CAPITOLO PRIMO
Chef-Boutonne, Francia. Febbraio 2012.
Sesto anno di faida.
Il luogo dell’incontro lo avevamo scelto noi. La campagna francese del profondo nord-ovest nelle notti d’inverno era fredda, buia e deserta. Gli sbirri se ne stavano al calduccio come il resto degli abitanti. Non c’era davvero nessuna ragione per uscire. Ma noi non eravamo legati ai ritmi della terra che in quella zona era coperta di campi e vigneti. Eravamo stranieri coinvolti in una guerra di malavita. Una di quelle che un giorno scoppiano e non sai quando finiscono. Costano sangue e anni di vita buttati nel cesso. A parte i contendenti non riguardano nessun altro e tantomeno fanno notizia. Polizia e stampa non se ne occupano. Magari ogni tanto inciampano in un cadavere che diventa un fascicolo e una notizia ma di certo non rappresenta una priorità.
Eravamo consapevoli che la nostra fosse una delle ultime. Faceva parte di un mondo criminale che andava scomparendo, di cui eravamo stati protagonisti a vario titolo per un ventennio. Ora stava andando in pezzi, sostituito da organizzazioni e personaggi che ci facevano ribrezzo e con cui non volevamo avere nulla a che fare.
La modernità, in quel settore, era ormai mafiosa, multinazionale, trasversale a ogni forma di corruzione del potere e delle istituzioni. E nociva. Quando arricchirsi illegalmente significa avvelenare la gente e i territori, concepire la schiavitù, mescolarsi con politici, imprenditori e boss della finanza, gli uomini liberi e con una coscienza abbandonano la festa.
I tempi in cui per appartenere alla schiatta dei criminali perbene era sufficiente non avere a che fare con droga e puttane erano ormai archiviati nella memoria di pochi.
Al mio fianco, quella notte, avevo uno degli ultimi esemplari di tutto questo: Beniamino Rossini. Contrabbandiere e rapinatore. Un uomo con la schiena diritta. Nulla a che vedere con le merdine che ora infestavano l’ambiente, feroci con i deboli e pronte a vendersi alla prima occasione. Soprattutto alla Legge.
Entrare in quel mondo non era stata una mia scelta. Ero finito in galera più o meno per sbaglio, mi ero fatto una reputazione come pacificatore e quando ero uscito gli avvocati avevano iniziato a ingaggiarmi per trovare una soluzione ai guai dei loro clienti. Una soluzione che talvolta poteva essere definita verità ma spesso le faccende erano più complesse. Quel vecchio bandito mi dava una mano a sopravvivere. Sapeva essere violento, micidiale. Caratteristiche che a me non erano mai appartenute, tutta colpa del blues che in un tempo molto lontano cantavo nei locali.
Nemmeno Max la Memoria era uomo d’azione. In quel momento stava fumando con lo sguardo piantato nel buio. Un ciccione dagli occhi azzurri slavati, ma con cuore e cervello grandi come montagne. Era diventato mio socio dopo che i sogni lo avevano tradito ed era finito nella lista di quelli che dovevano pagare per tutti.
Nessuno di noi avrebbe mai pensato di ritrovarsi in quella guerra che avevamo scatenato senza volerlo e che ora potevamo solo combattere. La diserzione non era ammessa. E nemmeno la resa. Avevamo subìto e restituito colpi, ci eravamo nascosti, avevamo sferrato attacchi. Erano trascorsi sei lunghi anni all’insegna della più totale insensatezza. Eravamo sfibrati e desiderosi di tornare a vivere le nostre esistenze complicate.
Per questo quando scorgemmo i fari di un’auto nella piazza sospirammo sollevati. Max e io uscimmo allo scoperto entrando nel cono di luce di un lampione, il vecchio Rossini rimase al coperto sotto il portico dell’antico mercato, le mani affondate nelle tasche del cappotto, strette al calcio delle pistole.
La donna che era alla guida spense il motore e scese dalla berlina di lusso con cui aveva attraversato mezza Francia. Si chiamava Bojana Garašanin ed era una pericolosa criminale. Una gregaria allevata nel culto della violenza nazionalista del gangsterismo serbo. Capelli neri corti, tozza, muscolosa e dai lineamenti piuttosto grezzi. Eccetto la bocca che era davvero bella, sensuale. Un dettaglio di pregio assolutamente inutile.
«Dov’è?» domandò alzando sulla testa il cappuccio del piumino. Il fiato si trasformò in una voluta di vapore.
Indicai il buio alle mie spalle. «Nel bagagliaio di un’auto» mentii.
Annuì facendo vagare lo sguardo. Probabilmente alla ricerca della posizione di Rossini.
«Lasciate andare mio zio. Vi dirò dove si nasconde Natalija Dinić».
Una delle tante identità. Noi l’avevamo conosciuta quando si faceva chiamare Greta Gardner. «Usa questo nome adesso?» domandò Max.
«Un’altra informazione che vi fornirò quando lo libererete».
«Non è così semplice» spiegò il ciccione.
«Che significa?».
«Trovare la Dinić, il tuo capo, non è una priorità in questo momento. Vogliamo prima fare piazza pulita delle sue attività».
Strinse i pugni in un gesto di stizza. «Lo ha deciso Sylvie, vero?».
Non avevo motivi per negare. «Ritiene che sia giusto agire in questo modo».
Alzò di un tono la voce. «Così non finirà mai».
«Sylvie è la parte offesa» ricordai. «Tocca a lei decidere come e quando chiudere questa faida».
«Anche Natalija è convinta di avere subìto torti che vanno lavati col sangue. Le avete ucciso gli uomini che amava. Il secondo addirittura sull’altare un attimo dopo che le aveva infilato l’anello al dito».
Si chiamava Vule Lez, un altro gangster serbo. Era morto macchiando di sangue l’abito da sposa della Dinić, a Parigi, nella chiesa ortodossa di Saint-Sava piena di invitati. Un’esecuzione strategica per le sorti della faida. Il primo marito della Dinić, invece, se l’era cercata. Non ricordavo nemmeno più il suo vero nome, ma quello che gli avevano fornito i servizi segreti serbi quando era arrivato a Padova. Pierre Allain. Questo tizio voleva obbligarci a indagare su un colossale furto di droga custodita all’Istituto di medicina legale. Avevamo gentilmente rifiutato l’incarico ma lui aveva insistito rendendoci la vita difficile, costringendo Rossini a sparargli. Il cadavere era stato sepolto sul fondo dell’ennesima autostrada che sfregia la campagna del Nordest e noi avevamo voltato pagina fino a quando la sua donna non aveva deciso di vendicarsi. Nel peggiore dei modi.
«Il suo capo doveva prendersela con noi» replicai, «non con la donna di Rossini. L’ha fatta rapire, l’ha torturata per poi venderla a una banda di mafiosi kosovari. Ha sofferto troppo e ora non riesce a dimenticare».
La donna si toccò la tempia con un gesto nervoso. «La verità è che è fuori di testa. Sono impazzite entrambe. Natalija vive per assomigliare sempre di più a Sylvie. Tre volte è andata sotto i ferri e continua a guardare le sue foto alla ricerca di dettagli da copiare. Il suo piano è di eliminare la donna di Rossini solo quando sarà diventata la sua gemella. E poi toccherà a voi. Quello che ha in mente glielo ha suggerito il demonio».
Scossi la testa inorridito. «Non accadrà. La fermeremo prima».
Bojana sorrise. O meglio, mostrò i denti. Piccoli, aguzzi. «Solo se ci sarò io ad aiutarvi» precisò. «Comunque gli affari di Natalija non possono rientrare nei nostri accordi. La mia famiglia ha deciso di acquisirli».
«Si tratta di prostituzione» ricordai. «Intendiamo mettere la parola fine al giro di schiavitù sessuale che gestite da anni».
Allargò le braccia. «Pretendete troppo. Mio padre e i suoi fratelli hanno deciso di offrirvi la vita del mio capo in cambio di quella dello zio. E basta. Io li conosco: se insisterete con queste richieste assurde rinunceranno a salvare l’ostaggio anche se è un parente molto amato e stringeranno un’alleanza con Natalija Dinić per distruggervi».
