17
Notte e nebbia
Rosa ha consultato i medici del Kurhaus di Merano, che le hanno proposto un trattamento a base di acque radioattive. Il ritorno di Hella l’ha riempita di gioia, ma la battaglia per ottenerne il rilascio ha logorato le sue forze. La salute ne ha risentito, e i medici non sono stati troppo ottimisti: le proprietà curative delle acque del posto sono rinomate, però per il suo caso non potranno fare molto. Forse almeno nell’intellettuale e cosmopolita Merano riuscirà a distrarsi un po’ dalle sue preoccupazioni, una cura migliore di molte medicine.
Rosa si lascia alle spalle il centro termale e si avvia verso la passeggiata che costeggia il torrente Passirio. È pensierosa e inquieta. L’idea della sofferenza fisica e della malattia non le fa paura. Ma se sta male, come potrà proteggere la sua famiglia? In lontananza, sul fianco della montagna, Castel Tirolo torreggia su Merano. Per secoli ha montato la guardia alle porte della provincia, ma le sue spesse mura non possono più arginare la marea dei pericoli che incombono.
Rosa si sente chiamare da una voce cortese e si volta. «Cara signora Rizzolli, che bella sorpresa!»
Impiega qualche istante a riconoscere l’uomo distinto che l’ha appena salutata, togliendosi il cappello e chinandosi a baciarle la mano.
«Signor Katz!» si illumina poi, riconoscendo uno dei sarti più in vista della città. «Mi scusi se non l’ho salutata, ero persa nei miei pensieri.»
«Niente di grave, spero» risponde l’altro con un sorriso stanco, rimettendosi il cappello. Sotto il soprabito di loden verde porta un completo di fine lana grigia dal taglio impeccabile. Al collo ha un cravattino di seta blu.
«Be’, abbiamo avuto tempi migliori» osserva Rosa. «Lei lo sa anche meglio di me.»
Conosce Rudolf Katz da quando l’anno prima, nel 1937, ha aperto bottega nel centro di Merano e lei ha visitato il suo atelier. È stata perfino sul punto di ordinargli un abito, ma nel dubbio ha rinviato: il suo stile è un po’ troppo moderno per lei. Ammira però il suo talento e la sua serietà. Ha sentito raccontare la storia: il signor Katz, tedesco di origini ebraiche, ha abbandonato la Germania per sfuggire ai soprusi nazisti. Come decine di perseguitati, ha scelto Merano, luogo di ritrovo e soggiorno di intellettuali, industriali, alta borghesia di tutta Europa.
«Sbaglio o viene dal Kurhaus?» Il signor Katz le dà il braccio e riprendono la passeggiata.
«Mi sono fatta visitare per un piccolo problema» si limita a dire Rosa. «E lei che cosa mi racconta?»
«Sto rincasando, ho preso un caffè con un parente che è appena arrivato dall’America.»
«Dall’America? Alle terme di Merano?» Rosa è incuriosita, l’America le sembra irraggiungibile.
Le risponde un silenzio così lungo che quasi si sente a disagio. Getta un’occhiata di sbieco al profilo dell’uomo azzimato che le cammina accanto. È impassibile.
«Sarebbe un viaggio un po’ lungo, per una cura termale, vero?» dice infine con voce strana. «No, non è venuto per le terme, signora. È venuto a dirmi di scappare finché posso.»
Rosa rimane interdetta e si ferma di scatto. È inutile far finta di non sapere di cosa parla Katz. «Siamo già arrivati a questo punto?» domanda a mezza voce.
Ha letto sui giornali che i fascisti, come i nazisti tre anni prima, hanno fatto dell’antisemitismo una legge. La stampa, sempre più assoggettata, decanta come progressi della civiltà le nuove discriminazioni ai danni degli ebrei. Tutto intorno a lei, perfino in casa sua a Pinzon, le persone discutono e si accapigliano. I pareri sono discordi: c’è chi approva e chi nutre riserve. Negli ultimi tempi la sua attenzione è stata monopolizzata dalla battaglia per la liberazione di Hella ed è così stanca che fa fatica a seguire tutto quello che succede. Ma gli articoli sui disordini della notte tra il 9 e il 10 novembre hanno spaventato anche lei.
