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La morte di un patriarca

È un sabato pomeriggio tra i più gelidi ma Rosa è al caldo nella grande stanza dell’hotel Greif. È venuta a Bolzano a incontrare una cara amica, che non vede da tempo, e ne hanno approfittato per rimettersi un po’ al passo con la moda. Da un paio d’ore, nella camera si avvicendano modiste, guantai, persino un gioielliere. Sul tavolino tra le due giovani donne ci sono due tazze di tè fumante e un vassoio di biscotti secchi, e hanno già sfogliato riviste e volumi illustrati che ora giacciono aperti tutt’attorno. Rosa ha ammirato in particolare le stoffe, gli oggetti e le tappezzerie della Wiener Werkstätte, fondata solo l’anno prima e già di grande successo nel diffondere il nuovo stile viennese, coi suoi fiori stilizzati e le sue geometrie.

Ora è il turno della sarta, che distende davanti a loro pezze di raso, seta, taffetà. Jakob vuole regalarle un vestito nuovo. Uno elegante, per i giorni di festa, ha detto. Hanno avuto un’estate difficile, la loro primogenita Elsa in agosto si è ammalata, vomito e diarrea così forti che i molti medici consultati avevano perso ogni speranza. Quanto hanno pregato i genitori, al suo capezzale, mentre la bambina giaceva priva di conoscenza. Ma è guarita. Superata quella prova, e al termine di un autunno che ha dato buoni raccolti, Jakob ha deciso di festeggiare e di viziare un po’ la moglie. Ha voluto a tutti i costi che lo accompagnasse a Bolzano, quel sabato.

Rosa ha accettato con piacere, anche se non è proprio il mese migliore per comprare abiti. È di nuovo incinta e per ora non potrà fare molto più che scegliere la stoffa. Ma ripensa al raso azzurro del vestito di sua madre Anna: ora anche lei ha due bambine, che presto si aggrapperanno alla sua gonna. E chissà che quello che porta in grembo non sia l’agognato erede? Le gravidanze in rapida successione hanno cambiato un po’ la sua figura, sempre alta ed elegante ma che si avvia a diventare più piena. Vuole anche lei un bel raso pesante, la sarta gliene ha mostrato uno che farà risaltare i suoi occhi azzurri, è color tortora con inserti di seta. Piacevolmente incerta tra un modello dal collo alto in pizzo e uno con un mezzo strascico, certo meno pratico, comincia con la sua amica una conversazione che annoierebbe profondamente suo marito.

Jakob come ogni sabato si trova al Caffè Kusseth in Musterplatz, dove gli uomini si riuniscono per parlare degli affari della comunità e si concedono qualche mano di tarocchi. Non si sente ancora completamente a suo agio in questa casta chiusa di possidenti che si conoscono da sempre e le cui famiglie sono tutte imparentate. E gli sembra di avvertire la presenza severa del suocero anche quando Johann non c’è. Ma fa del suo meglio per partecipare e per apprendere, e il suo carattere allegro e aperto lo fa benvolere. Più tardi si riunirà alla moglie nella sala da tè del Greif, davanti a una fetta di Apfelstrudel.

Le due amiche stanno aspettando di essere servite quando, tra i giornali messi a disposizione dei clienti, lo sguardo di Rosa cade su una rivista settimanale italiana che normalmente non vede in giro, la «Domenica del Corriere». Strano, trovarla lì. La prende in mano con una certa titubanza, attratta dall’immagine a colori che occupa tutta la copertina: uomini che se le danno di santa ragione in una piazza di Innsbruck, con i bastoni alzati, pronti a colpire. Sullo sfondo del disegno, si intravede qualche poliziotto, gli altri devono essere studenti. Ripone il giornale, turbata da quella illustrazione che racconta più di un intero articolo. Ne leggerà molti, sui disordini all’università di Innsbruck.

 

 

Gli studenti protagonisti di quei tristi fatti di cronaca sono quasi coetanei di Rosa. Vengono dal Trentino, molti proprio dal capoluogo, dove è attiva la Società degli studenti trentini, fondata dal concittadino Cesare Battisti. A lui fa riferimento la corrente socialista, mentre quella cristiana ha come leader Alcide De Gasperi. Lo stesso De Gasperi che diventerà il capo della Democrazia cristiana dell’Italia liberata dal fascismo sedeva, a inizio secolo, nel Parlamento viennese. Perché anche lui, come Rosa Tiefenthaler, era nato austriaco.