Max e io ci scambiammo un’occhiata. Non eravamo in grado di reggere due fronti di guerra e la nostra strategia stava franando. Non avevamo fatto i conti con l’ingordigia della famiglia Garašanin.
Bojana s’irrigidì all’improvviso. Mi girai e vidi che Beniamino si stava avvicinando. Si era stancato di seguire la conversazione collegato al mio cellulare.
«D’accordo. Ci accontentiamo della pelle di Natalja Dinić» disse porgendo la mano alla donna.
Lei la strinse con vigore. «È un bene per tutti. Vi dico dove trovarla e voi liberate lo zio. Si starà congelando chiuso in un baule».
«Non è certo per mancanza di fiducia» ironizzai. «Ma lo lasceremo andare solo quando tutto sarà finito».
Bojana Garašanin alzò le spalle. «Valeva la pena tentare. E comunque avremmo mantenuto la parola».
«Balle!» ghignò il vecchio Rossini. «Dove si trova Natalija?».
«A Lione» rispose la serba, tirando fuori dalla tasca un paio di fogli ripiegati. «Ho scritto tutte le informazioni necessarie».
«Sei la sua guardia del corpo da un sacco di anni» constatò Beniamino.
«Dodici per l’esattezza. All’inizio ero sola, poi si è aggiunta Ana».
«Ed è proprio di lei che volevo parlare. Dobbiamo considerarla ostile o è al corrente dei nostri accordi?».
La donna fece un passo in avanti e gli piantò l’indice nel petto. «Quando accadrà noi non muoveremo un dito ma ricordati: Ana non si tocca, altrimenti vi scanno con le mie mani».
Rossini annuì. «Era giusto per sapere. In questi casi si rischia di commettere errori che possono rendere infelici altre persone».
Bojana si rilassò. «Seguite le istruzioni e non ci saranno problemi» aggiunse mentre tornava alla macchina.
Fissai Rossini. «Le hai appena stretto la mano».
«Esatto».
«Questo significa che accettiamo che la banda Garašanin rilevi i traffici della nostra nemica».
Il vecchio bandito sbuffò. «Non possiamo salvare il mondo, Marco. Possiamo solo cercare di chiudere dignitosamente questa storia».
«E Sylvie?».
«Morta Natalija forse ricomincerà a vivere. Ma ho i miei dubbi, gli strizzacervelli non mi sembrano particolarmente ottimisti».
Max tirò fuori le sigarette e fumammo in un silenzio carico di amarezza.
«Se è vero quello che dice Bojana, mi sembrerà di sparare alla mia donna» commentò Rossini.
«Te la senti?» domandai. «Altrimenti possiamo chiedere a Luc e Christine. Lo farebbero più che volentieri».
Mi riferivo a Luc Autran e a Christine Duriez. Coppia di rapinatori marsigliesi che si erano arruolati nel nostro esercito per amicizia nei confronti di Rossini. Ogni tanto rapinavano insieme una banca o una gioielleria per finanziare la nostra costosa sopravvivenza.
Beniamino fumava con gli occhi semichiusi e il collo incassato nel bavero del lungo cappotto di cammello. Schiacciò il mozzicone con il tacco. «Tocca a me fare giustizia».
Una ventina di minuti più tardi varcammo il cancello di una fattoria che un’agenzia immobiliare non riusciva a vendere e che ci aveva affittato a un prezzo fuori mercato senza fare domande. Nel camino della grande cucina le braci erano ancora accese e la temperatura era confortevole. Max preparò uno spuntino a base di pane, salame e formaggio.
«Lione è la capitale della buona cucina francese» disse mentre armeggiava con un cavatappi. «Conosco un paio di bouchon in rue de Brest che meritano una visita».
«Non credo che rimarremo lì a lungo» ribatté Beniamino. «E soprattutto non possiamo farci vedere tutti e tre al ristorante».
Il ciccione non si perse d’animo. «Vuol dire che andrò solo. E poi vi decanterò sapori e profumi».
«Smettila di dire cazzate e tira fuori le informazioni di Bojana».
Indicò il piumino appeso all’attaccapanni. «Sono nella tasca di destra. E non insultare il desiderio di allargare la mia cultura enogastronomica» protestò agitando il salame. «Se non ci fossi io non vi sarebbe la benché minima traccia di poesia nella vostra alimentazione».
«Tra i tuoi tanti pregi» intervenne serio Rossini, «uno di quelli che apprezzo maggiormente è che non sei affatto permaloso».
Diedi una scorsa ai fogli prima di interrompere il cazzeggio dei miei amici, leggendo ad alta voce. Giorni e orari degli appuntamenti di Natalija Dinić nelle due settimane successive, riportati con una calligrafia leggermente infantile. Palestra, dentista, parrucchiere, estetista.
Max prese l’iPad e cercò gli indirizzi sulla mappa di Lione. «Sono tutti in pieno centro. Strade strette, trafficate, polizia ovunque».
«All’interno di un palazzo andrà bene lo stesso. L’importante è scegliere quello adatto allo scopo» disse Rossini alzandosi. Mise il colpo in canna alla pistola. «Vado in cantina a prendere lo “zio”. Deve ancora mangiare e poi sarà curioso di sapere com’è andato l’incontro con la nipotina».
Qualche minuto più tardi il nostro prigioniero tracannava un bicchiere di rosso, seduto al nostro tavolo. Si chiamava Lazar Garašanin, era vicino ai sessanta, e durante la guerra civile che aveva smembrato la Jugoslavia si era distinto per aver eliminato un discreto numero di civili croati. Si considerava un militare, un ufficiale, ne ostentava contegno e aspetto ma era solo un macellaio.
Insieme a due “veterani” aveva sequestrato Sylvie e l’aveva consegnata alla Dinić. Per denaro. Poi era stato ingaggiato nuovamente per eliminarci ma a Parigi aveva commesso l’errore di sottovalutare l’esperienza e l’istinto del vecchio Rossini. Quando aveva visto morire i suoi complici si era arreso. Beniamino gli aveva tenuto la canna della pistola appoggiata alla fronte per alcuni lunghi minuti.
«Purtroppo ci servi vivo» aveva bisbigliato deluso abbassando l’arma. Lazar si era buttato in ginocchio piangendo come un bambino.
La sera stessa avevamo inviato un messaggio alla nipote ed erano iniziate le trattative.
«Abbiamo incontrato Bojana» lo informai.
«Allora sto per tornare a casa» ridacchiò nervosamente, accarezzandosi il mento ispido di barba grigia.
«Dipende da come vanno le cose» ribatté Rossini in tono minaccioso. «In queste faccende non è mai consigliabile illudersi troppo».
Lo zio impallidì e si concentrò sul burro che stava spalmando sulla baguette. «Se aveste lasciato fare a mia nipote, a quest’ora sarebbe tutto finito» borbottò lamentoso. «Qualche goccia di veleno, un laccio stretto al collo. Facile e pulito».
«Noi non assoldiamo sicari» tagliò corto Beniamino.
«È una brutta parola in tutte le lingue» protestò offeso il serbo per darsi un contegno.
«Domani ce ne andremo» annunciai, cambiando discorso. «Ti lasceremo chiuso in cantina con cibo e acqua sufficienti e quando sarà il momento avviseremo Bojana di venire a liberarti».
«Ma in questo modo non ho nessuna garanzia che manterrete i patti».
«Hai paura, “comandante”?» domandai divertito.
Il serbo indicò Rossini con un gesto furtivo della mano. «Sì, di lui».
Lazar era proprio un povero coglione. Temeva la vendetta di Beniamino perché la sua cultura criminale non concepiva il rispetto. Della parola data, dei prigionieri, delle donne, dei bambini.
Il vecchio bandito lo prese per un braccio. «È ora che vai a nanna, Lazar Garašanin. La tua presenza qui non è più gradita».
Il viaggio fino a Lione durò oltre cinque ore. In una brasserie della periferia incontrammo Luc e Christine. Avevano entrambi un aspetto diverso dall’ultima volta che li avevo visti. Evidentemente nel frattempo avevano fatto un prelievo e cambiare look era fondamentale nel settore rapine.
Lui si era tagliato i baffi e lei si era tinta i capelli di un rosso scialbo. Entrambi indossavano una tuta con il logo di un’impresa di pulizie.
