CAPITOLO NONO

Buttai giù una pizza con un paio di birre consapevole che la digestione non sarebbe stata una passeggiata. Non avevo voglia di sedermi in un ristorante da solo e quella mi era sembrata la soluzione più veloce. Tornando dal bagno adocchiai una copia sgualcita del Mattino e tra un boccone e l’altro spulciai le pagine degli spettacoli. Fu così che scoprii che in un locale vicino, da lì a poco, il mio vecchio amico Maurizio Camardi, noto sassofonista nonché esperto di belle donne, si sarebbe esibito con Marco “Ponka” Ponchiroli, un bravo pianista che mi era capitato di ascoltare spesso.

La pizzeria era sprovvista di calvados e mi accontentai di una grappa. Ero preoccupato per Max che in quel momento stava frugando in un passato che nonostante gli sforzi non riusciva a rimuovere. Il ciccione aveva una relazione difficile con quello che era stato un tempo. Da un lato cercava disperatamente di tradurre in senso positivo quell’esperienza nel presente, dall’altro tentava di tenere lontani gli eccessi, lo schifo che aveva sporcato di fango i suoi sogni e quelli di tanti altri.

Era la serata giusta per bere più del solito ma decisi di rimanere entro i limiti della sobrietà appena incrinata dall’alcol. Formula di mia invenzione che corrispondeva a un numero preciso di bicchierini. Il fatto era che da un po’ di tempo quando mi inciuccavo pensavo a Ninon e piangevo. Mi mancava e quando la immaginavo tra le braccia di un altro uomo non riuscivo a trattenere le lacrime.

Feci correre lo sguardo sulle donne sedute ai tavoli. Mi sentivo così solo e il desiderio di amare ed essere amato era così violento da non riuscire a procedere a una selezione obiettiva. Era arrivato il momento di chiedere il conto.

Dovetti attendere una ventina di minuti per salutare Maurizio. Era impegnato a dare consigli all’ennesimo maschio che non riusciva a conquistare il cuore di una ragazza.

«Dovresti tenere un corso di seduzione. Sarebbe il più seguito della città» dissi mentre lo abbracciavo.

«Non sei il primo che mi consiglia questa svolta esistenziale ma credo che continuerò con la musica».

Poi mi chiese se ero tornato a vivere a Padova. Risposi che non lo sapevo ancora. «Arriva un momento in cui diventa difficile scegliere dove campare».

«Il segreto è non smettere di viaggiare» disse indicando il sax. «Mi porta in giro e tornare diventa un piacere».

Jazz. Mi riempii le orecchie di buona musica. Ogni tanto sbirciavo il cellulare per controllare inutilmente la presenza di messaggi o chiamate di Max.

Verso mezzanotte tornai nell’appartamento degli amanti. Era silenzioso e profumato. Accesi la luce in tutte le stanze per vedere la casa illuminata, poi mi spogliai e mi lasciai cadere sul divano pronto a ingozzarmi di televisione.

In quel periodo non riuscivo a smettere di seguire programmi assurdi che raccontavano la crisi negli Stati Uniti. Banchi di pegni in città economicamente fottute come Detroit, con file interminabili di afroamericani che cercavano di piazzare qualsiasi cosa in cambio di pochi dollari. Aste di case o di ville disputate come battaglie da squali che diventavano personaggi televisivi. Box di sterminati self storage i cui lucchetti venivano aperti con le tronchesi. I compratori avevano cinque minuti per dare un’occhiata dall’esterno, poi si contendevano con rilanci da cinquanta dollari oggetti che avevano fatto parte della vita di altre persone che un giorno non erano state più in grado di pagare l’affitto.

Impossibile non meravigliarsi della bassezza dei contenuti, eppure qualcosa mi spingeva a seguirli. In particolare quelli ambientati nel mondo dei pegni. Donne che volevano pagare la cauzione per tirare fuori di galera i loro uomini e che dovevano arrendersi all’idea di non farcela perché i loro gioielli, televisori, computer, pellicce venivano valutati una miseria.

Ogni tanto arrivava qualcuno che doveva pagarsi le medicine ma quelle scene non riuscivo a reggerle e cambiavo canale.