Disordini antiebraici in Germania come rappresaglia per l’assassinio del diplomatico Vom Rath titolava il «Dolomiten» il 12 novembre. A quanto pareva, l’omicidio a Parigi del diplomatico nazista, da parte di un giovane ebreo polacco di nome Herschel Grynzspan, aveva scatenato nella notte tra il 9 e il 10 novembre manifestazioni di massa e violenze contro gli ebrei. Per fortuna Josef Goebbels, il ministro della Propaganda tedesco, aveva diramato subito un comunicato per fermare i disordini, non solo in tutta la Germania, ma anche in Austria. È questo che le ha fatto più male: Innsbruck, la sua Vienna, non vuole immaginarle come teatro di scontri simili. I familiari per fortuna stanno tutti bene, ma un’amica le ha scritto che molti, nella capitale austriaca, pensano che sarebbe meglio se gli ebrei se ne andassero. E ora ecco che il signor Katz le dice la stessa cosa. Ma a Merano certo non ci sono problemi, non ce ne sono stati neanche a Bolzano. La strada alberata sembra riempirsi all’improvviso di ombre.
«Giudichi lei stessa.» Rudolf toglie dalla borsa di cuoio dei fogli piegati. Rosa si ritrova sotto il naso la prima pagina di un quotidiano che non conosce. La testata è in inglese: «The New York Times».
«Questo, signora Rizzolli, è il più importante giornale americano, il numero dell’11 novembre – esattamente due settimane fa. C’è scritto che cosa è successo davvero in quei giorni. Quando i nostri giornali titolavano “disordini spontanei”, e Goebbels parlava di azioni giustificate e comprensibili. Hanno assalito gli ebrei in ogni città, ne hanno uccisi a decine. Hanno saccheggiato i loro negozi, le loro case, appiccato il fuoco alle sinagoghe. Ne hanno rastrellati a migliaia per mandarli in campi di concentramento. Questi non sono disordini spontanei, è una caccia all’uomo!» Il sarto, normalmente così compunto, sembra un altro, il viso acceso di collera e paura.
«Ma perché?» Rosa fissa i grossi caratteri neri dei titoli, incomprensibili nella lingua straniera. Si rende conto che di fronte agli orrori che le racconta Katz dovrebbe dire di più. Ma quella domanda le viene dal cuore.
Lui cerca di calmarsi, con un respiro profondo. La signora Rizzolli, come lui, non è più giovane e non vuole turbarla. Batte un colpetto confortante sulla mano appoggiata al suo braccio.
«Mia cara signora, non c’è una vera spiegazione. Ma per gli ebrei è così da secoli, mi creda. Il problema è che nessuno, qui da noi, sa nulla. La stampa è addomesticata dal regime: chi sa tace, perché è d’accordo o per vigliaccheria. Soltanto gli stranieri capiscono davvero che cosa sta succedendo nel Reich. Il mio parente mi ha portato questa pagina per convincermi.»
«Ma anche a Vienna è stato così terribile?» non riesce a impedirsi di chiedere Rosa.
Rudolf annuisce, il viso velato da un’indicibile tristezza: «A Vienna hanno bruciato le sinagoghe. E la polizia non ha difeso gli ebrei, anzi ha dato manforte agli assalitori».
«È orribile» dice Rosa con forza.
«Anche in Italia gli ebrei rischiano grosso.» Katz scuote la testa.
«Per via dei fascisti? Ho saputo delle nuove leggi che hanno promulgato. “Leggi per la difesa della razza” le chiamano, vero? È stato nei giorni in cui mia figlia era al confino, non ho letto bene» aggiunge quasi in tono di scusa.
Rudolf scuote la testa: «Non abbiamo più diritti. Chi è dipendente viene licenziato. Chi ha un’impresa o un’attività come la mia non può più lavorare. Le banche non ci fanno credito, ci è vietato perfino possedere beni di valore. Lo sa che adesso un ebreo non può neppure più sposare una non ebrea?».
«È vero quello che dicono? Che gli ebrei stranieri devono andarsene dall’Italia?» incalza Rosa.