«Abbiamo trovato una casa sicura a Vienne» c’informò Luc. «La signora che l’affitta è la vedova di un tipo a posto che ho conosciuto in galera».
«Sono più di trenta chilometri dal centro» aggiunse la moglie. «Ma la città in questo periodo non è sicura. Gli sbirri stanno cercando un paio di latitanti e sono aumentati i controlli».
Rossini alzò le spalle. «Saremo veloci e discreti. Come sempre».
Max e io salimmo su un autobus per raggiungere il centro, dove avremmo iniziato a studiare i luoghi frequentati da Natalija Dinić. Era piacevole camminare per le vie di quella bella città antica e opulenta ma avevamo altro per la testa. Da un lato eravamo sollevati dalla prospettiva che quella vicenda terminasse una volta per tutte. Dall’altro eravamo pervasi da una sorta di disperazione che nulla aveva a che vedere con la razionalità. Anche se sapevamo che era giusto e che non vi erano alternative possibili, pianificare un omicidio per via di un tradimento era incompatibile con quella che era stata la nostra esistenza fino a quel momento.
«Quella troia ci ha rovinato la vita eppure vivremo la sua morte con un inspiegabile rimorso» disse il ciccione tra un sorso di birra e l’altro.
«È un fardello che dobbiamo condividere con Beniamino. Sarà lui a tirare il grilletto».
Ci eravamo infilati in un bar di rue de la Martinière, dove quasi di fronte all’Académie de Billard c’era lo studio del dentista di Natalija. Per entrare nel palazzo bisognava attraversare un piccolo giardino. Senza aver verificato gli altri indirizzi sapevamo entrambi che sarebbe accaduto lì. Una sorta di terra di nessuno circondata da siepi e con un paio di alberi che sembravano essere stati piantati in previsione di un agguato.
Come sempre il vero problema sarebbe stata la via di fuga ma a quello avrebbero pensato il vecchio bandito e i marsigliesi.
Salimmo su un taxi diretti alla stazione. Il treno era pieno di pendolari stanchi, una parte parlava al cellulare, l’altra ascoltava rassegnata frammenti di storie altrui.
«Ho voglia di fumare e di bere» confidai a Max. «E ho smesso solo da una mezz’oretta».
«Ti capisco. Io ho anche fame. Abbiamo bisogno di riempire i buchi delle nostre esistenze».
Ridacchiai. «Hai avuto troppe fidanzate strizzacervelli. Ti hanno segnato».
«Solo le lacaniane. Due, in effetti, non sono poche».
«Secondo me ci ricaschi alla prima occasione».
«Ci puoi contare. Tra un po’ mi arrampicherò su un albero e mi metterò a urlare: voglio una donna! Come quel personaggio di Fellini».
«Vita da faida». Doveva essere una battuta cinica ma mi era scivolata tra le labbra con troppa tristezza.
«Credo che dovresti riconsiderare l’idea di fidanzarti con una strizzacervelli» commentò il ciccione. «Tra un po’ tutte le donne ti cacceranno come ha fatto la barista di La Trinité».
«Sei un amico». Nelle ultime settimane mi ero sforzato di dimenticare l’ennesima figura di merda con una donna che mi piaceva. Era fine luglio, pioveva e non faceva affatto caldo. Mi ero fermato per fare il pieno e avevo notato l’insegna dall’altra parte della strada: Tip Top Bar.
Avevo pensato che un bicchierino poteva starci e mi ero ritrovato in un locale praticamente deserto fatta eccezione per due pensionati, clienti fissi, alle prese con un pastis che doveva durare fino a sera e la barista che mi fissava a braccia incrociate con la sigaretta che penzolava dalle labbra.
Quarant’anni, una cascata di riccioli scuri, bel viso, truccata come se attendesse il suo turno per sfilare sulla passerella di un’esclusiva maison parigina. Tette e scollatura che non potevano passare inosservate.
«Con una come te dietro al bancone il bar dovrebbe essere pieno di uomini assatanati» dissi dopo aver ordinato una birra e un’anice.
«Arrivano la sera» rispose. «Quando do il meglio».
«Allora credo che mi fermerò per lo spettacolo».
Presi il bicchierino di liquore e lo feci affondare nel boccale. Quando toccò il fondo l’anice si era già mescolato alla birra. «Provvidenziale per scacciare la sete» spiegai.
Lei non mi badò. Mi aveva già archiviato alla voce cliente qualsiasi. Iniziai a fissarla insistentemente. Si seccò quasi subito.
«Che c’è?» sbuffò.
«Vorrei attaccare discorso ma non riesco a capire quale sia quello giusto per attirare la tua attenzione. Non voglio sbagliare la prima mossa».
«Ci sai fare con le ragazze, eh» mi canzonò prima di spostarsi verso la radio per cambiare stazione.
Ne approfittai per alzarmi sulle punte e guardarle il sedere e le gambe. Colsi il suo sguardo beffardo che mi spiava dallo specchio. «Tutto di tuo gradimento?» domandò.
«Sì» sospirai.
Si sintonizzò su una stazione che stava trasmettendo Coeur de Chewing Gum. Brigitte cantava:
Si j’avais le coeur dur comme de la pierre
j’embrassarais tous le garçons de la terre
mais moi j’ai le coeur comme du chewing gum
tu me goûtes e je te colle…
«Anche tu hai il cuore così gommoso?» le chiesi.
La donna mi fece segno di seguire il testo.
Irrésistiblement amoureuse c’est emmerdant
Irrésistiblement emmerdeuse c’est amusant.
«Hai capito, allora?» domandò.
«Sì, ti stai prendendo gioco di me».
«Proprio così».
«Me lo merito, vero?».
«La domanda sul cuore era da principiante».
In quel momento sentii vibrare il cellulare nel taschino della camicia. Era Beniamino. Voleva sapere se avevo già attraversato il confine e quando sarei arrivato a Nizza. Fissando negli occhi la barista risposi che ero nelle vicinanze ma molto probabilmente sarei arrivato con un paio di giorni di ritardo perché avevo incontrato la donna più bella del mondo. Il mio amico non fece domande, gli bastava sapere che stavo bene e che ero per strada. Lei invece scoppiò a ridere.
«Capisci l’italiano» constatai stupito.
«Un po’. Come tutti, siamo a due passi dal confine».
«Ti ho fatta ridere».
«Sono davvero la donna più bella del mondo?».
«Senza il minimo dubbio».
Mi porse la mano. «Mi chiamo Ninon».
E di cognome faceva Colin. Lo scoprii quando suonai al campanello di casa sua il giorno seguente. La serata al Tip Top Bar era stata impegnativa, sia dal punto di vista alcolico sia da quello del controllo della rabbia. Un numero spropositato di contendenti che avrei voluto cacciare minacciandoli con un canne mozze. La bella barista mi aveva invitato a pranzo ma sul tavolo della cucina c’era solo un sacchetto di carta con due sandwich al prosciutto.
«Vino o birra?» domandò.
«Birra» risposi distrattamente. Tutta la mia attenzione era stata risucchiata da un poster dove Ninon, praticamente nuda, era avvinghiata a un uomo.
«Ho lavorato nel porno fino a due anni fa» spiegò. «E quel fusto è il mio ex marito. Anche lui non recita più, ora fa il produttore in Slovacchia».
«Mi regali tutta la collezione dei tuoi film?» chiesi seriamente.
«No» rispose prima di baciarmi.
Ninon era bella. Sarei rimasto nel suo letto per il resto della mia vita ma nella sua non potevo trovare posto. Ero solo lo straniero di passaggio con cui rompere la monotonia di un paese in cui tutti gli uomini la corteggiavano ma nessuno la voleva veramente. Lei accettava la situazione perché il Tip Top Bar apparteneva alla sua famiglia da sempre e non l’avrebbe abbandonato per nessun motivo al mondo.
Due giorni dopo ne ero totalmente invaghito. Quando capii che il mio tempo era scaduto entrai nel locale e le chiesi di partire con me. In quel momento.
Ninon accese due sigarette e me ne infilò una tra le labbra. «Ti prego, non essere ridicolo. Non lasciarmi questo ricordo squallido».
