CAPITOLO QUINTO

Mi domandai perché Campagna si vestisse come un tamarro. Non si trattava solo di pessimo gusto ma di una scelta meditata. Un tempo anch’io esibivo un look da cantante blues della Louisiana ma, appunto, era un modo per distinguermi, per continuare a rivendicare il mio passato di cantante, dopo che la galera mi aveva tolto la voce. Ora rimpiangevo gli stivali di pitone, le cinture con fibbie che sfioravano il chilo di ferraglia, i jeans a sigaretta e le camicie di lino grezzo dai colori violenti, ma a un certo punto le esigenze di sopravvivenza mi avevano obbligato a essere uguale agli altri. E il cambiamento non era stato indolore. Avevo iniziato a frequentare negozi dove i commessi facevano del loro meglio quando capivano che ero un caso senza speranza e io li lasciavo fare.

Invece Campagna voleva farsi notare a tutti i costi quando essere uno sbirro in borghese raccomandava il contrario. I criminali europei della nuova generazione erano diventati più sobri in fatto di abbigliamento e l’ispettore superava i confini sia come “regolare” che come delinquente. Come tutti gli altri eccentrici stava nel bel mezzo di una terra di nessuno.

A questo pensavo mentre lo attendevamo nel parcheggio di un self service in zona industriale. Max era taciturno, l’avevo praticamente costretto a venire all’appuntamento e non era affatto entusiasta di fare la conoscenza del poliziotto.

«Campagna sa che esisti e che stiamo lavorando insieme al caso» avevo sbuffato dopo l’ennesima protesta. «E poi è meglio che siamo in due ad ascoltare quello che ha da dire».

L’ispettore aveva telefonato dal treno mentre stava tornando da Roma. Aveva urgenza d’incontrarmi. Speravo portasse buone notizie fino a quando non lo vidi scendere dall’auto. La piega della bocca suggeriva la fatica di un viaggio inutile.

Max e lo sbirro si strinsero la mano senza presentarsi.

«Ormai ad andare a Roma con il treno si impiega poco più di tre ore» attaccò il poliziotto come se stesse chiacchierando al bar. «Così ti puoi alzare alle sei e a metà mattina sei già alla Mobile, dove un collega molto simpatico spazza via ogni speranza di capire qualcosa di questa storia del cazzo. E a ragione. La pista romana è impraticabile. Anche se tutto avesse avuto origine nell’ambiente del professore, non abbiamo la possibilità di appurarlo».

Campagna si portò una mano allo stomaco. «Non riesco a digerire i rigatoni alla pajata».

«Succede quando non si mettono i chiodi di garofano» spiegò Max in tono saccente. «Almeno tre ogni chilo e mezzo di intestino. Di vitello, s’intende. Quello di manzo è sconsigliato».

L’ispettore gli scoccò un’occhiata troppo ammirata per essere vera. «Te ne intendi di cucina. Nel tuo fascicolo non è specificato. Una passione recente per superare la sconfitta politica?».

Il ciccione spalancò la bocca per la sfacciata confidenza del poliziotto.

«Non cadere nella trappola» lo avvertii. «L’ispettore è un burlone, ti sta provocando».

Campagna esibì un sorriso tirato e riprese a parlare del caso. «Quello che non torna è che nessuno abbia assistito al sequestro. Eppure era giorno, il tragitto monitorato e pieno di passanti».

«Forse si è recato all’appuntamento sbagliato» intervenne il ciccione.

«Forse» gli fece eco il poliziotto. «L’unica ipotesi investigativa che mi sento di indicare è di controllare le bande di nuova formazione. Non potendomici dedicare a tempo pieno perché il capo mi ha appena annunciato che devo occuparmi di una batteria di rapinatori italoalbanesi, non aspettatevi grandi risultati».

«D’accordo» dissi. «Speriamo di avere maggior fortuna».

«Come pensate di muovervi?» chiese l’ispettore.

«Non abbiamo ancora un’idea precisa» risposi con sincerità.

«Tanto paga la svizzerotta» commentò lui acido. «E mi piacerebbe sapere quanto».

«Andiamo via, Marco» disse il ciccione offeso, avviandosi verso la macchina che avevamo ritirato dal concessionario qualche ora prima. «Qui perdiamo solo tempo».

Porsi la mano a Campagna, che ricambiò la stretta. «Non ce la fai a superare l’idea che siccome sei sbirro allora sei di una razza superiore» dissi in tono stanco.

Scosse la testa. «Ti sbagli Buratti, non sopporto che vi mettiate in tasca più soldi di quanto guadagno io e in maniera del tutto illegale perché non avete uno straccio di licenza in tasca».

Girai i tacchi e raggiunsi il mio socio.

«E tu mi hai costretto a venire qui per ascoltare gli insulti di quello sbirro fuori di testa?» s’inalberò Max.

