CAPITOLO SETTIMO

Altri tre ristoranti e la lista fornita dalla signora era terminata.

«Ometterò di ripetere che ti avevo avvertito» disse Max. «Dal punto di vista enogastronomico è stato interessante ma non vedo l’ora di tornare a cucinare».

«Stai invecchiando».

Agitò l’indice con veemenza. «No. Ho raggiunto una tale maturità ai fornelli, dal punto di vista sia teorico che pratico, che avverto la necessità di esprimermi in un percorso personale, esattamente come un qualsiasi artista».

«Stai invecchiando» ribadii con fermezza. «I cinquantenni di sinistra emarginati dalla storia come te si sono fatti contagiare dal virus del cuoco, che sta dilagando ed è peggio dell’ebola perché colpisce un numero maggiore di vittime. Di fatto, come ogni epidemia, interessa trasversalmente la società. Grandi e piccini, destra e sinistra, donne e uomini, etero e gay, atei e credenti».

«E allora?».

Alzai le spalle. «Semplice sfogo» chiarii. «Dopo questa scorpacciata di cazzate che ci hanno rifilato nei ristoranti mi sento un po’ appesantito. Tutte le mode hanno i loro osservanti ortodossi scassaminchia».

Mi mise una mano sulla spalla con un gesto affettuoso. «In effetti alcuni sono stati pesantucci propinandoci nomi roboanti, chef d’assalto, carte dei vini azzardate» sussurrò con gli occhi che brillavano. «Per fortuna puoi contare su di me e sulla mia cucina in cui i concetti di regionale e stagionale si fondono con una visione bioetica della globalizzazione».

Tirai fuori il cellulare.

«Che fai?» chiese il ciccione.

«Prenoto da Alberto all’Anfora».

Il mio socio mostrò i palmi in segno di resa. «Come vuoi. Facciamo alle venti, così abbiamo il tempo per lo spritz in piazza».

In realtà in piazza andò solo Max dato che si rifiutò categoricamente di accompagnarmi a un appuntamento con Campagna in un bar frequentato da pensionati appena fuori città. Arredamento mai sostituito dagli anni Settanta come il barista dietro il bancone.

«Il bianco non è male» consigliò il poliziotto.

«Non credo sia per assaggiarlo che mi hai convocato in questo localino fuori mano».

«Ho comprato cinque euro di giuggiole, erano molli. In questo periodo dovrebbero essere dure e croccanti. Il fatto è che continua a fare caldo» attaccò a raccontare senza degnarsi di rispondere. «Poi arrivano le correnti fredde dal nord e qui si scatenano uragani, trombe d’aria e i raccolti vanno a puttane. È sempre la campagna che ci rimette».

«Dovrei cogliere un gioco di parole con il tuo cognome?».

«Certo. Giulio Campagna lo sbirro di campagna» sibilò acido.

Mi alzai. «Sai essere esasperante».

A quel punto mi afferrò il braccio. «Siediti Buratti. Ti devo parlare».

«Sempre se hai esaurito il campionario delle stronzate».

Mi mandò al diavolo spazzando l’aria con la mano. «L’altra sera c’è stata una retata discreta in un hotel» iniziò a raccontare. «I colleghi erano venuti a sapere che c’era un accordo tra la proprietà e un giro di escort che usava un certo numero di camere senza registrare i documenti. Una di queste signorine è legata da tempo a uno spacciatore latitante e allora hanno giustamente pensato che magari anche lui ne approfittava.

«Un buco nell’acqua. La donna era in compagnia di un rappresentante di Varese che l’aveva prenotata attraverso un sito due settimane prima. Ora io mi chiedo: come fa uno a sapere con tanto anticipo e con certezza che quattordici giorni dopo avrà voglia di scoparsi una professionista? C’ha le erezioni programmate?».

Sbuffai. «Non credo di avere voglia di approfondire la questione».

«Hai ragione, sto divagando» ammise mentre ordinava con un gesto un altro bicchiere di vino. «In un’altra camera, invece, una giovane casalinga incensurata intratteneva un brigadiere dell’Arma, un certo Stanzani».

«Dovrei stupirmi?».

«Non tanto del fatto che sia andato a puttane ma che abbia fatto un controllo non autorizzato su di te e su Max la Memoria».

