CAPITOLO TERZO

Entrai nello studio dell’avvocato Bonotto e lasciai il cellulare alla segretaria. Il legale stava parlando con un tizio sui quarantacinque anni che indossava una camicia hawaiana a maniche corte decisamente sgargiante. Mi squadrò con curiosità.

Bonotto si alzò, si aggiustò la giacca e mi porse la mano.

«Quanto tempo, Marco».

«Già, qualche anno direi» buttai lì a corto di chiacchiere.

«Ti presento l’ispettore Campagna» continuò lui.

Mi girai e gli strinsi la mano. «Buratti».

«Giulio Campagna, antirapine» si presentò.

«Prima di lasciarvi soli» chiarì Bonotto, «mi sembra giusto riassumere gli elementi che vi hanno condotto qui, oggi. Marco, che conosco e stimo, mi ha chiesto se ero in contatto con un appartenente alle forze dell’ordine a cui raccontare una certa vicenda potendo contare sul suo assoluto riserbo.

«Ho immediatamente pensato all’ispettore Campagna, in cui ripongo la massima fiducia, e gli ho chiesto se era disponibile ad ascoltare quanto Buratti aveva da riferire. Sulla base di queste garanzie ho organizzato questo incontro».

Lo sbirro alzò la mano. «Ovviamente l’accordo vale se Buratti non è direttamente coinvolto nei fatti, altrimenti esce da questo studio in manette».

«Ovviamente» ribadii cercando di inquadrare il personaggio. Di primo acchito dava l’impressione di essere una persona difficile, poco malleabile. Sperai si rivelasse un tipo sveglio.

L’avvocato si alzò, prese la borsa e uscì dalla stanza.

«So chi sei» mise in chiaro l’ispettore. «Quindi saltiamo i preamboli».

Gli offrii una sigaretta. L’accettò, poi si alzò, spense il condizionatore e aprì la finestra. Entrò una folata di aria calda e umida. Il cielo era coperto di nubi cariche di pioggia. Per fortuna il centro di Padova era disseminato di portici.

«Due amanti. Lei è ricca, lui è un intellettuale che vive dello stipendio» attaccai cercando di essere chiaro e sintetico. «La donna impone misure di sicurezza maniacali ma un bel giorno riceve la chiamata di uno sconosciuto che le intima di sganciare trecentomila euro in gioielli nel giro di qualche giorno, altrimenti l’uomo muore. Lei taglia i ponti e dell’amante non si sa più nulla».

«Quando sarebbe accaduto?».

«14 marzo 2013».

«Le indagini ufficiali sono approdate a qualche risultato?».

Scossi la testa. «La persona risulta scomparsa».

Il poliziotto schiacciò il filtro sul bordo del davanzale e andò a sedersi sulla poltroncina dell’avvocato. «Quelle sedie di plastica costano un occhio della testa e sono pure scomode» divagò solo per avere il tempo di riflettere.

«Il sequestro di persona a scopo di estorsione è un reato del passato» ragionò a voce alta. «Quando hanno capito che li beccavamo sempre, perché erano bande troppo numerose per impedire le fughe di notizie, si sono dati una regolata.

«Poi c’è stato il periodo, molto più breve, dei sequestri “volanti”. Chiedevano dai trenta ai cento milioni e restituivano l’ostaggio nel giro di ventiquattr’ore. Ma a quel tempo era molto più semplice avere contanti a disposizione. Oggi le banche ci avvertono a ogni richiesta sospetta.

«E adesso, secondo la tua storia, una banda ha rapito uno spiantato e ha tentato di ricattare l’amante danarosa».

«Proprio così».

«E noi in questura siamo all’oscuro di tutto».

«Esatto».

«Fortuna che è arrivato il grande investigatore senza licenza che vuol risolvere il caso con il mio aiuto».

Non gli piacevo. Rimasi solo perché avevo bisogno di lui.

«Penso che sarebbe utile a entrambi darci una mano, sempre se ti interessa».

«Non posso certo lasciar perdere un sequestro e un omicidio. Se quanto affermi corrisponde al vero, c’è qualcuno che deve finire in galera con un ergastolo, ma voglio che una cosa sia chiara fin da subito: per me sei solo un informatore e come tale ti tratterò. Non pensare di giocare al “collega”, con me non funziona».

Stava esagerando. «Non ci penso proprio» ribattei secco. «Non mi sono mai piaciuti né gli sbirri né gli infami. Sono venuto qui a proporti una collaborazione che presuppone fiducia e condivisione delle scoperte. Se non ti aggrada, giro i tacchi e tolgo il disturbo».

Mi diede una pacca sulla spalla. «Scusa, Buratti, ma volevo essere certo di non avere a che fare con uno svalvolato che si crede Nero Wolfe o con un leccaculo di informatore».

«Avevo capito che ti eri informato sul mio conto».

«Notizie datate. Sei mancato dalla nostra bella città per troppo tempo, sarebbe stato da sprovveduti fidarsi».

Non era il massimo della simpatia ma forse l’avvocato mi aveva consigliato lo sbirro giusto. Lo misi al corrente dei dettagli, tralasciando solo quelli inutili. «Non ho i mezzi per indagare su Guido Di Lello a Roma» dissi. «Ambiente di lavoro, amici, parenti. Tutto lascia pensare che sia stato lui a parlare della relazione con Oriana Pozzi Vitali. Qui a Padova il mio socio e io finora non abbiamo trovato il benché minimo indizio».