Io invece peggiorai la situazione. Per fortuna lei si stancò presto e m’impedì di toccare il fondo.
«Smamma bello!» sibilò glaciale. Io voltai i tacchi diretto alla porta.
Mentre passavo accanto al tavolino con i due pensionati, sentii che uno commentava: «Un altro coglione, eh Louis?».
Aveva ragione, e quella storia continuava a farmi stare male. Ninon non si meritava di essere trattata così. Effetti collaterali di quella guerra a cui forse un’inevitabile esecuzione avrebbe messo fine.
Alla stazione di Vienne trovammo Luc che ci caricò su un piccolo furgone. La casa sicura era l’ennesima villetta sperduta nella campagna. Non era abitata da un pezzo, c’era polvere ovunque. Ed era gelida. Le stufe andavano a tutto regime ma per avere un po’ di calore avremmo dovuto attendere l’indomani.
Max andò ad aiutare Christine a organizzare la cucina. Io cercai Beniamino per metterlo al corrente delle nostre esplorazioni lionesi.
Gli parlai subito del giardinetto. Mi chiese un paio di dettagli solo per non essere scortese ma era chiaro che stava pensando ad altro.
«Hai parlato con Sylvie» indovinai.
«Già. L’ho informata che siamo stati costretti a rinunciare a colpire Natalija Dinić nei suoi traffici e lei non l’ha presa affatto bene. Mi ha insultato. Ogni giorno che passa le sue parole diventano sempre più crudeli».
Dalla tasca della giacca tirai fuori una fiaschetta di calvados. La portavo con me da due giorni e non ne avevo bevuto ancora un goccio. Svitai il tappo e la passai al mio amico.
Ne ingollò un sorso. «Ormai tutto è doloroso in questa storia. E malato».
Ero d’accordo e rimasi ad ascoltare i suoi pensieri tristi e stanchi. Era disperato per la donna che amava e che non riusciva più ad appassionarsi alla vita.
«Di me ama solo la violenza che posso scaricare sui suoi nemici».
«Sono anche i tuoi. I nostri».
«Ma Sylvie questo l’ha scordato».
Venimmo interrotti da Luc che ci annunciò che la cena era pronta. Una gigantesca frittata con le cipolle che Max non smise di lodare puntualizzando pedantemente che però lui l’avrebbe cucinata in modo diverso. Christine non gli badò affatto. E nemmeno noi. L’indomani Natalija si sarebbe recata dalla parrucchiera ed eravamo concentrati nell’organizzare una ricognizione accurata.
«È importante che ci siamo tutti» ribadì Beniamino. «Dobbiamo capire se i Garašanin hanno intenzione di mantenere i patti».
«Mi stupirei del contrario» ribattei. «Teniamo in ostaggio lo zio Lazar e hanno tutta l’intenzione di mettere le mani sulle attività della Dinić».
Rossini terminò di masticare un boccone. «Mai fidarsi di una banda di gangster serbi, soprattutto se sei uno straniero» sentenziò. «Magari proprio in questo momento stanno trattando con Natalija perché hanno deciso che un’alleanza è più utile e Lazar può finire in una fossa senza nome».
Annuii ma Beniamino non riteneva concluso il discorso. «Non capisco perché ti fidi di Bojana».
Non era del tutto vero. Però avevo dato per scontato il valore dell’ostaggio. «Ho sbagliato» ammisi senza difficoltà.
Rossini si rivolse agli altri. «Dobbiamo approfondire il discorso?».
Max ghignò. «Non è necessario. Il fatto è che Marco si strugge per una certa barista e ha il cervello in pappa».
«E chi è?» domandarono Luc e Christine. Il ciccione non si fece pregare. «Un’ex pornostar».
«Se è francese Luc la conoscerà di certo» intervenne Christine. «È un consumatore compulsivo di film porno».
«Non è vero. Mi piace il cinema erotico. Che c’è di male?» si difese goffamente il marito.
«Per me sono noiosi» aggiunse la consorte. «Vero?».
Beniamino, Max e io ci dichiarammo d’accordo.
«Mi avete consegnato al nemico» ci rimproverò Luc. «Ora la mia vita diventerà un inferno. Mi toccherà vedere solo film di rapine. Christine non guarda altro».
Scoppiammo a ridere e continuammo a scherzare per un bel po’. Ma la nostra amica non aveva dimenticato che non avevo ancora svelato il nome della mia barista.
Quando pronunciai quello d’arte, Luc sgranò gli occhi per la sorpresa. «Ma è bellissima».
«Sì. La donna più bella del mondo» sospirai.
Colsi le occhiate perplesse e canzonatorie dei miei amici e tenni a ribadire che si trattava della pura verità. «E non la dimenticherò mai».
«Non ci posso credere» sbottò Rossini sbalordito. «Ti sei fuso il cervello per l’ennesima donna che non ti ha voluto».
«Che non mi ha capito» lo corressi. «È diverso».
«Spudorato menzognero» mi apostrofò Christine in italiano, riempiendomi il bicchiere.
Sveglia alle sei. Caffè e biscotti secchi. Poi di nuovo in treno mescolati a pendolari e studenti. Tanto per cambiare pioveva. Una pioggerella sottile e fastidiosa. Comprammo degli ombrelli da un ragazzo ghanese che si sentì leggermente offeso perché non avevamo voluto trattare sul prezzo.
«Non è che pensate che sono un morto di fame e volete farmi la carità?».
«No» rispose Max. «Abbiamo solo fretta. Comunque sei troppo caro».
«Colpa vostra» ribatté il giovane. «Io vi avrei tolto cinquanta centesimi a pezzo».
Trascorremmo la mattina osservando portoni e portinai, strade e vicoli, auto e mezzi pubblici, volti, divise, locali e negozi. Come avevo previsto con Max, Rossini scelse il cortiletto del palazzo del dentista.
«È una specie di gabbia. Una volta entrata non riuscirà a svignarsela» disse in tono piatto. Col mento indicò la via di fuga. «Useremo una moto. Luc alla guida».
«E tu dall’altra parte della strada su un’altra due ruote» aggiunse rivolto a Christine. «A tenere d’occhio le due guardie del corpo ed eventuali sbirri di passaggio. Se qualcuno estrae le pistole fallo anche tu».
Pranzammo separati. Max mi trascinò ovviamente in rue de Brest dove si rimpinzò con metodo dopo aver studiato il menu come un testo sacro. Ordinò anche per me pietanze diverse per poter allungare la forchetta. Giusto per assaggiare.
Raggiungemmo gli altri nei pressi dell’estetista un’ora prima dell’appuntamento di Natalija, per essere certi che Bojana non ci avesse invitati al massacro. La situazione era tranquilla. Come punto di osservazione scegliemmo la vetrina di una caffetteria. L’auto di Natalija Dinićčarrivò puntuale. Bojana scese e aprì la portiera posteriore da cui uscì… Sylvie. A cinquanta metri di distanza le due donne, le due grandi rivali erano identiche. Rossini, impietrito, era pallido come un cencio.
Si voltò verso di noi. «I capelli» balbettò con voce rauca. «Sylvie li porta così da poco più di un mese. Come fa a saperlo? E il cappotto? È un modello di Marras dell’anno scorso, gliel’ho regalato ai primi di marzo e Sylvie lo avrà indossato non più di due o tre volte».
«Qualcuno la spia per suo conto» sussurrai sconvolto dalle implicazioni della faccenda.
Natalija continuava a essere un passo avanti a noi. Sapeva che Sylvie si trovava a Beirut e se era informata sulle sue scelte estetiche e sul suo look significava che era abbastanza vicina da poterla uccidere. O peggio, rapirla un’altra volta.
«Non ho mai sospettato nulla» constatò Rossini distrutto. «Pensavo di aver messo la mia donna al sicuro e invece mi sbagliavo».
In quel momento Ana, l’altra guardia del corpo della serba, scese dall’auto e si appoggiò alla portiera. Bojana la raggiunse e insieme iniziarono a guardarsi attorno con circospezione. Impiegarono una manciata di secondi a individuarci. La Garašanin avanzò nella nostra direzione e passò davanti alla vetrina con uno sguardo interrogativo. Rossini scosse la testa per rassicurarla che quel giorno non sarebbe accaduto nulla.