«Ne sei sicuro?» domandai stupito.

«Il commissario che ha diretto l’operazione, sentendo puzza di corruzione, ha parlato con i superiori del brigadiere e da un rapido controllo è risultato che ha il vizietto di ficcare il naso dove non dovrebbe, probabilmente per conto di assicurazioni e agenzie private. La piccola indagine non autorizzata sul vostro conto è l’ultima della serie».

Bevvi un sorso. «Agenzie private?».

«Quelle in regola sono fondate da ex appartenenti alle forze dell’ordine che hanno saggiamente mantenuto buoni rapporti con i colleghi» rispose. «Ma in questo caso non sappiamo di chi si tratta perché il carabiniere non parla. Nega anche l’evidenza per limitare i danni».

Mi venne voglia di una sigaretta e uscii. Non fa mai piacere scoprire che qualcuno ti sorveglia, ma se quella curiosità fosse risultata legata al caso del professore scomparso poteva tornare a nostro vantaggio.

Campagna mi seguì con due bicchieri pieni. «So cosa pensi. Se scopriamo il committente del brigadiere, magari scopriamo un aggancio con il sequestro Di Lello».

«Proprio così. Siamo arrivati da poco tempo, siamo stati attenti, discreti. Ci siamo occupati solo ed esclusivamente di questo caso» dissi. «Dubito ci siano altre spiegazioni».

«E io dubito che una banda di quel livello si rivolga a un investigatore privato per scoprire chi siete».

«Allora dobbiamo sapere chi ha ingaggiato il carabiniere».

Campagna ghignò. «E glielo vai a chiedere tu? O quel panzone del tuo amico?».

«No. Tocca a te. In fondo siete colleghi».

«Non posso. Ci ho già provato e il gran capo in persona mi ha ordinato di stargli lontano».

«Non abbiamo altre piste da seguire in questo momento».

Il poliziotto vuotò il bicchiere e schioccò la lingua. «Questa pista è mia e ti ho appena detto che non va da nessuna parte» sibilò. «Te lo devi guadagnare il pane, Buratti, vedi di muovere il culo anche tu».

Valutai che doveva aver buttato giù tre, quattro “ombre” di bianco. «Sei a stomaco vuoto?» domandai con l’intenzione di trattarlo come un coglione. «Vuoi che ti ordini un panino, così argini l’effetto dell’alcol?».

«Quanto ti paga la ricca signora svizzera?».

«Fammi capire, è un problema di soldi?».

Mi artigliò il polso. «Non ti permettere. Io non ho mai preso un solo centesimo in tutta la mia vita».

«Allora non capisco perché ritorni sempre sull’argomento» ribattei divincolandomi. «Io mi guadagno da vivere in questo modo e le tariffe non sono affar tuo».

Campagna cambiò argomento e atteggiamento. Ormai avevo capito che era il suo modo per placare quella rabbia profonda che lo tormentava quando si sentiva frustrato.

«Non c’è traccia di nuove bande» mi informò. «Ho ricontrollato anche tutti i rapporti del giorno del sequestro, ho importunato tassisti e autisti di autobus. Inizio seriamente a convincermi che Di Lello si sia recato volontariamente all’appuntamento con i suoi sequestratori».

Presi il portafogli dalla giacca. «Desideri altro?».

Scosse la testa. «Questa storia mi sta facendo incazzare» disse. «Non voglio ritrovarmi con un delitto insoluto, a bere ombre con te cercando di capire dove abbiamo sbagliato».

Puntò l’indice verso la città. «Non posso sopportare che qualcuno faccia il comodo suo. Un conto è un furto, un piccolo giro di spaccio, ma l’impunità non può essere ammessa per sequestro e omicidio. Li devo prendere, hai capito?».

«Se tu fossi al mio posto come ti avvicineresti al brigadiere Stanzani?».

«Stanno già vendendo le castagne» sbuffò infastidito. «Ma come si fa a mangiarle con questo caldo? È proprio vero quello che diceva un tizio: “Non ci sono più le mezze stagioni e l’Europa è morta a Sarajevo”».