Gli feci cenno di tacere. «Mi voglio godere il rito dell’accensione, riempirmi le orecchie del ritmo di un motore Škoda» mi inventai, tanto per alleggerire la tensione.

«E la tua salute mentale è peggio della sua» sibilò inferocito il ciccione. «Abbiamo girato come due cretini per mezzo Veneto per trovare questo catorcio».

«Ma quale catorcio?» protestai. «Questa è una Felicia del 2001, ultimo anno di produzione».

«Ma se nemmeno il concessionario te la voleva vendere».

«Perché mi voleva rifilare un modello nuovo».

«Lo sai che siamo gli unici a circolare con una Felicia? Ormai non ne esistono più. Se ne sono disfatti tutti».

«Questo non è vero. Sono certo che anche il mio amico chitarrista Paolo Valentini in questo momento è alla guida del suo gioiello».

«Come questo? Verde con il cofano arancione?».

Sbuffai. «Appena ho un attimo di tempo la porto dal carrozziere a farla riverniciare. Non farla tanto lunga. È un’auto che non suscita interesse, nessuno se la fila».

«D’accordo. Hai notato però che questo settembre è caldo e a tratti anche un po’ appiccicoso e la tua Felicia non è munita di aria condizionata?».

«Se ti offro la cena la smetti di farmi pagare il conto dell’incazzatura che ti ha scatenato Campagna?».

Si girò di scatto per guardarmi. «È così evidente?».

Annuii. «Devi seppellirla sotto il giusto strato di cibo e vino, Max. Scegli un ristorante dalla lista che ci ha fornito la nostra cliente».

Con una certa fatica estrasse dalla tasca posteriore dei pantaloni un notes sgualcito. «La signora Oriana Pozzi Vitali e il professor Di Lello si sono accomodati ai tavoli di sette locali del circondario. Alcuni li hanno frequentati addirittura un paio di volte».

Il ciccione lanciò il quadernetto contro il parabrezza. «D’accordo, ho i coglioni girati ma quest’idea del pellegrinaggio dei ristoranti mi sembra ridicola».

«Se cominciamo ad applicare questo metodo alla nostra indagine possiamo ritirarci stasera stessa».

«Ma chi vuoi che li abbia notati?» insistette il ciccione. «E anche se fosse? Un tizio li ha visti mangiare e chiacchierare e ha messo in piedi una banda per sequestrare Di Lello?».

«Probabilmente hai ragione, Max» ammisi cercando di farlo riflettere. «Ma non abbiamo nulla a cui aggrapparci e poco fa Campagna si è presentato a mani vuote. L’esperienza ci ha insegnato che non bisogna mai trascurare nulla».

Accese due sigarette e me ne offrì una. «E va bene. Ma non farmi più incontrare quel poliziotto».

«È meno stronzo di quello che pensi. Non ha imparato ad adeguarsi ai tempi e si sente fuori posto».

«Risparmiami questi discorsi, Marco. E ora dirigiti verso l’autostrada. Si va a Vicenza a mangiare baccalà».

«Non fa troppo caldo?».

«No» rispose lapidario. «E non farmi fare brutte figure con queste domande inopportune mentre ordiniamo. Lascia fare a me e tutto andrà liscio».

 

Martedì, mercoledì e giovedì. Tre giorni e tre ristoranti. Nulla da dire su qualità del cibo e del servizio ma furono ricognizioni totalmente inutili sul piano investigativo. Allungammo mance principesche a camerieri e posteggiatori per sentirci rispondere che nessuno ricordava il professore nonostante la sua fotografia fosse stata pubblicata dai giornali e riproposta dalla televisione. Nessuno aveva mai notato personaggi strani eccetto i soliti spacciatori di cocaina e puttane d’alto bordo, ma quelli ormai facevano parte dell’arredamento. Un locale era munito di telecamere ma i nastri venivano cancellati ogni settimana. Giusto per curiosità pagammo per visionare gli ultimi tre giorni. Ore di noia.

La sera del venerdì toccò alla Nena. A cena la prenotazione era obbligatoria ma per fortuna una coppia aveva disdetto pochi minuti prima del nostro ingresso. Mentre ci servivano un buon prosecco di benvenuto Max e io ci scambiammo un’occhiata e un sorriso. Quel posto era davvero ben frequentato: industriali delocalizzati, professionisti che si occupavano di loro con l’abilità di funamboli, politici di basso livello con scritto in fronte “corruttibile”, commercianti che mantenevano l’attività con l’usura accompagnati da commesse atteggiate a escort. Il ritratto di un Veneto parassita, volgare, famelico, eppure ancora profondamente radicato e inestirpabile.

Il padrone era un belloccio con un sorriso irresistibile che tutti adoravano. Passava da un tavolo all’altro come se fosse una star.

Si fermò anche al nostro. «Tutto bene?» chiese osservandoci con lo scrupolo dell’entomologo. «Sono il proprietario e mi chiamo Giorgio».