Era arrivato il momento di abbandonare la zona ma Beniamino rimase inchiodato sulla sedia.
«Voglio vederla bene. Voglio rendermi conto di quanto sono uguali».
E così restammo ad attendere tra cappuccini fasulli e fette di torta troppo dolci. Le due guardie del corpo non riuscivano a comprendere il motivo per cui eravamo ancora lì. Chiacchieravano fitto, avvolte in caldi piumini lunghi fino ai piedi e sufficientemente larghi per nascondere egregiamente le armi che portavano alla cintura.
Bojana prese il cellulare e un attimo dopo il mio squillò.
«Mi devo preoccupare?» domandò.
«No» risposi. «La somiglianza è impressionante e dobbiamo fare i conti con questa follia».
«Capisco. Avete già deciso quando agirete? Il tempo passa e lei potrebbe fiutare il pericolo».
«Presto. Molto presto» risposi ma non riattaccai. Dovevo approfittare dell’occasione per fare una domanda precisa. «Il tuo capo sa dove si nasconde Sylvie?».
«Mi sembrava di essere stata chiara quando vi ho detto che studia continuamente le sue fotografie. Arrivano via mail un paio di volte al mese. E quei due drusi che la proteggono sono solo dei vecchi coglioni» spiegò prima di riattaccare.
Rivedere Natalija Dinićčfu ancora più impressionante.
Uscì dal portone camminando come Sylvie, il volto aveva la stessa espressione fiera da danzatrice francoalgerina che avevo ammirato in mille occasioni. Solo che quella era la persona sbagliata. Al contrario della donna di Rossini, dentro era marcia. Spietata, crudele, perversa. Pericolosa.
Di fronte alle nostre reazioni stupefatte, Christine Duriez reagì con durezza. «Toglietevi dalla faccia quell’espressione ebete» sibilò. «È solo una brutta replica».
Qualche ora più tardi, alla fine di una cena silenziosa, informai gli altri che Bojana aveva tranquillamente ammesso che qualcuno spiava Sylvie a Beirut.
«Ha sempre potuto contare su amicizie potenti» disse Beniamino. «Ma quello che non capisco è come faranno i Garašanin a giustificare la sua morte e ad accaparrarsene gli affari. Bojana è una di loro, sembrerà strano a tutti che non abbia mosso un dito per difendere il suo capo».
All’improvviso vidi la faccenda da tutt’altra prospettiva. Beniamino aveva fatto bene a riprendermi sulla fiducia che avevo accordato a Bojana. «Lei e Ana apriranno il fuoco un attimo dopo che avrai ucciso la Dinić».
«Probabile. Contano sul fatto che le consideriamo nostre complici per spararmi a tradimento. La sua disponibilità serve solo a creare un clima di fiducia, a farmi abbassare la guardia».
«Ci stiamo dimenticando di Lazar» intervenne Max.
«Niente affatto» ribattei. «Il loro obiettivo è eliminare la minaccia rappresentata da Beniamino. Fingeranno di offrire la salvezza a noi due in cambio dello zio».
«È stato il loro comportamento di oggi a mettermi una volta di più sull’avviso» spiegò Rossini. «Sono state in piedi tutto il tempo appoggiate alla macchina al freddo, invece di sfruttare gli accoglienti sedili di pelle. Pronte ad aprire il fuoco».
«E allora cosa facciamo?» chiese Luc.
Rossini si alzò, prese dalla credenza una ciotola piena di noci e una bottiglia di vino. «Cambiamo piano» rispose.
«Non possiamo ammazzare Bojana» mi premurai di ricordare. «Significherebbe dichiarare guerra alla famiglia Garašanin».
«E non possiamo permettercelo» aggiunse Rossini. «Se non ci viene in mente nulla per fottere tutti dovremo considerare l’idea di liberare Lazar e fuggire dall’altra parte del mondo con Sylvie».
«Sudamerica» suggerì Christine.
«Australia» propose in alternativa Luc.
Max e io ci guardammo agghiacciati e iniziammo subito a cercare un’idea.
Un’esecuzione nel centro di una grande città come Lione era una faccenda maledettamente seria. Il controllo poliziesco era capillare e la quasi certezza di una sparatoria con le due serbe complicava ulteriormente le cose. Per avere una discreta possibilità di uscirne vivi e liberi sarebbe stato necessario avere il tempo di verifiche accurate. Invece quell’unica notte ci aveva permesso solo di raffazzonare un colpo di mano basato sulla disperata consapevolezza che Natalija era più forte di noi ed era necessario ucciderla quel giorno stesso.
Quando Luc, Christine e Beniamino si allontanarono a bordo di due potenti motociclette rubate dallo sfasciacarrozze dove erano state custodite fino a quel momento, pensai alla lunga lista di incognite che minavano la buona riuscita dell’operazione. La maggior parte riguardavano il mio ruolo.
«Guida tu» dissi a Max lanciandogli le chiavi dell’auto. «Rischio di tamponare qualcuno».
Il ciccione mi guardò di traverso.
«Tranquillo, al momento giusto sarò calmo e tutto filerà liscio» ribattei seccato.
Quando arrivai alla mia posizione, il vecchio Rossini stava entrando nel giardinetto. Sopra il giubbotto da motociclista aveva indossato un lungo impermeabile e sfoggiava una coppola bianca come la neve. Dettagli che gli eventuali testimoni avrebbero ricordato con precisione dimenticando quelli più utili per giungere a un’identificazione. Subito dopo scomparve, acquattato in una provvidenziale rientranza della facciata del palazzo. Ancora dieci minuti e sarebbe calato il buio. Esattamente quando era previsto l’arrivo del nostro bersaglio.
In quei frangenti il tempo scorre con una lentezza esasperante. Credevo di impazzire e non riuscivo a stare fermo. Luc e Christine ostentavano invece tranquillità. Nessuno avrebbe mai sospettato che fossero armati e pronti a sparare.
Finalmente l’auto arrivò. Come il giorno precedente Bojana scese e aprì la portiera posteriore. In quel momento presi il cellulare e la chiamai, pregando che anche il suo fosse acceso e che gli dèi della telefonia mobile mi fossero propizi.
Rispose al secondo squillo, mentre stava aiutando Natalija a scendere. «Un cecchino tiene sotto mira Ana» mentii sperando di essere convincente. «Morirà se tenterete di fregarci. Vi conviene andarvene in fretta».
La serba chiuse la comunicazione. I suoi occhi frugarono la via cercando di individuarmi. Alzai una mano per facilitarle la ricerca.
Bojana accompagnò il suo capo fino al cancello del giardinetto e poi tornò alla berlina. Qualche secondo più tardi Ana riaccese il motore e partì sgommando.
La Dinić si voltò di scatto. Capì di essere stata tradita e accelerò il passo cercando rifugio nel palazzo ma si trovò di fronte Rossini che le puntava al petto una pistola munita di silenziatore.
Natalija sorrise e allargò le braccia. «Amore» esclamò e lo strinse forte sussurrandogli parole d’amore. Le stesse di Sylvie, un misto di arabo e francese.
Il vecchio bandito crollò sotto il peso di quell’ennesimo inganno della serba. Non solo era identica alla sua donna ma conosceva i segreti del loro amore. Non riuscì a tirare il grilletto. E tantomeno a liberarsi da quell’abbraccio.
Fu Christine a risolvere la situazione. Attraversò la strada di corsa e li raggiunse. Appoggiò la canna del revolver di grosso calibro alla tempia della donna e fece fuoco. Natalija Dinić crollò a terra. Beniamino continuava a fissarla con occhi annebbiati. Il volto sporco del suo sangue. Christine lo afferrò per un braccio e lo costrinse a camminare. Ma il vecchio bandito era lento, impacciato.
«Così ci fai ammazzare» lo implorò la marsigliese. «Dobbiamo andare via di corsa».
Finalmente Rossini si riprese. «Sì, andiamo via» borbottò e si avviò a passo deciso verso Luc che lo attendeva con il motore acceso. Christine s’infilò il casco e filò via un attimo dopo. Diverse persone stavano uscendo dall’Académie de Billard attirate dal rumore dello sparo.