«Verissimo. Hanno cominciato a farcelo capire due mesi fa, in settembre. Mussolini diceva sempre di non avere nulla contro di noi, ma ora ha dichiarato che gli ebrei non italiani hanno sei mesi per fare i bagagli e lasciare il Paese.»
«Ma lei è tedesco, e in Germania è la stessa cosa. Dove andrà?»
«Venderò il negozio e la casa. Ci rimetterò un sacco di soldi, probabilmente, ma non ho altra scelta.»
«Quel suo parente americano può aiutarla?» chiede Rosa. «Signor Katz, c’è qualcosa che posso fare?» Di fronte all’enormità della storia che il sarto le ha raccontato si sente impotente. Ma anche aiutare una sola persona sarebbe qualcosa, pensa.
Lui la guarda con uno stupore che le sembra quasi eccessivo. Poi scuote la testa.
«Non sa quanto mi fanno bene queste parole, Frau Rizzolli. Ma per ora non mi serve niente, grazie. Sono cinquant’anni che una parte della mia famiglia si è stabilita a New York. E il mio parente...» Rudolf si guarda rapidamente attorno: «Lui è membro di un’associazione che aiuta gli ebrei a lasciare l’Europa. In qualche modo faremo».
Tra i due scende il silenzio. Quell’ultimo incontro è finito. Rudolf Katz si solleva nuovamente il cappello e si congeda da Rosa. Lei gli tende la mano, e il sarto la tiene per qualche istante tra le sue. «Mi sento vecchio, sono stanco di scappare» le confida. «Se fosse soltanto per me, resterei qui. Mi affiderei alla misericordia di Dio. Ma ho una moglie, e i miei figli hanno solo vent’anni. Devo pensare a loro.»
Rosa lo guarda allontanarsi. Per lunghi minuti rimane lì, in piedi a fissare la corrente del Passirio. Si sente pervadere da una stanchezza sconfinata.
«Cos’altro deve ancora succedere?» si domanda, avviandosi verso la stazione di Merano.
L’incontro tra Rosa e il sarto Rudolf Katz è finzione narrativa, i fatti raccontati nel loro dialogo purtroppo no. Gli atti di violenza ai danni degli ebrei del 10 novembre 1938 passeranno alla storia con il nome di «notte dei cristalli», Kristallnacht. L’allusione è al lugubre fracasso dei vetri infranti che per ore ha riempito le strade delle città tedesche, mentre le squadracce naziste sfondavano vetrine e finestre. L’articolo del «Dolomiten» del 12 novembre, che Rosa potrebbe aver letto, cita come fonte il «Volksbote» del giorno 10. E recita:
In tutto il Paese si è scatenata una tempesta di odio antiebraico, e in quasi tutte le grandi città si sono tenute manifestazioni di massa contro gli ebrei.
Per le strade di Berlino si sono osservati grossi assembramenti già dopo la mezzanotte. Tra le 4 e le 5 antimeridiane hanno avuto inizio gli assalti più violenti ai danni degli edifici e dei negozi di proprietà di ebrei. Nella mattinata è divampato un incendio nella principale sinagoga della capitale tedesca, quella della Fasanenstrasse, e un secondo incendio nella nuova sinagoga di Prinzregentenstrasse, ancora più grande e spaziosa. Nove delle dodici sinagoghe berlinesi sono state date alle fiamme. I vigili del fuoco sono dovuti intervenire per porre fine al dilagare degli incendi dolosi.
Le vetrine di alcuni negozi di proprietà di ebrei sono state distrutte. Le forze dell’ordine hanno dovuto arrestare in via precauzionale diversi ebrei, per proteggerli dalla furia della folla inferocita.
A Lipsia è stato incendiato un magazzino di sartoria di proprietà di un ebreo. Si è poi saputo che il fuoco è stato appiccato dal proprietario stesso, che sperava così di incassare i danni dell’assicurazione. L’uomo è stato arrestato, e soltanto il pronto intervento dei vigili del fuoco ha impedito all’incendio di propagarsi agli edifici vicini.
Anche in altre città tedesche, tra l’altro a Monaco e a Costanza, sono bruciate sinagoghe.
