CAPITOLO DECIMO

Togno si avvicinò al bancone con aria preoccupata.

«Mi ha telefonato il brigadiere Stanzani» sussurrò. «Hanno sparato a quel Max, il ciccione di merda, hai capito?».

«Ho sentito la notizia alla radio stamattina» risposi.

«Stanzani dice che mi devo aspettare una verifica dell’alibi. C’è un poliziotto dell’antirapine che va in giro a fare un sacco di domande».

«Ma noi non abbiamo nulla di cui preoccuparci».

«A quell’ora stavo lavorando per te» puntualizzò Federico, anche se non ce n’era bisogno. «Ero nel locale di Silvio Todaro a ritirare i soldi del vino che non ti aveva ancora pagato».

Lo fissai. «Lo so bene. Ti ci ho mandato io “a quell’ora”».

Il mio scagnozzo s’irrigidì. Il cervellino si era messo in moto.

«Sei tu il mandante» realizzò guardandosi attorno. «E chi hai ingaggiato?».

«Uno meno bravo di te» risposi. «Ma tu eri bruciato e mi sono dovuto accontentare di una seconda scelta».

Togno si passò una mano sul volto. «Avranno capito la lezione, vedrai che non romperanno più i coglioni».

E invece era lui a non aver capito nulla. L’agguato serviva a mettere quei due sotto lo stretto controllo degli sbirri. Immaginavo che i fratelli Centra non sarebbero riusciti ad ammazzarli e nemmeno m’interessava. Era stata certamente più utile la soffiata che avevo fatto alla Digos, perché quelli quando fiutano possibili terroristi perdono la testa e non mollano l’osso. Piuttosto non riuscivo a capire cosa c’entrasse uno sbirro dell’antirapine, ma ero sicuro che l’avrei scoperto presto.

«Ho bisogno di te per qualche giorno» dissi con un tono da complotto, giusto per attirare l’attenzione dell’ex investigatore. «Ho messo in piedi un lavoretto che ti frutterà almeno cinquantamila euro».

I suoi occhi si illuminarono. I soldi gli piacevano e sapeva fin troppo bene che senza di me sarebbe stato condannato a tirare la cinghia per tutta la vita.

«Ricattiamo una coppia di amanti che non si possono permettere di essere sputtanati» lo informai. «Tu terrai i contatti con la donna, sempre se te la senti, perché chiedere denaro per non rivelare un segreto richiede accortezza e sensibilità».

«Sono sveglio, imparo in fretta, lo sai».

Federico si sopravvalutava come tutti i perdenti che non si capacitano dei loro continui insuccessi.

Lo condussi nella saletta dove nessuno ci avrebbe disturbato e tantomeno ascoltato.

«Sono due sessantenni, clienti di vecchia data. Questo è il “loro” ristorante» attaccai a raccontare. «Prenota sempre lei. “Sono la signora Moscati” dice al telefono, ma in realtà si chiama Natalina Palazzolo. Lui invece è un noto impresario edile, Rosario Panichi…».

«Panichi Costruzioni Spa» mi interruppe Togno sorpreso. «Quello ha i soldi che gli escono dalle orecchie, non mi sembra il tipo che se li fa spillare per una femmina».

Scossi la testa. «Stanno insieme da trent’anni» spiegai. «È il suo unico vero amore. Da sempre, una volta la settimana, trascorrono un giorno assieme. Lui era già sposato quando l’ha conosciuta e la moglie aveva partorito il primo figlio. Il suocero lo teneva per le palle, non si poteva permettere una separazione e così si sono accontentati di una relazione clandestina che ha costretto l’amante a sacrificarsi completamente».

«Povera stronza» sibilò lo scagnozzo.

«Ti sbagli» lo corressi. «È una grande storia d’amore in cui un uomo e una donna si sono creati una vita parallela perché non sono riusciti a rinunciare ai propri sentimenti. Lei non ha potuto godere della presenza del suo uomo in una sola festa comandata. Questi privilegi toccavano “all’altra”. Ha dovuto assistere alla nascita di ben tre figli nella perfetta consapevolezza che lui continuava ad assolvere ai suoi doveri coniugali. La nostra Natalina ha dovuto improntare la sua vita alla solitudine per poter custodire quel segreto. Per questo, quando tu la porterai qualche giorno in vacanza, lui farà di tutto per riaverla».

Una smorfia di disappunto apparve sul viso di Togno. «Ma questo è un sequestro. Avevo capito che si trattava di un ricatto».

Replicai con un sorriso tranquillizzante. «Tu contatterai la signora e inizierai a metterla nell’ordine di idee che potrà continuare il suo ménage senza problemi se ci verrà corrisposto un adeguato compenso. Poi la inviterai a un incontro di chiarimento e l’accompagnerai in un posto dove rimarrà per alcuni giorni».