Con il passaggio all’Italia del Lombardo-Veneto l’Impero ha perso anche le università di Padova e Pavia, i giovani di etnia italiana non hanno più la possibilità di studiare nella loro lingua, e chiedono di poterlo fare. Non pretendono di staccarsi dall’Austria-Ungheria né di annettersi all’Italia: nonostante la crisi e le guerre, l’Impero degli Asburgo ha un’economia più sviluppata rispetto al Regno dei Savoia. Le minoranze etniche sono rispettate, soprattutto quella italiana che fornisce la maggioranza dei marinai alle navi del Kaiser. E infine per i devoti e cattolici cittadini tirolesi la monarchia italiana, in conflitto col papato, appare troppo laica e anticlericale. Però i trentini italiani vogliono l’autonomia culturale. Si chiedono perché la lingua che parlano a casa non debba essere quella in cui studiano. Un decennio più tardi, la Storia riproporrà l’identico problema per il tedesco, nel Sudtirolo conquistato dall’Italia.

Dopo il 1890 nell’ateneo di Innsbruck sono stati istituiti corsi paralleli in italiano, ma le concessioni non sono andate oltre. Vienna dà risposte ambigue alle istanze autonomiste dei trentini, accorda qualche vantaggio ma mai abbastanza, risveglia le speranze per poi frustrarle. Finalmente, nel 1904, si decide di istituire una facoltà di giurisprudenza italiana provvisoria a Wilten, un quartiere a sud di Innsbruck. E le tensioni esplodono. Gli studenti di etnia tedesca rifiutano questa soluzione, che ritengono una minaccia alla loro identità culturale. Le piccole zuffe dei mesi precedenti tra i diversi gruppi diventano scontro aperto.

Il 3 novembre 1904, il giorno dell’inaugurazione, centinaia di studenti italiani accorrono a Wilten. Quando arrivano, trovano ad aspettarli i nazionalisti tedeschi che non hanno alcuna intenzione di accettare il fatto compiuto. Ci sono anche semplici cittadini, una folla, non si riesce a contarli. I capi del movimento italiano si avvicinano per parlare ma non è aria per trattative: in un attimo la situazione degenera. Qualcuno addirittura spara, gli italiani sono in minoranza, forse meno preparati. Hanno rapidamente la peggio ma interviene l’esercito per fermare le violenze. Rimane sul terreno un pittore ladino ucciso, vengono arrestati 138 italiani fra cui tutta l’élite intellettuale trentina e triestina: da Cesare Battisti ad Alcide De Gasperi, da Mario Magnago a Mario Scotoni. È una débâcle totale: a Vienna prendono atto che non è possibile istituire un’università italiana a Innsbruck, e la chiudono.

Questi due giorni di scontri passano alla storia come «i fatti di Innsbruck». Non è un buon inizio per il nuovo secolo, destinato infatti a far esplodere gli estremismi nazionalistici.

 

 

Nel primo decennio del Novecento gli episodi di violenza aumentano.

Nel 1906 Ettore Tolomei, un Welscher di Rovereto, si trasferisce a Glen, poco sopra Pinzon. Ha già fatto parlare di sé: è di nazionalità austriaca ma è un irredentista italiano. Già da un paio d’anni è protagonista di azioni dimostrative, come la scalata della cima Glockenkarkopf, nella valle Aurina. Ha voluto ribattezzare la montagna «Vetta d’Italia». Nel dibattito sui confini naturali dell’Italia, è considerata il punto più a nord del Paese e ha quindi un alto valore simbolico. Il problema è solo in apparenza ideologico, in realtà è geostrategico: le Alpi sono considerate dallo Stato italiano la barriera naturale ideale tra sé e l’Impero austroungarico.

Dieci anni prima Tolomei ha fondato la «Nazione italiana», una rivista che, per sua stessa definizione, è «un organo di lotta per l’italianità oltre confine». Comincia a disegnare mappe che dovrebbero dimostrare, partendo da basi storiche e scientifiche a dir poco discutibili, che la zona fra Merano e Bolzano è mezza italiana, mentre quella fra Bolzano e Salurn è italiana al cento per cento. Conia per il Sudtirolo il nome di Alto Adige, riprendendo una definizione di epoca napoleonica.

Un pomeriggio Johann Tiefenthaler e Tolomei si incontrano a Neumarkt. Il nuovo arrivato vuole acquistare il maso Thalerhof, adiacente a un terreno che è già suo, ereditato dai nonni. La trattativa sarà dura, Johann è un uomo d’affari accorto. È più anziano e più esperto e per di più questo giovanotto con la barbetta a punta, baffi curatissimi e piccoli occhi penetranti non gli sta affatto simpatico.

Tolomei nelle sue memorie liquida l’episodio in tono assai poco rispettoso: «Il precedente proprietario, Tiefenthaler, aveva una sua villa, adorna di gran bestie in gesso, dipinte, di sua mano e di suo gusto. Quest’originale vecchietto venne poi ad un appuntamento a Egna, dove al tavolo dell’osteria si conchiuse. Rammento: era il tempo che s’agitava paurosamente il mondo slavo, le stragi a Pietroburgo; gli studenti italiani tumultuavano per l’Università italiana a Trieste; l’Austria l’avrebbe concessa a Rovereto, a Trieste no. Rovereto aveva opposto il suo nobile rifiuto. Trieste o nulla! Se ne parlò all’osteria; il vecchietto tedesco si inquietava: Triest o gnent? Triest o gnent?».