Alle ore 17:00 è stato diffuso il seguente appello del ministro della Propaganda, dottor Goebbels: «Questa notte la giusta e comprensibile indignazione del popolo tedesco nei confronti del vile sicario ebreo, macchiatosi dell’assassinio di un diplomatico tedesco a Parigi, ha trovato sfogo in vari modi. In molte città e in diversi centri del Reich si sono verificate azioni di rappresaglia contro edifici e negozi di proprietà di ebrei. Da oggi, però, l’intera popolazione ha l’ordine categorico di desistere immediatamente da ulteriori iniziative dimostrative di qualunque natura ai danni degli ebrei. La risposta definitiva all’attentato ebraico di Parigi giungerà per via di legge, sotto forma di speciali restrizioni imposte agli ebrei».
Una di queste restrizioni sarà il divieto di portare armi da fuoco, l’infrazione è punibile con vent’anni di carcere. Il giorno dopo, in una grande manifestazione antisemita sulle gradinate del circo Krone a Monaco, prenderà la parola davanti a cinquantamila persone il Gauleiter Adolf Wagner. Il discorso viene trasmesso mediante altoparlanti anche in una ventina di birrerie della città, stipate di gente. Riporta sempre il «Dolomiten» del 12 novembre:
Il discorso del Gauleiter bavarese è stato interrotto quasi in continuazione da urla e insulti all’indirizzo degli ebrei. Tutte le sue dichiarazioni, in compenso, sono state accolte da lunghe ovazioni, soprattutto quando il Gauleiter ha affermato che il popolo tedesco deve risolvere una volta per tutte il problema degli ebrei. [...] La lotta contro gli ebrei avrà fine soltanto con il loro definitivo annientamento, ha concluso il Gauleiter.
Ho cercato anche l’articolo del corrispondente del «New York Times» a Berlino, Otto Tolischus. La Germania e l’Europa, scriveva il giornalista, non assistevano a simili manifestazioni di violenza dai tempi della rivoluzione bolscevica del 1917. Solo a distanza di molti anni sarebbe stato tentato un bilancio di quella furia devastatrice. Duecento sinagoghe date alle fiamme in tutta la Germania, migliaia di botteghe distrutte, un centinaio di ebrei uccisi e 30.000 arrestati e internati in campi di prigionia. Sarebbero poi stati man mano liberati, ma circa 2000 morirono per le percosse e le privazioni.
Quella tempesta omicida voluta da Hitler ha segnato un punto di svolta nella storia dell’antisemitismo tedesco: da quel momento la caccia agli ebrei sarebbe proseguita alla luce del sole, senza alcuna misura o ritegno. Anzi, sarebbe diventata la politica ufficiale e conclamata dello Stato nazista. I fatti di quelle giornate di novembre preludevano all’annientamento sistematico degli ebrei europei, che qualche anno più tardi sarebbe stato disposto dalle autorità del Reich. Lo sterminio programmato di un intero popolo. È facile oggi dirsi che i fatti parlavano chiaro, che era impossibile nutrire ancora illusioni sulla bestialità del regime hitleriano. Eppure i governi di tutto il mondo stavano mostrando la stessa cecità. Poche settimane prima, alla conferenza di Monaco, l’Europa aveva chiuso gli occhi sull’annessione dei Sudeti. Ora, il primo atto di una tragedia che culminerà nell’Olocausto lasciava indifferente l’opinione pubblica.
Sempre la prima pagina del «Dolomiten» del 12 novembre, accanto all’articolo sulle violenze in Germania e a uno che riportava i dettagli delle nuove Leggi per la difesa della razza, aggiungeva un trafiletto molto rivelatore: Attenzione agli ebrei che si mimetizzano!, era il titolo.
Riceviamo notizia da Roma che diversi negozianti e industriali ebrei stanno sostituendo le insegne delle loro attività con insegne nuove dal suono italiano, per camuffare la loro appartenenza alla razza ebraica, spesso servendosi di ariani poveri come prestanome. La stampa romana stigmatizza il comportamento degli elementi ariani che si prestano a questi turpi maneggi.