«La fai un po’ troppo facile» ribatté. «Non è affatto detto che si lasci guidare in questo modo».

«E invece sì. Le persone oneste che conservano gelosamente un segreto, quando sono scoperte perdono ogni sicurezza. Diventano malleabili, si affidano ai loro aguzzini nel tentativo disperato di convincerli ad avere pietà perché in fondo non fanno nulla di male. Per questo tu sarai gentile e comprensivo con lei. Diventerai il suo miglior amico e farai di tutto per convincerla che dopo che il suo amante avrà pagato potranno tornare alla vita di sempre».

Lo scagnozzo annuì convinto. «Quando iniziamo?».

«Ora» risposi secco. «Telefoni a tua moglie e le dici che devi andare fuori città per alcuni giorni».

Adesso Togno era a disagio. «Non capisco, Giorgio. Non posso nemmeno tornare a casa?».

«No. Da questo momento ti trasferisci dai fratelli Centra. Non li conosci, sono due personaggi un po’ particolari ma sono certo che vi intenderete».

Sospirò innervosito. «Perché?».

«Voglio che tu sia invisibile fino a quando non avremo portato i quattrini a casa» risposi. «Se ti cercano per interrogarti sul ferimento del ciccione non voglio correre il rischio che un verbale mandi all’aria il piano» mentii cercando di essere convincente.

«E allora rinviamo l’affare».

«Se non t’interessa mi rivolgo a un altro, di certo non voglio tra le palle uno che discute ogni singola parola».

Togno appoggiò la mano destra sul cuore. «Io ti seguo sempre, lo sai».

Scrissi un numero di cellulare su un foglietto. «Chiama i fratellini e vai subito da loro» ordinai. Poi da sotto il bancone presi un cellulare sicuro e una cartellina. «Qui troverai tutte le informazioni sulla coppia. Fino a nuovo ordine tieni spento il telefonino e usa quello che ti ho appena dato».

Togno si allontanò con le spalle curve. Non era abbastanza scaltro per capire che lo stavo manovrando come un burattino in una partita in cui era assolutamente sacrificabile. Aveva ragione a voler rinviare il ricatto ma volevo che gli sbirri si convincessero che era scomparso dalla circolazione per non rispondere a domande imbarazzanti sul tentato omicidio di Max la Memoria e di quell’altro coglione di Buratti.

Non solo. Il sequestro di Natalina era il fulcro del piano B, qualora mi fossi ritrovato nella necessità di metterlo in atto doveva essere nelle mie mani.

Per la prima volta mi trovavo in un momento di grande tensione. Poco male. Fiutavo il pericolo e come sempre in questi casi mi preparavo ad affrontarlo senza provare alcuna paura. Non la conoscevo e nemmeno la temevo. La incutevo.

Lasciai il locale e tornai a casa per verificare come stava Gemma. Quando si era vantata di essersi fatta rimorchiare da Buratti e di avere il suo numero di cellulare l’avevo sottoposta a una “sessione” un po’ più severa del normale e non era ancora riuscita ad alzarsi dal letto. Non ero affatto preoccupato delle sue condizioni ma dell’effetto negativo sulla quotidianità di Martina. Era sufficiente un’inezia e mia moglie, disturbata da pensieri negativi, perdeva il ritmo nelle attività. Peccava di continue imperfezioni. Non potevo permetterlo.

Gemma dormicchiava quando entrai nella sua stanza. Le persiane erano socchiuse e aleggiava un odore sgradevole. Spalancai le finestre e il sole entrò di prepotenza.

«Lasciami stare, Re di cuori» borbottò coprendosi gli occhi con le mani. «Sei stato cattivo».

Feci volare la trapunta leggera e il lenzuolo e le strappai di dosso la camicia di notte. «Ora ti visito» annunciai piantandole l’indice in un livido.

Il volto si contrasse per il dolore. «Ti prego, non farlo».

«Allora vuol dire che stai bene e hai solo bisogno di essere lavata» dissi afferrandola per i capelli e trascinandola nella vasca da bagno. Afferrai una confezione di bagnoschiuma e gliela rovesciai addosso. Poi iniziai a sciacquarla con il getto della doccia al massimo.

«È ghiacciata» protestò.

«La vuoi bollente?».

Gemma capì subito cosa le sarebbe toccato se avesse insistito e rimase in silenzio. Subì senza fiatare anche quando la strofinai per bene con una spazzola. Trattenne il respiro quando le feci scorrere il lungo manico di legno tra le cosce.

Le gettai in faccia un asciugamano. «Esci e vai a prendere Martina in palestra».

«Non so se ce la faccio» confessò tra le lacrime.

Sbuffai e nell’armadietto cercai l’occorrente per un’iniezione di antidolorifico. La preparai con lentezza, poi la costrinsi a girarsi e le piantai l’ago nel gluteo.