«Piacere» disse Max. «Stiamo dando un’occhiata al menu».

«Fate pure con calma. E se avete bisogno di consigli non esitate a chiamarmi» disse prima di allontanarsi.

Tutto era impeccabile. Ogni dettaglio era frutto di un’idea ben precisa di ristorazione. Il cliente doveva trovarsi a proprio agio mentre gustava una cucina regionale reinterpretata da un giovane chef, fresco di riconoscimenti e apparizioni televisive.

Gli avventori erano in buona parte habitué. Si conoscevano, si lanciavano battute da un tavolo all’altro. Il resto erano turisti o persone attirate dalle buone recensioni delle riviste specializzate.

«Si mangia bene» decretò il ciccione pulendosi la bocca con un tovagliolo color avorio. «E non mi sembra il posto frequentato dal tipo di criminale che stiamo cercando».

Diedi l’ennesima occhiata agli avventori. «Molti hanno le mani in pasta con l’imprenditoria o la finanza. Non si può escludere che qualcuno abbia riconosciuto la signora Pozzi Vitali».

Max mimò il gesto di arrampicarsi sugli specchi. «Una cosa però possiamo escludere con assoluta certezza» affermò indicando la sala. «Nessuno ha riconosciuto il professore».

Scoppiammo a ridere e in quel momento apparve il proprietario accompagnato da due signore. «Gente allegra il ciel l’aiuta» disse con un tono così ambiguo da risultare vagamente offensivo. «Vi spiace accogliere queste due bellissime dame al vostro tavolo? Altrimenti sarò costretto a metterle alla porta e ne sarei profondamente dispiaciuto dato che lei è mia moglie» disse indicando una tizia che si affrettò a presentarsi come Martina.

«Io sono Gemma» intervenne l’altra. «L’amica».

Le facemmo accomodare con un po’ di imbarazzo perché avremmo preferito rimanere soli.

La consorte del proprietario era la riproposizione in chiave umana del ristorante. Perfetta, impeccabile, affascinante senza esagerazioni. Tutto in lei era misurato. L’altra era diversa, molto più simile alle donne presenti nel locale. Si scolò le bollicine di Martina senza chiedere il permesso, doveva trattarsi di una consuetudine. E divorò l’antipasto in due bocconi. Max e io eravamo troppo esperti degli sfaceli dell’esistenza per non accorgerci della smisurata grandezza dell’infelicità in cui stava affogando. Delle due era palese che Gemma era più acuta e intelligente. Martina sembrava leggermente lobotomizzata.

Dopo i convenevoli e le battute sull’estate anomala calò un lungo silenzio. Le due donne, forse sentendosi in colpa per aver invaso il nostro tavolo, iniziarono a sondare la nostra disponibilità a conversare. Quando ci raccontarono che capitava spesso di sedere al tavolo con sconosciuti dato che cenavano alla Nena tutte le sere, diventammo improvvisamente ciarlieri e nel giro di qualche minuto il volto del professor Di Lello veniva osservato da entrambe con attenzione.

Martina chiamò il marito con un cenno. «Giorgio, amore, hai mai visto questo signore?» chiese porgendogli la foto.

«No, mi spiace» disse tranquillo e poi sparò una domanda secca, precisa. «I signori appartengono alle forze dell’ordine?».

«No» risposi.

«E allora non capisco perché siete venuti nel mio locale a mostrare quella fotografia». Il tono non era minaccioso né tantomeno scortese.

«Pura curiosità» tagliò corto il ciccione.

Giorgio appoggiò le mani sulle spalle della moglie e dell’amica. «State bene attente a questi due curiosoni» scherzò prima di tornare a occuparsi del ristorante.

Martina all’improvviso decise di massacrarci parlando di outlet. Non di uno in particolare ma di tutti quelli disseminati nel raggio di duecento chilometri. Al dessert ero pronto a chiedere pietà. Max, altrettanto provato, rinunciò al secondo giro di grappa.

«Era tutto di vostro gradimento?» chiese il proprietario alla cassa.

«Sì, grazie».

«Allora vi aspetto. Tornate pure quando volete».

Per riprenderci dall’incontro ravvicinato con quella pazza della moglie ci fermammo a bere una birra. La serata era calda, la piazza era disseminata di tavolini.

«Strano assortimento di amiche» commentai.

«Ma che cazzo le ha preso? Non c’era verso di farla stare zitta o di cambiare discorso. E il marito non è affatto simpatico. Hai visto come ha reagito quando abbiamo mostrato la foto del professore? Sembrava che gli stessimo contaminando il locale».

«Forse abbiamo fatto male a non insistere con il personale».

«Tempo perso. Ancora tre giorni e abbiamo chiuso con il tour enogastronomico. Non che mi dispiaccia, per carità, ma i nostri amanti segreti non si sono cacciati nei guai tra un risotto e un pollo alla cacciatora» concluse Max.