Mi allontanai a piedi sforzandomi di non accelerare il passo, Max aveva parcheggiato in una traversa vicina. Mi tempestò di domande quando seppe che era stata la nostra amica a stendere la Dinić. Nemmeno lui credeva possibile che Beniamino potesse crollare.
Chiamai Bojana. Mi aggredì insultandomi.
«Vuoi sapere dove andare a prendere lo zio Lazar o ci risentiamo quando sei più calma?».
«Non c’era bisogno di mettere in pericolo la vita di Ana» ribatté furiosa.
«Non potevamo fidarci» tagliai corto e le diedi l’indirizzo della casa colonica. «È chiuso in cantina».
«Spero che l’abbiate trattato bene. La mia famiglia potrebbe non gradire» disse la serba in tono minaccioso.
«Da questo momento per tutti i Garašanin noi non esistiamo più» annunciai scandendo le parole. «Altrimenti facciamo girare il video in cui Natalija Dinić viene tradita dalle sue guardie del corpo».
Bojana rimase in silenzio. Poi riattaccò. Ero certo che non l’avremmo più rivista.
«Sei diventato bravo a raccontare balle» si complimentò Max.
Spezzai e gettai dal finestrino la scheda del telefono. Entrò una folata di vento gelido.
«Speriamo sia finita» sospirai.
Il ciccione non rispose. Mi passò una fiaschetta di calvados. Un pensiero fraterno. Era quello di cui avevo bisogno.
Alla casa sicura trovammo solo i marsigliesi.
«Beniamino è voluto rimanere in paese» spiegò Luc. «Ha detto che ha bisogno di stare da solo».
Christine terminò di arrotolarsi una sigaretta. «Non mi piace che se ne vada in giro con una moto rubata usata per un omicidio. Natalija Dinić era un pezzo grosso e tutti gli sbirri della zona terranno gli occhi bene aperti».
«Dovrebbe starsene al sicuro qui con noi» rincarò la dose il marito.
«Vado a cercarlo» dissi.
Lo trovai seduto su uno scalino di un tempio romano in una piazzetta. Fumava e beveva una birra. Il freddo non meritava di essere sfidato in quel modo ma molti altri avventori del bar che aveva servito Beniamino stavano all’aperto pur di godersi una sigaretta.
Li imitai, senza però rinunciare a esprimere un certo dissenso.
«Come cazzo fai a stare seduto su questa pietra così maledettamente gelida?».
«Il tuo culo è appoggiato su un pezzo di storia. Vedi di essere rispettoso».
Annuii guardandomi attorno alla ricerca della moto.
«L’ho nascosta» mi tranquillizzò. «La troveranno a primavera».
«Luc e Christine erano preoccupati. E anche noi».
«Pensavate che fossi fuori di testa e avessi dimenticato le buone regole del killer in fuga?».
Parlava con un tono aspro che serviva a malapena a celare la disperazione.
«Cos’è successo?».
Bevve un sorso e mi passò il bicchiere. «Natalija era una creatura dell’inferno» spiegò. «Era felice di vedermi. Non aveva paura della mia pistola e tantomeno del mio sguardo carico d’odio. Mi ha abbracciato e mi ha sussurrato parole d’amore. Le stesse di Sylvie. La voce era identica e anche il modo di accarezzarmi la schiena. Per un lungo momento ho creduto che fosse la mia donna. Per fortuna ci ha pensato Christine a spazzarla via dalla faccia della terra».
«Siamo sempre stati succubi della Dinić». Era da tempo che volevo affrontare il discorso e quella era l’occasione giusta. «Forse perché era una donna, forse perché era il clone di Sylvie, ma non siamo mai stati lucidi e determinati nei suoi confronti».
«Cosa vuoi dire?».
«Per due volte le hai puntato addosso una pistola ed entrambe le volte non hai tirato il grilletto».
«La prima volta era stata Sylvie a chiedermi di uccidere solo lo sposo».
«E tu sapevi che uccidere il suo uomo sull’altare mentre si giuravano amore eterno davanti al pope avrebbe portato a tutto questo. Avremmo potuto risparmiarci anni di sofferenze inutili».
Sospirò. «Hai ragione. Cosa vuoi che faccia? Chiederti scusa?».
Gli strinsi forte il braccio. «Non ci provare. Ma ora torna da Sylvie e vedi di sistemare le cose».
«Prima dobbiamo fare un prelievo. Non abbiamo più soldi, Marco».
«A chi tocca stavolta?».
«A una gioielleria di Avignone. Il proprietario è un ricettatore e un informatore della polizia».
Sbuffai. «Se lo merita ma non per questo è meno pericoloso» dissi alzandomi. «Non ne posso più di questo freddo. E ho fame».
«Chi avrà conquistato la cucina, stavolta, Max o Christine?».
«Scommetto sulla marsigliese».
Avrei vinto. Con un grembiule lindo e i guanti da forno non sembrava affatto la donna che qualche ora prima aveva eliminato una delle regine indiscusse del gangsterismo serbo.
Arrosto di maiale e patate alla panna acida. Rossini attese che il cibo e il vino rosso avessero calmato almeno in parte la tensione che avevamo accumulato prima di ringraziare Christine. «Ti sarò sempre riconoscente per quello che hai fatto».
Lei si alzò e gli stampò un bacio sulla fronte. «È stato un piacere stendere quella troia».
Beniamino l’avvolse in un abbraccio affettuoso. «Sarei ancora lì imbambolato senza sapere cosa fare» confidò senza imbarazzo.
Luc alzò il bicchiere. «Alla vittoria, alla fine di questa guerra».
Max lo imitò. «A Sylvie e a tutti noi».
Il mattino seguente il nostro minuscolo esercito si sciolse. Non aveva più motivo di esistere. Beniamino e la coppia di marsigliesi partirono in treno per Avignone, Max ritornò in Italia e io da Ninon.
Ero quasi certo che mi avrebbe cacciato ma avevo bisogno di stare con una donna, di condividere un po’ di affetto e la banalità della vita quotidiana.
Quando entrai nel Tip Top Bar stava parlando con un fornitore e finse di non avermi notato. I due soliti clienti mi accolsero con un sorriso di compassione. Mi sedetti e iniziai a sfogliare un giornale sportivo attendendo il momento in cui mi sarei avvicinato al bancone e lei mi avrebbe trattato come meritavo.
A un certo punto mi accorsi che mi stava fissando con una smorfia di disprezzo che le deformava le labbra. Presi coraggio e mi alzai.
«Ciao Ninon».
«Che sei venuto a fare?».
«Ho bisogno di un consiglio» azzardai. «Fa troppo freddo per continuare a bere birra e anice. Vorrei un’alternativa che mi riscaldasse al punto giusto».
«Dovrei cogliere qualcosa di interessante in questa cazzata che mi hai appena scodellato?».
«Sono sorpreso. Mi sembrava una frase davvero geniale. Efficace e spiritosa, in altre parole perfetta».
«Cosa vuoi?».
«Stare con te» risposi serio. «Per un po’. Per quanto vuoi. Un minuto o tutta la vita».
«Ce ne sono stati altri due nel frattempo» m’informò in tono duro.
Alzai le spalle. «Riuscirò a sopravvivere alla notizia» ribattei scherzoso, anche se non avrei mai voluto saperlo.
«Mi piaci ma ti sei rivelato una vera delusione».
«Mi comporterò bene».
Infilò una mano nella borsa a secchiello alla ricerca delle chiavi di casa. «Non ti voglio qui a fare tappezzeria nel mio bar» chiarì prima di porgermi il mazzo. «Ci vediamo stanotte».
Uscii dal locale sentendomi un miracolato a cui erano state restituite le gambe. Quella notte tornò, si accomodò al mio fianco sul grande divano di fronte al televisore. Seguimmo un paio di puntate di una serie in cui l’umanità cercava di sopravvivere agli zombie. Si addormentò con la testa appoggiata sul mio petto.
Ricominciammo a fare l’amore dopo qualche giorno. Non avevamo fretta e non avevamo bisogno di conferme. Eravamo due persone che avevano deciso di farsi compagnia per un po’.
Il giorno di riposo la scarrozzavo in giro. Shopping, qualche mostra, cinema e ristoranti indiani, che erano la sua grande passione. Avevo tentato di portarla a un concerto blues ma aveva opposto un secco rifiuto.