Un tempo attendevo il sonno con scorpacciate di televendite. Ora la civiltà televisiva offriva di meglio, il voyeurismo sulla povertà della grande America. Il messaggio era sempre lo stesso: “Fottetevi. Tocca a voi pagare i costi della crisi”.

 

Il mattino seguente, senza un motivo preciso, decisi di farmi crescere i baffi. Mi sembrava una buona idea e affrontai la giornata con discreto entusiasmo. Salii in auto per raggiungere la Nena, dove volevo far colazione per marcare il territorio e infastidire Pellegrini e Togno. Quando arrivai non trovai né l’uno né l’altro. Sfogliai un quotidiano sfamandomi con un cappuccino e un cornetto che stando al listino mi sarebbero costati uno sproposito. Come sempre il locale era pieno, la gente chiacchierava, rideva, faceva affari. Cinque signore ingioiellate sedute vicino a me, intente ad aggredire un vassoio di tramezzini e una bottiglia di pinot grigio, dopo aver esaurito l’argomento climatico del settembre anomalo iniziarono a discutere di parroci. Contrariamente a quanto mi sarei aspettato auspicavano un ricambio generazionale. Non ne potevano più dei vecchi con idee retrograde su separazioni e divorzi e parola dopo parola capii che ognuna in famiglia poteva vantare qualche caso controverso.

Ma a un certo punto la più giovane provvide a delimitare i confini del concetto di rinnovamento. «Basta che non arrivi il pretino fresco di seminario che ti porta i rom in parrocchia oppure organizza la raccolta di abiti per i detenuti» disse ottenendo piena approvazione. «Che già con questo papa non si capisce bene dove vuole arrivare».

Avrei voluto continuare a seguire il dibattito ma in quel momento fece il suo ingresso il proprietario. Pellegrini mi notò quasi subito e venne al mio tavolo sfoggiando un grande sorriso, decisamente esagerato per il livello dei nostri rapporti.

«Mi fa piacere che sia venuto a gustare le nostre colazioni. Ogni ingrediente è accuratamente selezionato» disse gioviale.

“Ci mancherebbe altro, con quello che costano” pensai ricambiando il sorriso.

«E il suo amico non c’è?».

«Oggi no».

Si avvicinò abbassando il tono della voce. «Il fatto che sia tornato sta a significare che l’incidente di ieri è già dimenticato, vero?».

«Certamente» risposi cercando di essere convincente.

Non ci riuscii. Pellegrini me lo fece capire scoccandomi un’occhiata gelida.

Girò sui tacchi e puntò al tavolo delle signore distribuendo complimenti su abiti, borse, acconciature, trucchi provocando reazioni di pura estasi. Ci sapeva fare. Era un vero professionista nel coccolare i clienti. Mentre pagavo il conto una trentacinquenne carina che beveva un caffè al bancone iniziò a fissarmi e a sorridere in modo assolutamente discreto ma evidente. Ricambiai per il tempo necessario a capire che si trattava di una casalinga che esercitava al mattino, quando era libera da altri impegni familiari. La salutai con un cenno della mano e uscii diretto alla mia Škoda che mi attendeva nel parcheggio.

Ma a una cinquantina di metri di distanza incontrai Gemma che avanzava con passo stanco e l’aria annoiata.

«Colazione dalla Nena, scommetto» esordì senza salutare.

«Esatto. Lei invece ci sta andando ora?».

Guardò l’ora sul cellulare. «Sì, in realtà sto ingannando il tempo aspettando che Martina termini il corso di zumba».

«Inseparabili» dissi senza pensare.

Lei decise di divertirsi. «Viviamo insieme, infatti» precisò fissandomi. «Io, lei e Giorgio».

Incuriosito e pungolato accettai la sfida. «Ménage à trois?».

«Non c’è nulla di male, non credi?».

«No». Pensai che avesse voglia di chiacchierare e che forse poteva fornirmi informazioni su Togno dato che lei e la moglie di Pellegrini trascorrevano un sacco di tempo al locale.

«Posso invitarti a bere un caffè?» le chiesi passando al “tu”.