Lo guardai. Mi ero lasciato sfuggire il particolare di lavorare con un’altra persona e Campagna non aveva battuto ciglio, il che significava che era al corrente di Max. Lo sbirro sapeva il fatto suo.

«Anche per me non sarà facile» disse. «Qui posso muovermi senza problemi ma per indagare a Roma dovrò chiedere e ricambiare favori».

 

Qualche minuto più tardi mi ritrovai a passeggiare nelle piazze piene di bancarelle e di gente che faceva la spesa. Padova non era affatto cambiata. La nuova giunta aveva vinto le elezioni con una campagna elettorale basata sulla sicurezza e la lotta al degrado, promettendo di eliminare la mendicità molesta, i campi rom, la prostituzione per strada, i clandestini e tutti gli altri elementi di disturbo. I nuovi padroni della città erano però abbastanza scaltri da capire che quando esageravano dovevano aggiustare il tiro in fretta. Un saltimbanco arrivato dal Sud, particolarmente amato dai cittadini, aveva protestato per le minacce dei vigili urbani che non volevano che si esibisse a due passi dal celebre caffè Pedrocchi. Quando aveva dichiarato di essere pronto a darsi fuoco nella pubblica piazza, all’improvviso il sindaco in persona si era scoperto grande amante degli artisti di strada.

I politici facevano il loro mestiere, i padovani erano soddisfatti delle promesse di una città “pulita”, ma lo spaccio di cocaina continuava a farla da padrone in centro. Facce vecchie e nuove di pusher locali e stranieri, informatori, sbirri, ex escort, ragazzini e ragazzine pronti a offrire sesso in cambio di droga e quattrini. E i consumatori. Tanti e discreti. La giostra girava che era una bellezza.

Ero arrivato da una quindicina di giorni e stavo decisamente meglio. Ero concentrato sulle indagini e incubi e fantasmi se ne stavano a cuccia. Essere tornati in pista come investigatori senza licenza stava rimettendo in piedi anche Max. Aveva ripreso le vecchie abitudini e trascorreva ore ad archiviare notizie, non prima però di aver preso pieno possesso della cucina dell’appartamento che Oriana Pozzi Vitali ci aveva gentilmente messo a disposizione.

Bella, elegante, fornitissima di ogni attrezzo utile a preparare piatti degni di grandi chef. Ma non erano mai stati usati prima del nostro arrivo. La coppia si era limitata a spuntini e colazioni. Evidentemente la signora voleva coltivare quella relazione in un luogo completo ed essenziale, non provvisorio come normalmente sono i rifugi degli amanti.

Ogni stanza era arredata come se fosse abitata quotidianamente. E non da due sole persone. Tre stanze da letto, uno studio, due bagni, salotto e cucina all’ultimo piano di un condominio di corso Milano. Dalla finestra della mia stanza vedevo il tetto del Teatro Verdi e altri scorci di Padova certamente compresi nel prezzo d’acquisto.

Quella casa dava l’idea dell’amore profondo che Oriana nutriva per il suo professore. A parte lo sfarzoso calore dell’arredamento, aprendo armadi e cassetti appariva evidente la cura dei dettagli per mettere a proprio agio l’amante.

Per una volta provai pena per quella donna così detestabile che ora si trovava in un’esclusiva clinica di Lugano nota per ospitare gente famosa con qualche rotella fuori posto. La relazione clandestina con Guido era stata un discreto tentativo di fuga da un ambiente che l’aveva costretta a rinunciare ai sentimenti. Però era stata sfortunata. E il professore ancora di più. Se il cadavere non era stato ancora trovato doveva essere stato seppellito o eliminato in modo efficace.

In tutti quei giorni inutilmente impiegati a trovare un indizio non avevo fatto altro che pensare alla banda di sequestratori. Criminali ne avevo conosciuti di ogni risma ma quelli dovevano essere in qualche modo particolari. L’idea era stata a suo modo geniale: ricattare un’agiata ricca signora che difficilmente si sarebbe rivolta alla polizia, e farlo con una richiesta precisa, nemmeno esosa data la disponibilità della donna, di gioielli e non di denaro. Insomma, la banda era a conoscenza di particolari fondamentali. Sapeva dove, come e quando. Era tutto pianificato. I criminali avevano investito tempo e risorse. Erano in grado di sequestrare un uomo in pieno giorno senza testimoni, armi spianate e sgommate di auto. Ed erano capaci di sparire nel nulla senza lasciare la minima traccia.

Non potevano essersi organizzati solo per quel rapimento. Doveva trattarsi di una banda specializzata che aveva agito altre volte. Le loro vittime avevano scelto di rimanere in silenzio. Persone ricattabili. Amanti.

Max e io avevamo verificato vicini di casa, bar e negozi della zona. Il mio socio aveva frugato su Internet. A parte la disperazione della fidanzata resa pubblica con una pagina su Facebook, la domanda era: perché è scomparso? Nessuno immaginava neanche lontanamente che fosse stato vittima della banda degli amanti.

Due settimane di ricerche totalmente infruttuose mi avevano convinto che l’unica pista in grado di aprire uno squarcio nella coltre impenetrabile che celava il mistero fosse quella romana. Doveva essere stato Di Lello a creare più o meno involontariamente la falla nella sicurezza. E toccava a Campagna scoprire come e quando il professore aveva iniziato a scavarsi la fossa.