«Devi essere un missionario o un volontario della croce rossa per ascoltare musica che nasce dalla schiavitù. Una tristezza d’inferno».
Non ero d’accordo e in altri tempi avrei litigato con il fervore dell’invasato, invece trovai irresistibile il modo in cui lo aveva detto.
A Ninon piacevano i romanzi. Aveva un’amica libraia che sceglieva i libri per lei e glieli recapitava al bar. Leggeva la mattina. Dopo colazione tornava a letto e divorava una pagina dietro l’altra.
Trascorrevo molte ore da solo e ogni tanto infilavo nel lettore i DVD della sua carriera di attrice porno. Uomini con peni smisurati, donne troppo vogliose per essere vere e trame scontate. Ninon era la più bella e l’ex coniuge il più favorito da madre natura.
Mi faceva un’impressione strana guardarla. Non mi eccitava ma nemmeno mi dispiaceva. Un giorno mi fece una domanda precisa, dando per scontato che avessi visto i suoi film.
«Conosco a memoria la tua produzione artistica ma non ti riconosco, non sento il profumo della tua pelle. Insomma, vedo l’attrice».
«Ti imbarazza che io abbia lavorato nel porno?».
«Per nulla» risposi piccato.
«Allora non continuare a tenere le distanze dal mio culo».
Ninon era fatta così.
Un giorno Rossini venne a farmi visita. Ci incontrammo in un ristorante a una decina di chilometri dal paese.
«Parto per Beirut» annunciò. «Vado dal mio amore».
«Come sta?».
«Al solito» rispose prendendo dalla tasca interna della giacca una spessa busta di manila. Conteneva banconote.
«Sono un sacco di soldi» commentai. «Non me ne servono così tanti».
«I quattrini servono sempre» ribatté. «E poi il colpo è andato bene. Uno di quelli che ti mettono a posto per un pezzo».
«Notizie dei Garašanin?».
«Bojana è stata punita. La famiglia l’ha richiamata a Belgrado ma senza la sua Ana, che pare sia finita a gestire un traffico di droga ad Amburgo».
«Fonte certa?».
«E certificata. Ho comprato un po’ di pezzi da Vukašin Joksimovič».
Era un noto trafficante d’armi serbo, un indipendente che vendeva a chiunque senza chiedere il permesso alle famiglie mafiose. Nutriva una sincera simpatia per il vecchio Rossini e non si sarebbe mai permesso di rifilargli balle.
«Sono stati crudeli. Non c’era bisogno che la colpissero negli affetti» commentai.
«Se Bojana non fosse la figlia di uno dei capi, a quest’ora sarebbe sottoterra. Sarà Ana a pagare per entrambe, scommetto che tra qualche mese finirà in galera con una condanna per traffico di stupefacenti».
«Che si fottano» tagliai corto e passai ad argomenti più piacevoli.
«Ti ho già detto che si chiama Ninon?».
«La pornostar? Sì».
«Lo è stata» puntualizzai senza motivo. «Comunque una volta tanto sto bene. Mi prendo cura di dettagli senza importanza per vivere sereno con lei. E mi accontento. La faida mi ha sfiancato e fatico a ritrovare le forze».
«Durerà?».
Scossi la testa. «No. È una parentesi».
«O un limbo…».
«Qualsiasi cosa sia, funziona».
Il tempo scivolò sulle nostre vite senza che noi ce ne accorgessimo. Vissi a casa di Ninon per oltre due anni e fu proprio Beniamino a strapparmi da lei. A distanza di tempo riesco ad ammettere di essere stato felice con quella donna. Lei aveva capito che il nostro castello sarebbe crollato se avesse iniziato a porre domande, e infatti si guardò bene dal farlo. Da parte mia ero stato attento a non opprimerla con quelle che lei chiamava “le solite stronzate dei maschi”.
Ci capitava di stare in silenzio per ore ma ogni volta che i nostri sguardi si incrociavano ci scambiavamo un sorriso. Tenero, indifeso, ma vero. In quel periodo i soldi di Rossini mi avevano permesso di non fare nulla. Avevo ricominciato a seguire il blues con una certa assiduità. Leggevo saggi, compravo dischi, andavo ad ascoltare i musicisti francesi e americani di passaggio. Ebbi anche la fortuna di scoprire all’ultimo minuto un concerto del grande cantante e armonicista Fabrizio Poggi che si esibiva con il gruppo dei Chicken Mambo. La sua versione di I’m On the Road Again mi riscaldò il cuore. Ma non era sempre così. A volte tornavo a casa turbato. Il blues può essere spietato, senza che te ne accorgi ti scava dentro, ti sbatte in faccia ricordi o ti fa precipitare nella nostalgia.
Ma come sempre nutriva il mio tempo di equilibrio.
Era cambiato anche il mio rapporto con l’alcol. Bevevo meno di un tempo. Un bicchiere durava sempre di più. Ninon mi faceva bene, limitava gli eccessi che ritenevo necessari per sopportare.
La telefonata arrivò un tardo pomeriggio di primavera. Mi ero inerpicato con l’auto tra i monti fino a un paesino dove vivevano figli dei fiori che col tempo avevano capito l’importanza dell’imprenditoria biologica e producevano vini e formaggi di ottima qualità.
Stavo spalmando un erborinato di capra su una mezza baguette quando il cellulare iniziò a vibrare nel taschino della camicia.
«Devi venire a Beirut» disse Rossini triste e preoccupato. Conoscevo il tono, non era il momento di fare domande.
«D’accordo».
«Ti chiamerà Max, sta organizzando il vostro viaggio».
Due minuti più tardi telefonò il ciccione. «Che succede?» domandai.
«Non lo so. Beniamino non me l’ha detto. Lo scopriremo quando arriveremo in Libano».
Non ero affatto contento di aver sentito i miei amici quel giorno e in quel modo. Non avevo nessuna voglia di lasciare la mia Ninon e sapevo che per non mentirle avrei dovuto rifilarle una frase del tipo: «Devo andarmene, non posso dirti il motivo e non so se e quando tornerò».
Quando lo feci guardò la borsa in cui avevo infilato tutti i miei averi e indicò la porta. «Buona fortuna» si limitò a dire prima di chiudersi in camera da letto.
Scivolai fuori dalla sua vita con la morte nel cuore. Mentre guidavo diretto all’aeroporto cercai di giustificarmi pensando che nel mio ambiente quando un amico chiama tutto il resto non è poi così importante.
Atterrai al Charles De Gaulle dove mi attendeva Max. Lo trovai al dutyfree mentre faceva incetta di fois gras e cioccolatini.
Lo abbracciai. «Non sapevo che in Libano fosse in corso una carestia».
«Meglio essere previdenti» ribatté indicandomi una bottiglia di calvados.
Attendemmo l’annuncio del volo in un bar anonimo travestito da brasserie. Il personale odiava i viaggiatori in transito e li maltrattava con sfrontata pervicacia.
Max aveva voglia di litigare ma riuscii a calmarlo. «In tutto questo tempo nessuno dei due ha avvertito il desiderio di contattare l’altro. Siamo ancora amici?» domandai.
«Che domanda del cazzo» rispose fingendo di essersi offeso. «Il fatto è che mi sei stato così attaccato negli ultimi anni che un po’ di distanza era necessaria, addirittura terapeutica».
«Non ti ho quasi mai pensato e non ho mai sentito la tua mancanza».
Il ciccione mi fissò con i suoi occhi azzurri. «Se è per questo nemmeno io mi sono crogiolato nella nostalgia» ribatté cambiando tono. «Vuoi giocare alla verità? Ti accontento. Quella cazzo di faida ci ha distrutto la vita e abbiamo avuto bisogno di tempo e di lontananza da tutto ciò che poteva ricordarci quello che abbiamo passato. Anche gli amici più cari».
Mentre parlava lo osservai con attenzione. Era abbronzato, e anche se non era dimagrito di un grammo era abbastanza in forma.
«Cos’hai fatto in tutto questo tempo, Max?» domandai incuriosito.
«Ti sei già stancato di giocare?».
«Sì, rispondi alla mia domanda».