«Volentieri» rispose senza alcuna esitazione. «È da un pezzo che un uomo non mi chiede di fargli compagnia».

«Vivi una relazione troppo esclusiva».

Si esibì in una risata forzata che mise a nudo la sua maschera di donna triste, devastata da un’esistenza complessa di cui non sembrava affatto fiera.

Mi prese sottobraccio e mi condusse in un bar molto popolare che si affacciava in una piazza piena di bancarelle.

Ordinò un bicchiere di rosso e un paio di polpette di carne. Sarebbe andata d’accordo con Max. Io mi accontentai di un prosecco.

«L’avevo riconosciuto, sai?» disse a un tratto.

«Chi?».

«Quello della foto che hai mostrato a me e a Martina. Il professor Di Lello».

«L’avevi visto alla Nena?».

«E poi in televisione, sui giornali. Sono una ragazza che si informa, sai?».

«Però sei stata zitta quella sera».

«Alla Nena la discrezione è la regola numero uno, due e tre».

«Giorgio ha detto che non lo ricordava».

«Nemmeno Martina» rispose in tono ambiguo prima di ordinare il bis. Ci andava giù pesante anche la mattina.

Avrei voluto chiederle di Togno ma vi era qualcosa di inquietante in quella donna che mi impediva di disinteressarmi a lei.

«Tu non ti curi come la tua amica» dissi in tono franco indicando piatto e bicchiere.

Ghignò. «Io sono la dama di compagnia. Non posso essere perfetta, anzi. I miei difetti devono essere evidenti per compiacere lor signori».

La fissai per capire quanto parlava sul serio. Sorrise dandomi un buffetto sulla mano. «Sto scherzando».

«Conosci Federico Togno?» domandai. «Sta sempre alla Nena».

Non rispose. «E tu perché cerchi il professore insieme a quel tuo amico grasso?».

Mi presi il tempo necessario per rispondere adeguatamente, certo che ogni parola sarebbe stata riferita a Pellegrini.

«C’è una persona che soffre e non riesce a darsi pace che ci ha chiesto aiuto».

«La fidanzata?».

Evitai di rispondere. «Il dramma di vivere nell’assenza totale di notizie di una persona cara è terribile e a poco a poco diventa insostenibile. Non c’è nulla che possa alleviare questa sofferenza. Nulla».

Gemma afferrò il bicchiere. «Nemmeno questo?» chiese cercando di alleggerire il turbamento che le avevo provocato.

Non avevo intenzione di essere crudele ma non le diedi tregua. Fui preciso e dettagliato, convinto di far breccia nella sua corazza di cinismo e autodistruzione. Alla fine le chiesi ancora di Togno.

Non rispose nemmeno questa volta. Preferì scivolare nell’ambiguità, il suo terreno preferito.

«Giorgio è un re di cuori» disse. «E tu quale re sei?».

«Forse non voglio esserlo» risposi a casaccio.

Scosse la testa delusa e fece per alzarsi. Le presi la mano.

«Ti posso lasciare il mio numero di cellulare?».

«Per quale motivo?» chiese diffidente.

«Magari ti viene voglia di chiamarmi».

«Tu da me vuoi solo risposte» ribatté con amarezza. «Altro non ti interessa».

Era il momento giusto per mentire. Gemma era pronta a credere a qualsiasi cosa purché mi dimostrassi attratto da lei.

Invece rimasi in silenzio. Quella donna era strana e infelice, meritava rispetto. Nel mio mondo non erano contemplate le dame di compagnia.

Prese il cellulare per memorizzare il numero, poi uscì dal bar a testa bassa. Si fermò ad asciugarsi gli occhi e ad accendersi una sigaretta. La seguii fino a un palazzo del centro che ospitava la palestra dove Martina si manteneva in forma. Quando uscì Gemma la accolse con un sorriso e le raccontò qualcosa che la fece ridere. Passeggiarono fermandosi davanti alle vetrine, poi entrarono alla Nena.

 

Max chiamò verso sera. «Arrivo con l’ultimo treno. Fammi trovare qualcosa da mettere sotto i denti».

Ero la persona meno adatta a cui affidare il compito di sfamare un ciccione buongustaio. Mi precipitai nella migliore rosticceria della zona dove mi feci consigliare da una signora il cui unico difetto era quello di essere abbondante nelle porzioni.