«Oggi mangerai un piatto traboccante di trippe» annunciai prima di andarmene.

Gemma le odiava. Avrei pranzato al loro tavolo per non perdermi lo spettacolo.

Quando tornai alla Nena una cameriera mi indicò un tizio seduto a un tavolo che indossava una camicia hawaiana e fissava sfrontatamente i clienti.

“Sbirro” dedussi, ma prima di affrontarlo mi feci preparare un frullato. Il tizio aveva ordinato un caffè e lo aveva appena assaggiato.

«Non è di suo gradimento?» domandai in tono professionale. «Possiamo prepararle qualcos’altro, se lo desidera».

Svuotò la tazzina con un sorso. «Molto buono» disse. «Mi ero solo distratto perché c’è una cosa che non capisco, magari posso chiederla a lei se è il titolare».

Gli porsi la mano. «Giorgio Pellegrini. La Nena è mia».

«Ispettore Giulio Campagna, questura di Padova, antirapine».

«Piacere» tagliai corto. «Che cosa voleva chiedermi?».

Lo sbirro prese tempo. «I colleghi mi dicono che Federico Togno sta sempre in questo locale eppure qui nessuno lo conosce. Non le sembra strano?».

Sorrisi e mi accomodai. «Perché La Nena è un posto molto discreto e il personale obbedisce a un mio ordine preciso».

«Quindi hanno ragione i colleghi?».

«Sì».

«E oggi si è visto?».

«Stamattina».

«E poi?».

Finsi di guardarmi attorno. «Ora non lo vedo».

Lo sbirro sbirciò l’ora sul cellulare. Non sopporto la gente che rinuncia all’orologio per controllare il tempo su un display. Ma d’altronde cosa ci si poteva aspettare da un coglione che sfoggiava una camicia impossibile in un locale di classe come La Nena? Lo avrei eliminato dalla faccia della terra solo per punirlo del suo cattivo gusto.

«Magari torna per pranzo» ipotizzò lo sbirro.

«Magari. Ma perché non lo chiama? A casa ha provato? E al cellulare?».

«La moglie dice che è uscito stamattina presto, il cellulare è staccato» rispose ghignando. «Lei lo conosce bene?».

«Come il gestore di un locale può conoscere un cliente affezionato».

«Sì o no?» s’impuntò Campagna.

«Solo superficialmente, come tentavo di spiegarle».

«Perché c’è un’altra cosa che non capisco» continuò il poliziotto. «E cioè come fa a vivere? Non ha un lavoro, è sconosciuto al fisco, eppure possiede una casa, un’auto… La moglie non lavora, è casalinga. Ha un sacco di conti da pagare sul groppone eppure se la passa bene. Lei si è fatto un’idea in proposito?».

«Nella vita ho imparato a farmi i fatti miei e campo meravigliosamente».

«Prima o dopo la galera?».

Sbuffai fissandolo. «Sono stato riabilitato e ora sono un cittadino uguale agli altri».

«Sante Brianese le ha dato una mano. Anzi, si può dire che lei gli deve tutto».

Decisi che era arrivato il momento di smettere di essere gentile e mi alzai. «Il caffè è offerto dalla casa» dissi mentre tornavo al mio lavoro.

Lo sbirro rimase in silenzio e non si mosse. Dopo un po’ attaccò bottone con un tizio e poi con un altro ancora. Lasciò il tavolo poco prima di pranzo ma non si allontanò dal mio ristorante. Mentre Gemma ingoiava le trippe in brodo con le lacrime che le rigavano il viso, vedevo Campagna che passava e ripassava davanti all’entrata cercando Togno con lo sguardo.

L’ispettore andava classificato tra i peggiori della categoria. E poteva rivelarsi fastidioso. Ma avevo avuto a che fare con suoi colleghi ben più tosti e pericolosi e me l’ero cavata alla grande.

Campagna si arrese solo quando si abbassarono le saracinesche. Aveva trascorso una giornata di merda alla ricerca di uno che non si era fatto trovare e per quanto ne sapevo poteva capitare che passasse un bel po’ di tempo prima di avere la possibilità di incontrarlo.

Passeggiando verso casa sotto i portici deserti mi resi conto di essere entrato in uno stato di euforica eccitazione. Buratti, Campagna, il ciccione in ospedale, Togno e la signora Palazzolo. Il meccanismo ne incrociava i destini e a girare la manovella ero sempre io. Avvertii con soddisfazione lo sviluppo di una erezione piuttosto importante. Rivolsi un pensiero innamorato a Martina, le avrei donato il piacere che meritava. Gemma invece era in castigo, sarebbe rimasta a guardare alle prese con la digestione di quelle trippe che le avevo fatto mangiare anche a cena.