«Ho lavorato in un rifugio in montagna».
«Ecco perché sembri il frate di Robin Hood» scherzai. «Beniamino non ti ha foraggiato con i soldi della rapina?».
«Certo. Ma non ho speso granché, anzi per una volta sono riuscito a mettere qualcosa da parte».
Mi sporsi sul tavolo. «Che ti è successo?».
«Nulla. Solo che non sapevo dove andare e cosa fare. Ho girato un po’ tra Padova, Venezia e Treviso e poi ho trovato questa occasione».
«Una donna? Una strizzacervelli con lo studio in una malga?».
«No. Un tizio che avevo conosciuto all’università. Aveva bisogno di aiuto in cucina».
«E come ti sei trovato?».
«Bene. L’inverno sono sceso un po’ più a valle e ho messo radici in un paesino del Cadore dove i turisti vanno sempre meno, gli impianti di risalita sono ricordi arrugginiti…».
«Dev’essere stato uno spasso».
«Ebbene sì» replicò sorridendo. «Una bella casa, il camino, tanti libri e una signora a cui piacciono gli uomini con la pancia».
«Ma?».
«Mi manca la vita di un tempo, le nostre indagini, i miei archivi. E a te?».
«Non lo so, Max. Forse. Dipende anche da quello che ci aspetta a Beirut. Fino a ieri stavo vivendo con una donna che amo».
«La tua Ninon. Beniamino mi ha raccontato».
«Siete rimasti in contatto?» chiesi sorpreso.
«Ogni tanto».
«E non hai idea di cosa sia successo in Libano?».
«No. Ma sono certo che di qualsiasi cosa si tratti ci toglierà il buonumore per un pezzo».
All’aeroporto trovammo ad attenderci Talal e Wiam, i due drusi che fino a quel momento si erano occupati della sicurezza di Sylvie. Ci salutarono con cortesia ma erano diversi da come li avevamo conosciuti. Erano curvi, come se portassero un peso enorme sulle spalle, i volti tagliati da una smorfia amara sottile come la cicatrice di una rasoiata. Pensai che il vecchio Rossini doveva averli strapazzati per bene dopo aver scoperto che Natalija Dinićčavrebbe potuto colpire Sylvie in qualsiasi momento. Però era trascorso troppo tempo e si trovavano ancora al loro posto. Quindi si trattava certamente di altro.
Max tentò di ottenere qualche informazione ma i due finsero di non capire più il francese.
Sylvie abitava in una bella villa di tre piani ai bordi di una brutta spiaggia. La vista sulla città e sul mare però era incantevole. La costruzione risaliva agli anni Sessanta e la padrona di casa l’aveva arredata in modo piuttosto eccentrico. C’erano molti quadri appesi alle pareti ma non una sola fotografia. E le tele raffiguravano paesaggi totalmente privi di esseri umani.
Beniamino ci accolse nel grande salone seduto su una poltrona. Non si alzò per accoglierci. Indicò il divano.
«Grazie di essere venuti» disse a voce bassa. «Non sono stato io a richiedere la vostra presenza ma Sylvie».
Non riuscì ad andare oltre. Si alzò e si precipitò ad afferrare una caraffa di cristallo per versarsi un bicchiere d’acqua. Lo ingollò come se non si dissetasse da tempo.
«Ha deciso di togliersi la vita e vuole dirvi addio».
Gli occhi di Max la Memoria si riempirono di lacrime. I miei rimasero asciutti ma dovetti fare appello a tutte le mie forze per impedirmi di urlare la mia disperazione.
Rimanemmo in silenzio affogati nel nostro dolore. Le nostre regole ci impedivano di far ricorso a una presunta ragionevolezza, di abbracciare Beniamino e di gridare: «Fermala! Convincila a vivere!». Oppure di buttarci ai piedi di Sylvie e di implorarla.
Nel nostro mondo ognuno era libero, anche di mettere fine alla propria esistenza, e mai nessuno avrebbe potuto arrogarsi il diritto di alzare la voce per esprimere il proprio dissenso. Le scelte andavano rispettate anche se facevano sanguinare il cuore e la mente. Per questo era legittimo dare annuncio del proprio suicidio e andarsene circondati dagli amici, perché non vi era nulla di peggio che dire addio in solitudine e segretezza per il timore di finire in una clinica. Il nostro cuore fuorilegge era così grande che poteva e doveva accettarlo.
«Vado a chiamarla» bofonchiò Rossini.
Tornò poco dopo a braccetto del suo amore, per cui aveva sofferto e combattuto. Sylvie era bellissima ma non potei fare a meno di ricordare quanto Natalija Dinićčavesse modificato il suo corpo per assomigliarle.
Lei, come sempre, ci baciò sulle guance e sulla fronte. Era stranamente serena.
«Dalle espressioni delle vostre facce capisco che Beniamino vi ha già dato la notizia» disse con voce calma. «So che potrei fare a meno di spiegarvi i motivi di questa mia decisione, ma siamo amici da così tanto tempo che mi sembra giusto condividere con voi le mie ragioni.
«Purtroppo le ferite del mio cuore non si sono mai rimarginate. Ho subìto troppe violenze da parte di troppe persone. Sono stata stuprata, mi hanno usata come un giocattolo, mi hanno torturata, costretta a danzare per gruppi di uomini che poi si avventavano su di me come un branco di maiali.
«Nulla ha avuto il potere di aiutarmi a dimenticare, né l’amore infinito di Beniamino né le terapie dei medici. E nemmeno il tempo. Vivere è diventato ormai insopportabile. Solo la morte è in grado di spazzare via questo dolore sordo che mi perseguita anche nel sonno. Ho bisogno di pace.
«Ora che Natalija Dinićčè morta e la faida è terminata non ho più obblighi che mi costringano a continuare a vivere».
Ci sorrise, affondando i suoi occhi nei nostri. Chissà da quanto tempo era pronta a chiudere quella partita che aveva perso fin dall’inizio.
Wiam servì gli aperitivi con le lacrime che gli rigavano il volto. Sylvie, decisa a rompere il nostro silenzio carico di tristezza, ci obbligò a chiacchierare. Mi chiese di Ninon e Max decantò la bellezza di un inverno in montagna.
A tavola ci domandò se saremmo tornati a vivere in Veneto. Ma non attese la risposta. «Quando ho conosciuto Beniamino danzavo in un night di Oderzo e giravo con una motocicletta bellissima. Mi sembra ancora di sentire l’aria pungente dell’inverno che mi sferzava il viso» ricordò un attimo prima di appoggiare le posate sul piatto e gettarsi dalla finestra.
Lo schianto del corpo sulle mattonelle bianche e azzurre del cortile fu agghiacciante.
Feci per alzarmi ma Rossini scosse la testa, pallido, le mani aggrappate al bordo del tavolo. «Di lei si occuperanno Talal e Wiam. Sylvie è stata chiara nelle sue volontà» disse con la voce spezzata. «Non ci sarà nessun funerale, vuol essere sepolta in mare di fronte a questa villa. Possiamo andare».
«Potrebbe essere ancora viva, aver bisogno di aiuto» sibilai con la voce strozzata. «Beniamino, ti prego».
«Smettila, Marco. Non possiamo fare nulla e mi sembra di impazzire».
Un’ora più tardi stavamo scrutando il cartellone delle partenze a caccia del primo volo utile per abbandonare per sempre Beirut. Ero travolto da una marea di sensazioni e mi era difficile tornare alla realtà. Il mio cuore fuorilegge non riusciva a fare i conti con la morte di una persona cara che nel bel mezzo di una cena era saltata giù dalla finestra. Persi di vista Max e Beniamino e mi ritrovai su un volo diretto a Roma dove avrei fatto scalo per poi atterrare a Cagliari. La tentazione di tornare da Ninon era stata forte, fortissima, ma non ero così carogna da approfittare di lei per elaborare il lutto e la sconfitta. Alla fine Natalija Dinić aveva ottenuto la sua vendetta.
Mentre i finanzieri mi rivoltavano i bagagli alla ricerca della droga che non potevo non trasportare dato che ero un pregiudicato che arrivava dal Libano, chiamai Beniamino. Volevo fargli sapere quanto gli ero vicino. Non rispose.