Dopo un rapido passaggio in enoteca tornai a casa e ingannai il tempo tra spritz e televisione. Lo zapping mi fece incappare in una trasmissione di casi medici in cui si raccontava la storia di un ragazzo di sedici anni e trecento chili di peso. La madre, segnata dalla morte del primo figlio, rimpinzava come un’oca il secondogenito che era diventato una statua di lardo semisdraiata sotto un baldacchino. Per salvargli la vita, con il sostegno economico della rete televisiva, alla fine lo portavano in ospedale con un mezzo dei pompieri e lì diventava a tutti gli effetti un corpo da tagliuzzare, pesare ed esibire in ogni occasione. La mamma continuava a portargli “qualcosina” da mettere sotto i denti ma essendo scritturata dal programma nessuno osava allontanarla e tantomeno sopprimerla.

Cambiai canale quando fu evidente che il ragazzo non aveva nessuna speranza di tornare a una vita normale. La tv era arrivata troppo tardi.

Una storia del cazzo a cui però non smisi di pensare mentre camminavo verso la stazione. Quella sera volevo tenere la mente libera da ogni pensiero fino al ritorno di Max.

Il mio amico e socio scese dal vagone tergendosi la fronte con un fazzoletto. «Ovviamente l’aria condizionata non funzionava» attaccò a lamentarsi avventurandosi in una feroce quanto articolata invettiva nei confronti della dirigenza delle ferrovie.

«Cos’hai scoperto?» chiesi secco.

Mi fece segno di offrirgli da fumare. «Scusa» bofonchiò, «sono un po’ scosso».

«Pellegrini?».

«Un vero pezzo di merda» sentenziò. «Faceva parte di uno dei gruppetti della galassia della lotta armata di piccolo cabotaggio, solo che un giorno lui e un altro fecero saltare in aria per errore un metronotte al limite della pensione che stava facendo il suo giro di controllo in bicicletta.

«L’unica cosa da fare era fuggire e i due si sono ritrovati a imbracciare un kalašnikov nelle fila di un movimento di liberazione di un Paese del Centro America. Tralascio i particolari ma alla fine il signorino si è stancato ed è tornato in Europa da solo, perché il suo socio aveva fatto una brutta fine. Ha fatto tappa prima a Parigi, dove ha annunciato di non avere alcuna intenzione di pagare il conto, per poi ricattare apertamente i suoi vecchi compagni: o provvedevano a trovare un ergastolano irriducibile che si accollava i reati di cui era imputato, o avrebbe denunciato tutti quelli che erano rimasti in libertà, senza distinguere tra innocenti e colpevoli.

«Gli altri hanno ovviamente ceduto e lui si è consegnato alla frontiera. Se l’è cavata con un breve periodo di galera dove si è distinto per infamità, ma non ha mantenuto i patti perché quei nomi li ha fatti lo stesso alla Digos. E anche se nessuno è finito in galera si sono ritrovati costretti a fingere di essere disposti a collaborare con la polizia. Per fortuna era già tutto finito, l’organizzazione non esisteva più e dopo un paio d’anni li hanno lasciati stare».

Ero stordito. Non era una novità che qualcuno avesse evitato il carcere ricattando le persone con cui aveva condiviso sogni e scelte, ma era evidente che Pellegrini aveva la preparazione e le capacità per guidare la banda degli amanti. Non vi era nulla di concreto per poterlo affermare ma ormai ne ero certo.

«È lui» dissi.

«Sì» confermò Max. «A Milano mi hanno fatto incontrare in gran segreto uno dei loro avvocati di fiducia che mi ha raccontato di aver incrociato Pellegrini difendendo un mafioso maltese. Pare che fosse implicato in un giro di compravendita di prostitute ma il suo nome è scomparso all’improvviso dai fascicoli dell’inchiesta».

«Amicizie altolocate».

«Sante Brianese» confermò il mio socio. «Ora è caduto in disgrazia ma il nostro avvocato ha aiutato il bel Giorgio a ottenere la riabilitazione e ad aprire La Nena».