Lo mandai al diavolo e pagai il conto. Quando gli passai davanti disse: «Stanzani non è un corrotto, almeno in senso classico. Fa favori a gente che conosce, che sta dalla parte giusta, capisci? Non si metterebbe mai al servizio della criminalità».

Campagna era un uomo veramente complicato.

«Non capisco, spiegati».

«Se fossi nei tuoi panni, cosa che non potrebbe mai accadere, mi muoverei con i piedi di piombo ma allo stesso tempo calcherei la mano».

Piedi, mano. Respirai a fondo per non insultarlo e mi allontanai senza salutare.

«La moglie!» disse ad alta voce. «Minaccialo di raccontarle tutto. Io non potrei mai fare una bastardata simile a un collega ma tu hai abbastanza pelo sullo stomaco».

Tornai sui miei passi. «Pensi che funzionerebbe?».

«Nessuno sbirro è in grado di sopportare l’inferno domestico, lo so per esperienza. È un mestiere troppo difficile per affrontarlo senza avere alle spalle il conforto di un solido mondo di affetti» confidò, passandomi un foglietto con tutti i riferimenti del brigadiere. «Stanzani, quando lo hanno pizzicato, non ha fatto altro che pregare che la consorte non venisse a sapere nulla. Era più preoccupato di lei che dei suoi superiori».

Guidai verso il centro pensando a come forzare la riservatezza del carabiniere senza conseguenze. Non volevo finire in una stanza degli interrogatori a farmi strapazzare per averlo infastidito.

Max era in piazza, seduto a un tavolino di cinquantenni che discutevano di politica, bevendo e fumando. Gli arrivai di spalle mentre diceva: «Abbiamo sempre avuto ragione, eppure abbiamo sempre perso. Perché?».

Conoscevo a memoria quella frase e sapevo che avrebbe dato la stura a un dibattito infinito e malinconico di cui mi erano fin troppo note vacuità e pesantezza.

«Ho fame» annunciai, sapendo di opporre un valido argomento. «E un tavolo riservato ci attende».

Il ciccione si alzò, prese dalla tasca una banconota stropicciata e la infilò sotto il bicchiere vuoto. «Vado a fargli compagnia, si deprime a mangiare da solo».

«Per fortuna che mi hai salvato» sussurrò non appena ci fummo allontanati. «La deriva dei soliti discorsi ci stava inesorabilmente conducendo verso un inutile momento di autocoscienza».

«Spudorato. Eri tu a dirigere il coro».

Sorrise. «Non riesco mai a resistere alla tentazione. D’altronde non posso smettere di interrogarmi dopo aver dato tanto alla causa».

Pensai che la causa aveva fatto man bassa della sua vita e ora non interessava più a nessuno perché faceva parte del passato.

«Cosa ti ha detto Campagna?» domandò accendendosi una sigaretta.

Lo misi al corrente, omettendo i discorsi strampalati per evitare di fornirgli la scusa per parlare male del poliziotto.

«Quel carabiniere ci caccerà nei casini» ribatté Max, preoccupato. «Di certo non possiamo fermarlo per strada e minacciare di gettarlo in pasto alla moglie».

«No, hai ragione, ma possiamo essere un po’ più perfidi e un po’ più furbi».

«E come?».

«Muovendoci con i piedi di piombo e calcando la mano, ovviamente».

Max mi scoccò un’occhiata severa. «Frequentare quello sbirro sta seriamente minando la tua sanità mentale».

 

L’indomani mattina la signora Mariangela Crema in Stanzani si recò a fare la spesa al mercato. Noi l’avevamo seguita da quando era uscita di casa e grazie alla fotografia pubblicata sul profilo personale di Facebook eravamo certi che si trattasse proprio della consorte del carabiniere. Una donna fisicamente solida, azzardata nell’abbigliamento, in particolare riguardo alla lunghezza della gonna.

«Frequenta lo stesso atelier di moda di Campagna» scherzò Max.

Era arrivato il momento di verificare se il piano che avevo escogitato era degno di una chance. Avrei preferito chiamare da una cabina ma ormai non esistevano praticamente più e dovetti rassegnarmi a usare il cellulare.

«Brigadiere buongiorno».

«Chi parla?».

«Sono Buratti. Recentemente ha fatto un controllo non autorizzato sul mio conto e su quello di un mio amico».

