CAPITOLO OTTAVO

Quel coglione di Buratti credeva di farmi paura messo lì all’entrata con le mani nelle tasche dei pantaloni. Mi fissava con quella faccia da bluesman alcolizzato. Il suo amico non si vedeva. Dopo avermi riconosciuto forse se n’era tornato a casa per ripensare alla nostra storia comune. Max la Memoria. Un vecchio attrezzo di quegli anni che ora doveva passare i sabato sera insieme agli altri sfigati a giocare a Risiko e a insultare il governo. Patetici falliti.

Dovetti attendere che i clienti fossero serviti e soddisfatti per riuscire ad avvicinarmi al bancone dove quel fesso di Federico Togno mi aspettava con l’aria del cane bastonato.

«Che cazzo hai combinato?» domandai trattenendo il desiderio di gridare. «Come mai quei due sono tornati nel mio locale per parlare con te?».

Lo scagnozzo mi raccontò tutto nei minimi particolari. Una miscela di sfiga, casualità e coglionaggine rischiava seriamente di focalizzare l’attenzione della polizia su Togno, il quale però era all’oscuro della storia del professore. Buratti e il suo amico panzone, che invece erano alla ricerca del defunto docente, forse sospettavano qualcosa, anche sulla base della cattiva fama che godevo in determinati ambienti.

La situazione era ampiamente sotto controllo ma avevo abbastanza esperienza per sapere che sottovalutare quanto era accaduto significava consegnarsi nelle mani della giustizia. Dettagli apparentemente privi di importanza si accumulano sulla cima della montagna e poi i sospetti li trasformano nella valanga che precipita all’improvviso. Era necessario reagire adeguatamente opponendo un piano A e un piano B. Il primo, esclusivamente tattico, doveva servire a confondere il nemico per allontanare i sospetti. Il secondo, strategico, andava attuato solo nel caso le cose si fossero messe male. A e B. Ecco perché non correvo mai il rischio di pagare il conto dei miei crimini.

Feci segno a Togno di seguirmi nella saletta che un tempo riservavo a Brianese e alla sua congrega di corrotti. Era a prova di intercettazioni.

«La colpa è tua, Federico» lo aggredii in tono duro.

«Ti sbagli, non ho fatto niente di sbagliato».

«Ah no? Il tuo brigadiere è finito nel bel mezzo di una retata perché tu lo hai mandato nell’hotel sbagliato».

«Ma che ne potevo sapere?» balbettò l’idiota.

«Sei pagato per saperlo».

«D’accordo, ho commesso un errore» disse cercando le parole adatte. «Ma non capisco perché sei così incazzato. In fondo non è accaduto nulla di grave, la faccenda verrà insabbiata, nessuno vuole mettere nei guai il brigadiere Stanzani».

«Allora spiegami come mai quei due stronzi sono venuti a sapere della tua indagine dalla polizia».

«Non lo so ma ti ho già detto che non ci sarà nessuna inchiesta».

«Può darsi, ma quelli non smetteranno di ronzarti intorno».

«A me?» chiese sorpreso. «Che facciano pure. Non ho nulla da nascondere».

Gli afferrai il mento e lo obbligai a guardarmi. «Non hai un lavoro che possa giustificare il tuo tenore di vita, svolgi attività illegali e hai commesso un omicidio» gli ricordai. «Te li devi togliere dai coglioni».

«E come?».

Lo lasciai andare. «Ci sto pensando. Al momento giusto ti dirò cosa fare».

Federico Togno, rosso in viso, farfugliò un saluto e si allontanò in tutta fretta. Dopo un rapido controllo andai a sedermi al tavolo dove Martina e Gemma stavano terminando di pranzare. Mia moglie guardava con invidia il dolce al cucchiaio che l’amica stava gustando con voluttà. Avrebbe voluto ordinarlo ma nessun cameriere si sarebbe sognato di portarglielo. I miei ordini erano chiari in proposito dato che decidevo giornalmente il menu della mia signora.

«Che impegni ha oggi pomeriggio Martina?» domandai a Gemma.

«Alle 16.30 pilates e alle 18 il massaggio».

«Passa a prenderla alle 16.15» le ordinai.

Gemma annuì scura in volto. Sarebbe stata costretta a gironzolare fino a quell’ora dato che volevo che rimanesse fuori di casa.

La mia consorte, che aveva capito benissimo cosa avevo in testa, obiettò a mezza voce che aveva appena mangiato ma di fronte al mio assoluto disinteresse rinunciò a insistere.

La presi sottobraccio e passeggiammo fino a casa. Non smise un attimo di parlare. Sapeva che in quel momento le era permesso e ne approfittò per mettermi al corrente delle difficoltà della madre nell’affrontare la vedovanza. Ascoltai tutte quelle frasi banali sperando che il destino e la vecchiaia mettessero fine al più presto alle sofferenze di mia suocera.

Una volta a casa Martina corse in camera, io mi diressi verso la stanza che conteneva solo una bellissima poltrona in pelle color sangue di bue e una spin bike. Mi accomodai e qualche istante più tardi mia moglie entrò vestita solo di uno slip candido e salì sulla bici in attesa dell’ordine: «Spinning, baby, spinning».

Iniziò a pedalare, trovò presto il ritmo giusto. Chiusi gli occhi cullato dal rumore oliato degli ingranaggi e finalmente potei concentrarmi sui piani. Buratti, Max la Memoria, Togno. Vedevo nitidamente i loro volti, ascoltavo le loro voci e li muovevo come pedine, li collocavo in una determinata situazione e verificavo risultati ed effetti collaterali.

La lucidità di quei momenti era impagabile e mi permise di comprendere che la faccenda era in qualche modo compromessa e il piano B doveva essere molto più articolato.

Schioccai le dita e lei aumentò il ritmo. Pianificai le mosse, le misi in ordine. Ero pronto.

E soddisfatto. Aprii gli occhi e guardai la mia consorte. Il sudore colava lungo il suo corpo, i capelli erano incollati alla testa. Il crollo fisico era imminente.

L’aiutai a scendere e la feci distendere sul parquet. Le strappai gli slip e le aprii le gambe con un gesto secco.

Martina mi accolse con gratitudine.