«Operazioni costose» commentai. «È lecito chiedersi dove abbia trovato il denaro».

Ci accendemmo altre due sigarette e fumammo in silenzio camminando lungo le vie del centro.

«Ci occorre un piano» dissi a un tratto pensando che avevamo bisogno del vecchio Rossini e delle sue pistole.

«Giusto. Ma prima dobbiamo mangiare. Le buone idee si tengono alla larga da una pancia vuota».

Le macchine parcheggiate su corso Milano costeggiano portici dove si affacciano negozi e locali. A quell’ora erano tutti chiusi. Dal buio sbucò un uomo con il volto coperto da una sciarpa, il braccio teso, la mano che impugnava una pistola.

«È armato» gridò Max prima di buttarmisi addosso e spingermi di lato.

Due detonazioni e un attimo dopo il corpaccione del mio amico scivolò a terra. Lo sconosciuto sparò ancora ma i colpi andarono a vuoto, poi fuggì, infilandosi in una stradina laterale.

Mi chinai sul ciccione. Si lamentava, perdeva un sacco di sangue dalla schiena e da un fianco. Credetti di impazzire perché non riuscivo a muovere un muscolo. Ero impietrito. Max aveva bisogno di aiuto e io ero lì a rivivere una scena analoga di molti anni prima, quando a cadere sotto i colpi di sicari della mala del Brenta era stata Marielita, la sua donna. Era morta tra le mia braccia sotto un portico di Marostica e io non potevo sopportare che accadesse ancora.

«Chiama aiuto, Marco» mi spronò Max con un filo di voce e finalmente reagii.

«Certo, certo» balbettai cercando il cellulare. «Tu stai tranquillo, vedrai che andrà tutto bene».

«Questo lo dicono nei film, nella vita reale sono solo cazzate» ribatté esasperato prima di perdere conoscenza.

“Ecco, è morto” pensai mentre tentavo di farmi capire da un centralinista del 118.

Arrivò prima una volante. «Sembra vivo» disse un poliziotto mentre gli altri due mi identificavano e mi perquisivano.

«Cos’è successo?» domandò il capopattuglia.

«Un tizio. Voleva rapinarci» mentii. «Poi senza un motivo si è messo a sparare».

L’altro iniziò a tempestarmi di domande a cui mi ribellai. «Mi lasci stare» gridai indicando Max. «Non vede che sta male?».

Lo sbirro mi afferrò per il bavero. «Se abbiamo una possibilità di prenderlo è proprio adesso, mentre si allontana dalla zona» sibilò. «Ma dobbiamo sapere chi cercare».

Lanciai un’occhiata a Max, steso a terra, immobile, e respirai a fondo. «Aveva il viso coperto, era vestito di scuro» iniziai a raccontare. «Ci ha chiesto i soldi, parlava italiano, non ho visto quando ha sparato perché il mio amico mi ha protetto. Col suo corpo, capisce? Si è messo in mezzo e si è beccato i proiettili, è chiaro adesso?».

Il poliziotto si rese finalmente conto che ero sotto shock. Tornò alla macchina e si mise in contatto con la centrale. Max era sempre incosciente, lo sbirro che gli stava vicino e gli tastava la giugulare continuava a rassicurarmi che era ancora tra noi. Gli credevo, ma poco. Avevo davanti agli occhi Marielita, la vita che le sfuggiva tra le labbra in un soffio. L’avevo amata anch’io, una volta eravamo pure finiti a letto, ma al mio socio non avevo mai avuto il coraggio di dirglielo. Forse lui l’aveva immaginato ma capita che sia meglio lasciar perdere, anche le amicizie più forti si sgretolano sotto il peso delle parole.

Marielita era una donna di cui ci si innamorava facilmente. Musicista di strada, era stata per anni gli occhi e le orecchie del ciccione, perennemente nascosto per sfuggire a un mandato di cattura. Io non avevo mai pensato di portargliela via, farci l’amore era stato semplicemente casuale e bellissimo, una storia che ero certo non avrebbe avuto seguito. La sua morte però aveva lasciato in eredità solo domande e nessuna risposta. Finalmente la sirena annunciò l’arrivo dei soccorsi. Dopo qualche minuto il mio amico venne assicurato alla barella e io mi ritrovai vicino a lui, a osservarne il pallore alla luce impietosa dell’autoambulanza che faceva risaltare ogni dettaglio.