Ho incontrato a Merano Federico Steinhaus, ex presidente della comunità ebraica cittadina. Suo padre Carlo, cartolaio viennese di origini boeme, aveva aperto bottega nella città termale nel 1908, ma nel 1939, proprio come Rudolf Katz, fu costretto a cessare l’attività. La licenza gli fu ritirata nel mese di giugno per decreto della giunta comunale fascista. Carlo Steinhaus fu internato in un campo di prigionia in provincia di Potenza e poi trasferito a Crotone nel 1943. Qui riuscì a fuggire, e si nascose in un villaggio di montagna fino alla fine della guerra.
Il presidente Steinhaus è la nostra guida d’eccezione nella mostra a Castel Tirolo che, in quest’estate 2012, commemora le vittime meranesi della persecuzione antisemita. Mentre lo seguo lungo i camminamenti di pietra e di legno che hanno resistito ai secoli, mi spiega che gli ebrei di Merano avevano capito subito, fin dalla promulgazione delle leggi razziali del 1938, che le autorità fasciste avrebbero reso loro la vita impossibile. Eppure la città, dove la prima sinagoga era stata inaugurata nel 1901, era considerata un’oasi di tolleranza. Merano era un centro di cure termali, di turismo, di villeggianti, dove esercitavano medici ebrei e circolava tutto l’anno una clientela internazionale. Da sempre vi abitava una nutrita comunità che aveva contribuito al successo e alla fama della cittadina, costruendo impianti e strutture turistiche per sfruttare le proprietà curative delle acque. Alla fine degli anni Trenta erano circa 900 gli ebrei di Merano, dottori, commercianti, un noto banchiere di nome Baderman, e albergatori nei cui fastosi esercizi si dava appuntamento l’intellighenzia culturale d’Europa.
Il primo avvertimento era giunto il 14 luglio 1938, quando l’organo ufficiale del regime, il «Giornale d’Italia», aveva pubblicato il Manifesto della razza, un documento in dieci punti firmato da scienziati italiani. Il principio numero 9 recitava: «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana». Poi, in settembre, erano stati annunciati decreti antiebraici, in particolare il n° 1381, che disponeva l’espulsione degli ebrei non italiani. Gli «stranieri» avevano sei mesi per andarsene. Sei mesi che sarebbero diventati 48 ore in Sudtirolo ai primi del 1939, quando venne adottato un regolamento speciale.
Quell’improvvisa svolta colse di sorpresa una comunità con la quale la storia era sempre stata più clemente che altrove. La dinastia degli Asburgo si era mostrata tollerante nei confronti degli ebrei, molti dei quali erano caduti per l’imperatore ai tempi della Prima guerra mondiale. Anche il Regno d’Italia era un’oasi felice. Gli ebrei, circa 60.000 secondo il censimento dell’agosto 1938, erano perfettamente integrati nel tessuto sociale. Il numero di matrimoni interconfessionali era relativamente elevato.
Per gli ebrei di Merano le cose erano cambiate più che per altri correligionari, quando il nazionalsocialismo aveva iniziato a prendere piede in Germania e Hitler era salito al potere nel 1933. Gli statuti delle prime cellule filonaziste, mi spiega il presidente Steinhaus, «non prevedevano l’antisemitismo organizzato. L’ostilità contro gli ebrei era circoscritta a singoli casi individuali». La regione, tuttavia, si sarebbe rivelata terreno fertile per l’antisemitismo. Non ultimo perché la Chiesa cattolica, al cui interno operava una fronda antigiudaica, era da sempre l’istituzione più influente in Sudtirolo. Steinhaus mi conferma inoltre che era stata una combinazione di fattori come l’antifascismo, la nostalgia per l’Impero austroungarico e un certo nazionalismo germanico a coinvolgere la popolazione nell’ideologia nazista. «La popolazione non ha subito preso coscienza della dimensione antisemita del nazismo, e lo ha assimilato in blocco. Non è stato l’antisemitismo a indurre la popolazione ad avvicinarsi al nazismo, ma viceversa: l’antisemitismo è stato una conseguenza. Resta il fatto che la popolazione locale è stata complice, e dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 alcuni hanno collaborato attivamente alle deportazioni.»
Furono un centinaio gli ebrei deportati dalla regione Trentino-Alto Adige, la metà morti in campi di concentramento. Tredici furono uccisi nel «campo di transito» di Bolzano, attivo dall’estate del 1944 fino alla fine della guerra.