«E tu come cazzo lo hai saputo?» chiese dopo un attimo di silenzio.

«Da una fonte sicura: la polizia» risposi sincero. «Non voglio metterla nei casini ma ho bisogno di sapere chi le ha commissionato l’indagine».

«Tu non hai nessuna autorità per chiedermi un cazzo» sbraitò incattivito. «Tu e il tuo amico siete dei pregiudicati, avete fatto la galera, siete pericolosi. E non ti permettere più di telefonarmi che ti faccio il culo a strisce. Ti rimando dietro le sbarre…».

Decisi di interrompere quel fiume in piena di minacce e insulti. «Tua moglie sta facendo la spesa. Ora la fermo e le racconto che i poliziotti ti hanno beccato a letto con una puttana e che non stavi usando il preservativo».

«Tu devi starle lontano, e poi non ci crederà mai».

In pochi passi raggiunsi la donna. «Signora Stanzani».

Lei si girò sorpresa. «Ci conosciamo?».

«No» risposi porgendole il cellulare. «Ma stavo giusto parlando con suo marito e pensavo le facesse piacere salutarlo».

La donna andò ben oltre i saluti e coinvolse il coniuge in un’estenuante quanto inutile discussione sulla necessità di modificare il menu del pranzo domenicale.

«Speriamo che il brigadiere faccia quel nome e tu non sia costretto a sputtanarlo, perché è scientificamente certo che quella donna ti piglia a borsettate» sentenziò Max.

La signora rimproverò il marito di averle fatto perdere un sacco di tempo e finalmente mi restituì il cellulare.

«Buratti?».

«Sì?».

«Non credere di passarla liscia. Tu nemmeno immagini in che guaio ti sei cacciato».

«Questo significa che devo fare due chiacchiere con la tua signora?».

«No. Ti stavo solo prospettando il futuro» spiegò con la voce che gli tremava per la collera.

«Il nome».

Sospirò. «Federico Togno».

«E chi è?» domandai sorpreso. Il nome non mi diceva nulla.

«Scopritelo da solo, cornuto».

«Tua moglie è ancora pericolosamente vicina».

«È un ex collega, lo puoi trovare alla Nena, sta sempre là. E comunque non ce l’aveva con te, è venuto a controllare la targa di un’auto ed è saltato fuori il tuo nome».

Riattaccai. Misi al corrente Max.

«La targa di quel catorcio che possiedi da poco».

«Già».

«La Nena?».

«Già».

«Martina e Gemma».

«E Giorgio, il proprietario».

Ci scambiammo una lunga occhiata mentre arrivavamo alla stessa conclusione. Per la prima volta da quando avevamo accettato l’incarico potevamo affermare di aver trovato un indizio. Labile ma pur sempre degno di approfondimento.

«Informerai Campagna?».

«Ora no. Magari in un secondo momento».

«È in grado di ottenere informazioni molto più facilmente di noi».

«Giusto. Ma se la pista si rivela concreta, ci soffia il caso» osservai.

«E ora cosa facciamo?» chiese il ciccione.

«Andiamo a fare la conoscenza di questo Togno».

«Diamo per scontato che il carabiniere lo avvertirà, quando ce lo troveremo di fronte ci rifilerà una balla credibile».

«A cui non crederemo fino a quando non avremo verificato» conclusi in tono professionale.

 

Anche l’ex carabiniere aveva pubblicato una sua foto sul profilo Facebook. Se cerchi qualcuno il primo posto in cui frugare è quel social. Perfino qualche latitante stanco della precaria libertà non aveva voluto rinunciare a trovare vecchi e nuovi amici e la legge ne aveva approfittato per toglierlo dalla circolazione.

Max usava un finto account, io non volevo nemmeno considerare l’idea. Non perché fossi contrario o nutrissi diffidenza verso il mezzo, ma semplicemente perché non avevo nulla da condividere o scambiare. E non era un dramma.