«Come sta?» chiesi con un filo di voce.

«Stiamo arrivando» rispose con voce stanca una donna infagottata in una divisa di un paio di taglie più grande e dalla voce stanca.

Max finì in codice rosso, quello dei casi gravi, e io in una sala d’aspetto piena di gente. Osservando una ragazza che al cellulare informava la famiglia sulla salute della nonna, mi resi conto che non avevo ancora avvertito nessuno. In realtà c’era un’unica persona a cui avrei voluto dirlo, avevo un disperato bisogno del suo aiuto, ma il cellulare di Beniamino risultava irraggiungibile.

Chiamai Christine Duriez a un numero di emergenza, ero sicuro che fosse in contatto con il vecchio Rossini, che dopo la morte di Sylvie conduceva una vita ritirata da rapinatore degli anni Sessanta. La Francia era il posto giusto.

Rispose al nono squillo. «Oui, Marco?».

«Hanno sparato a Max. Ora è sotto i ferri».

«Dove siete?».

«A Padova. Beniamino?».

«Non è qui».

La marsigliese riattaccò. Il messaggio sarebbe stato riferito ed era inutile perdersi in chiacchiere.

In quel momento avrei avuto bisogno di bere calvados, di ascoltare blues e di qualche ora di tregua. Nulla di tutto questo mi era concesso e la fredda luce dei neon suggeriva l’idea di trovarsi già alla morgue.

Mi alzai per cercare un posto all’esterno dove fumare e incappai in tre tizi che puntarono dritti verso di me con l’espressione incazzata di chi è appena stato tirato giù dal letto.

«Digos. Deve seguirci in questura» annunciarono.

«Digos?» domandai esterrefatto. «Cosa c’entrate voi con quello che è successo stasera?».

I tre si scambiarono un’occhiata. Parlò il più elegante.

«Tu e il moribondo siete pregiudicati per terrorismo e ti stupisci che siamo venuti a prenderti?».

Persi le staffe. «Non ti permetto di parlare così del mio amico, stronzo».

Mi spinsero contro il muro per immobilizzarmi. «Vuoi beccarti una denuncia per oltraggio e resistenza?».

Scossi la testa. «Non possiamo rimandare a domani? Devo assistere Max».

«Non ti preoccupare. È in buone mani. Lo stato italiano garantisce assistenza medica di alto livello anche ai pezzi di merda».

Non riuscii a tenere a freno la lingua. «Allora siete i soliti privilegiati».

Il più giovane e nerboruto mi tirò un cazzotto nello stomaco che mi tolse ogni desiderio di continuare lo scambio di battute. Riprendemmo in questura, in una stanza destinata agli interrogatori che aveva bisogno di una spazzata.

«Vi è tornata la voglia di fare la rivoluzione?» domandò quello che mi aveva picchiato.

«No».

«Siete tornati per regolare i conti con i vecchi compagnucci, magari per recuperare la cassa dell’organizzazione, e gli amici vostri hanno pensato bene di spararvi?».

«No».

«Siete diventati musulmani? Avete contatti con l’Isis?».

«No».

«Eppure siete stati a Beirut. Magari avete fatto due chiacchiere con gli Hezbollah».

«No».

Rispondevo meccanicamente in attesa che terminasse quella farsa e mi lasciassero andare. Poco dopo la porta si aprì ed entrò Campagna. Non mi degnò di uno sguardo ma chiese al commissario che guidava il terzetto di uscire un momento.

Poi l’ispettore mi prese sottobraccio per condurmi nel suo ufficio.

«Hanno ricevuto una soffiata» esordì scartando una barretta energetica.

«Chi?».

«I colleghi della Digos. La fonte sosteneva che siete tornati in attività come rivoluzionari a tempo pieno».

“Questa è opera di Pellegrini” pensai prima di alzare le spalle e dire: «Mi sono fatto sette anni di galera per avere ospitato un tizio. Una sola notte sfortunata. La politica non mi è mai interessata».

