirli».
Storse il naso. «È il compleanno di Maria José».
«Si tratta di un’emergenza e non mi stai facendo un favore dato che ogni mese ti pago lo stipendio».
«Hai ragione, solo che mia moglie ci teneva e poi mi terrà il broncio, lo sai anche tu come sono fatte le donne».
Sorrisi. «Dài la colpa a quel bastardo senza cuore del principale. Vedrai che non ti romperà le palle».
Squillò il telefono. Riconobbi subito la voce che desiderava prenotare un tavolo. Era la donna della coppia su cui avevo messo gli occhi.
«Per lei c’è sempre posto, signora Moscati» cinguettai. E poi mi domandai come avesse scelto quel cognome falso. Forse una vecchia compagna di scuola o una vicina. Non vedevo l’ora di chiederglielo.