Togno era al bancone della Nena e stava sorseggiando un aperitivo. Un Negroni, ipotizzai dal colore. Al posto delle patatine o delle arachidi infilzava pezzetti di polipo lesso condito con olio e limone. Accoppiamento stravagante. Giorgio, il proprietario, stava parlottando con lui ma si allontanò non appena ci vide entrare. L’ex carabiniere doveva avere circa quarantacinque anni ben portati, gli piaceva vestire elegante ma i tacchi delle scarpe avevano bisogno di essere sostituiti. Lo sguardo attento vagava ovunque. Un tizio qualsiasi se non fosse stato per l’espressione da carogna stampata sul volto, che si trasformò in un sorriso quando mi presentai.

«Ma certo, Marco Buratti» ripeté stringendomi vigorosamente la mano. «E lei deve essere Max» aggiunse afferrando la destra del ciccione. «Vi devo delle scuse. Ho invertito le prime due cifre della targa che mi interessava verificare, tutto qui. Posso offrirvi qualcosa?».

Non aveva avuto tempo di preparare la menzogna credibile che Max e io avevamo dato per scontata.

«L’auto è intestata a me» feci notare. «Non al mio amico. Eppure il brigadiere Stanzani ha esteso la ricerca anche a lui».

Il volto di Togno cambiò espressione. «Questo dovete chiederlo a lui».

«Già fatto» intervenne Max. «Dice che glielo ha esplicitamente chiesto lei».

«Si tratta di un malinteso» si difese l’ex carabiniere. «Vi chiedo scusa, vi offro da bere e la storia finisce qui».

Allargai le braccia. «C’è un’inchiesta della polizia» mentii. «Dubito che la parola “malinteso” sia sufficiente per archiviarla».

Togno mi fece il verso. «E allora parlerò con la polizia e non con voi. Adesso, se non vi dispiace, vorrei continuare a bere in santa pace».

Prendemmo tranquillamente posto al suo fianco e come due avventori qualsiasi ordinammo un aperitivo. Qualche minuto più tardi entrarono un paio di signori sui sessanta, molto eleganti e dall’aria danarosa. Il proprietario si precipitò ad accoglierli.

«Caro Pellegrini, come vede siamo tornati a gustare la sua ottima cucina» disse a voce alta uno dei due con una marcata inflessione emiliana.

Max ebbe una reazione inconsulta. Mi strinse la spalla come una morsa ed esclamò a voce ancora più alta: «Giorgio Pellegrini!».

Il ristoratore si voltò. Lui e Max si fissarono per qualche istante. Conoscevo il mio amico ed ero certo che il suo sguardo esprimesse disprezzo. Il ciccione appoggiò il bicchiere e si avviò all’uscita senza proferire parola. Pagai e lo seguii.

Lo raggiunsi nella bella piazza poco lontana mentre si stava accomodando al tavolino di un altro bar.

«Che cazzo ti è preso?».

«Giorgio Pellegrini» ripeté in tono tetro. «Ora ho capito chi è. Su di lui ho sentito molte voci».

«Posso conoscerle anch’io?».

Max non rispose, prese il cellulare e si collegò al sito delle ferrovie. «C’è un treno fra un’ora. Faccio in tempo a buttare giù un boccone».

«Dove sei diretto?».

«Milano».

Fummo interrotti dalla cameriera. Il ciccione ordinò cibo per tre persone della sua stazza. Segno evidente dell’angoscia che lo opprimeva in quel momento.

«Sono costretto a fare un tuffo nel passato» spiegò dopo aver divorato il primo panino. «Devo vedere certa gente che conosce bene il padrone della Nena».

«E non ne hai nessuna voglia».

«Non ci siamo mai piaciuti. E oggi ancora meno».

«Non sei obbligato».

Ingollò la birra scura con avidità. «Lo sono, eccome» ribatté ma non aggiunse altro. Si chiuse in un silenzio inquieto fino a quando non arrivò il momento di recarsi in stazione.

«Forse starò via un paio di giorni» disse.

«Sai dove trovarmi».

Andando al parcheggio allungai il percorso per ripassare davanti alla Nena. Mi fermai sull’ingresso per sbirciare. Faceva ancora abbastanza caldo per lasciare la porta spalancata. Il ristorante era al completo. Giorgio Pellegrini svolazzava tra i tavoli con il solito sorriso affascinante. A un certo punto mi vide e affrontò per un attimo la mia curiosità. Non cambiò espressione. Solo gli occhi erano diversi. Erano svuotati di ogni traccia di umanità.