«Lo so. Ma la musica per il tuo amico è diversa».

«È fuori dal giro da anni».

Campagna si toccò la testa. «Ma certe idee continuano a circolargli nella mente».

«Non mi risulta sia un reato sognare un mondo migliore».

«Ora non ammorbarmi i coglioni con la tiritera sulla libertà di pensiero. Potrei vomitare» replicò il poliziotto masticando lo snack in modo fastidioso.

Poi, com’era sua abitudine, cambiò argomento. «E così si è trattato di una rapina?» domandò sghignazzando.

«Ho avuto questa impressione» risposi cauto.

«Certo che a volte le coincidenze sono proprio balorde» continuò divertito. «La mattina arriva alla Digos una soffiata che vi riguarda e la sera stessa cercano di alleggerirvi del portafogli».

Sbuffai. «Non potevo certo raccontargli che stiamo ficcando il naso in un sequestro di persona».

«Sono tante le cose che non puoi dire, Buratti».

Cambiai discorso. «Cosa gli hai detto per convincerli a lasciarmi perdere?».

«Cose da sbirri» rispose. «Dettagli che non ti devono interessare perché sei comunque un criminale da perseguire. Sto pensando seriamente di dedicare il mio tempo e le mie energie a sbatterti dentro per un lungo e sano periodo di detenzione».

«Cominci a essere noioso» ribattei secco.

«A Padova era un pezzo che non si sparava» m’incalzò Campagna. «Le risse tra bande di spacciatori sono all’ordine del giorno. Si massacrano a bottigliate, a sprangate. Ogni tanto salta fuori una lama ma le armi da fuoco le tengono da parte per le grandi occasioni perché fanno troppo rumore e alle forze dell’ordine danno fastidio.

«Invece arrivate voi due stronzi per una bella indagine discreta e nel giro di un mese qualcuno decide di eliminarvi a pistolettate».

«Questo non significa che abbiamo violato in alcun modo la legge» replicai pentendomi subito di aver sparato quella cazzata.

Il poliziotto reagì lanciandomi addosso un portapenne con i colori del Padova. «Non esagerare» ammonì. «Mi hai usato e poi ti sei messo in proprio, nascondendomi informazioni, con il risultato che non sappiamo ancora se il tuo socio se la sfanga».

Alzai la voce. «Sei stato tu a dire che oltre non potevi andare. È evidente che abbiamo spaventato qualcuno al punto da spingerlo a farci la pelle ma non saprei dirti chi. Non ti ho taciuto nulla».

«Balle» sibilò. «Menti come respiri. Se non parli non ti posso aiutare».

Non ne avevo la minima intenzione. Quei due proiettili nel corpo di Max avevano irrimediabilmente cambiato il corso di quella vicenda. Allargai le braccia. «Devi credermi, abbiamo fatto solo domande in giro».

«A chi?».

Decisi di metterlo al corrente di quello che avrebbe scoperto comunque. «Al brigadiere Stanzani, che ci ha svelato il nome del suo committente, tale Federico Togno. Il quale ci ha spiegato che si è trattato di uno spiacevole equivoco dovuto alla trascrizione errata di un numero di targa».

«Cazzate» sbottò il poliziotto. «Ha chiesto informazioni anche su Max la Memoria che non possiede nessuna auto. Al brigadiere Stanzani il Togno ha fornito una fotografia scattata col cellulare e nel tuo fascicolo ce ne sono diverse in cui siete ritratti insieme. E poi?».

«Tutto qui».

«Allora vuoi darmi a bere che l’uomo chiave è questo Federico Togno?».

«Magari è lo scagnozzo di qualcun altro».

«Un tempo volevo lasciare questo mestiere» iniziò a raccontare Campagna guardando dalla finestra l’alba che iniziava a mettere da parte la notte, «e trasferirmi a Berlino per realizzare un sogno: aprire l’Ambasciata ufficiale del tramezzino veneto, il più buono del mondo perché è il più morbido e saporito. Racchiude l’essenza dei sapori di questa terra.

«Avevo già disegnato l’insegna con la scritta che si fondeva con la sagoma di una gondola. Ma soprattutto avevo già convinto mia moglie e mia figlia a cambiare vita, Paese, lingua. E invece Wikipedia ha mandato tutto in malora».

Non potevo credere che Campagna volesse inchiodarmi in quell’ufficio per raccontarmi un’altra delle sue storie strampalate. «In che modo?» chiesi nel tentativo di spingerlo ad avviarsi verso la fine.

Mostrò l’indice e il medio della mano destra. «Per due ragioni. La prima è che il tramezzino non è veneto ma è stato servito per la prima volta in un bar di Torino nel 1925. Aveva ben poco di originale perché altro non era che un’interpretazione del tea sandwich inglese».

«E la seconda?».

«Il nome tramezzino lo ha inventato D’Annunzio. E a me quello lì è sempre stato sulle palle».

«Sono davvero dispiaciuto per questo tiro mancino che ti ha riservato la sorte ma non capisco che cazzo abbia a che vedere con me».

«Significa che tu hai detto alla volante che si è trattato di una rapina, dimenticandoti che io lavoro alla sezione antirapine e il caso ora è mio. Ti starò attaccato al culo con la benedizione del mio capo».

Sospirai in modo evidente. «Posso andare?».

«Dovrai tornare per firmare il verbale che ora non ho nessuna intenzione di scrivere».

«D’accordo».

«Vai a trovare Max la Memoria in ospedale?».

«Sì».

«Allora ti accompagno».

«Non ce n’è bisogno».

Si alzò e prese la giacca. «A te non diranno niente, non sei un parente e sai come funziona qui: appena vedono due persone dello stesso sesso gli si cuce la bocca, giusto per rompere il cazzo».

 

Il tesserino di Campagna fece miracoli. Riuscii a vedere Max attraverso un vetro del reparto di terapia intensiva mentre una giovane chirurga ci illustrava le sue condizioni.

«Il problema non sono le pallottole, quelle le abbiamo estratte senza complicazioni, ma le pessime condizioni cardiache e metaboliche del vostro amico. Ha avuto un infarto mentre lo stavano preparando per l’intervento ed è stata necessaria un’angioplastica con l’applicazione di due stent».

«Ce la farà?» chiese il poliziotto.

«Sì, ma ci vorrà del tempo» rispose la dottoressa. Poi tirò fuori dalla tasca un sacchetto trasparente che conteneva i due proiettili e l’affidò a Campagna.

«Calibro .22. Come i bossoli trovati dai colleghi della volante» dichiarò l’ispettore appena la dottoressa si fu allontanata. «Quanto lontano era quel tizio quando ha aperto il fuoco?».

«Almeno tre metri» risposi ripensando alla scena.

«È un tipo di pistola usata dai killer della mafia e dei servizi per le esecuzioni a distanza ravvicinata. Appoggi la canna dietro l’orecchio, alla tempia o al cuore della vittima e tiri il grilletto» spiegò. «Non è certo adatta per un agguato di quel tipo».

«Non credo fosse un professionista» ribattei. «D’altronde ha infilato solo i primi due colpi, gli altri per fortuna ci hanno mancati, nonostante fossimo immobili».

«Però questo contraddice l’idea di una banda di gente cazzuta» commentò il poliziotto. «Anche se il sicario ha agito nell’unica zona vicino a casa vostra priva di telecamere e questo elemento suggerisce intelligenza ed efficienza. Ha sparato ed è corso via, infilando una laterale dove con tutta probabilità lo attendeva un complice alla guida di un’auto. Secondo me ci stanno pigliando per il culo o, meglio ancora, turlupinando, come diceva un vecchio capo della Mobile».

«Come pensi di muoverti?».

«Sei l’ultima persona a cui lo direi» tagliò corto.

Gli misi una mano sulla spalla. «Grazie».

«E di cosa?».

«Di avermi accompagnato».

Campagna alzò le spalle e si allontanò.

Mi voltai a guardare Max. Il torace si sollevava faticosamente per respirare. Era vivo. Ora dovevo affrontare Pellegrini e i suoi complici per regolare i conti ma da solo sarebbe stato un suicidio.

«Ti prego, Beniamino, torna» mi sfogai a mezza voce.