Tolomei, nel giorno del suo trasferimento al maso di Glen scrive: «L’oscura impresa comincia». Perché «oscura»? Il suo scopo sembra al contrario chiarissimo: «restituire» la regione all’Italia. E si rivela bravo a farsi notare: oltre alla rivista, organizza comizi in piazza e a teatro. I cittadini di Neumarkt si fermano ad ascoltarlo perplessi e nervosi mentre grida che quella zona è sempre stata italiana, fin dai tempi dei Romani, come dimostra la stessa presenza della lingua ladina. Con il passare degli anni la sua propaganda si fa più accesa e non di rado ai comizi deve intervenire la polizia, per evitare violenze.

Rosa e Jakob si imbattono spesso in Tolomei, il cui maso è a meno di mezz’ora di cammino da casa loro. Non è certo il vicino preferito: le sue urla, i suoi proclami li infastidiscono e insieme li allarmano. Nel clima sempre più teso temono per la sicurezza della famiglia, per gli affari, che in tempi di instabilità politica non prosperano mai.

E i tempi che si preparano saranno molto più che instabili.

 

28 agosto 1907
 
Dall’ultima volta che ho chiuso questo libro ho dovuto affrontare un dolore immenso e la mia mano trema mentre scrivo.

 

Rosa appoggia la penna. Questa pagina è davvero difficile e prima di proseguire cerca conforto in quelle precedenti. Le sue stesse parole le ricordano i momenti di felicità che si sono susseguiti dal matrimonio con Jakob. «Pinzon, 22 marzo 1903» legge. «Dal 16 febbraio sono madre felice di una piccola e sana bambina.» La primogenita, Elisabeth Aloisa, che verrà sempre chiamata Elsa. Rosa ricorda l’emozione e i timori di allora, ma tutto è andato bene e meno di un anno dopo, il 28 febbraio 1904, ha potuto scrivere di un altro lieto evento. La sua seconda figlia, Auguste, è arrivata il 9 con la neve sui tetti e il buio dell’inverno. A parte la stanchezza, nota, dalla pagina traspare un po’ di rammarico: «Benché avremmo preferito un maschio, ringraziamo immensamente il buon Dio per questa piccola figlia nata sana».

Un matrimonio senza figli, ne è convinta, è come un mondo senza sole. Ma l’astro più splendente sono i figli maschi che portano avanti il nome della stirpe, proteggono la casa e si occupano degli affari. Però esattamente un anno dopo, nel 1905, arriva un’altra delusione. «Dall’11 febbraio» legge Rosa «sono madre del mio terzo figlio», «l’erede non è arrivato, neanche questa volta: un’altra bambina, minuta e sorridente.» La chiamerà Maria, detta Mariedl. L’annotazione che segue è ironica: «Se la benedizione che sono i figli prosegue in questo modo, ne avremo presto dodici e, con un numero così, arriverà bene anche un maschio!».

Non è stato necessario arrivare a dodici: è bastato pazientare poco più di un anno.

«Il 18 marzo, alle 11 del mattino, nell’ora in cui gli uomini si ritrovano dopo la messa per bere un bicchiere di vino, come da usanza, il nostro erede tanto atteso è arrivato.» Rosa ricorda l’enorme sollievo, l’orgoglio di aver donato a suo marito ciò che attendeva da lei: un maschio. «Un bel bambino magro.» Un piccolo Josef-Johann. «La gioia di tale momento è pressoché impossibile da descrivere» aveva commentato allora. «Anche la mia beneamata sorella Luise risplendeva di gioia tenendo tra le braccia questo giovane guerriero.» Il più felice di tutti era Johann Tiefenthaler, il patriarca. Si avvicinava agli ottant’anni, sapeva che il tempo che gli restava da vivere non era molto, e aveva sofferto sulla sua pelle la fragilità della esistenza umana. Luise aveva già dei figli maschi, certo, ma solo un bambino di Rosa poteva essere la garanzia che le terre di Pinzon non sarebbero state divise. Un maschio, che le tradizioni e la legge designavano come erede primo e unico delle proprietà, era la sola sicurezza.

Quattro figli in quattro anni. Poco dopo quest’ultimo parto, Rosa ha avuto un’infiammazione delle ghiandole mammarie. I medici le hanno consigliato un soggiorno termale poco più a nord, nei pressi del Brennero. Acque note da secoli per le proprietà curative sgorgano dal sottosuolo delle montagne nei dintorni. Rosa ricorda la sua infelicità nel dover partire, abbandonare anche solo per una manciata di giorni la sua piccola famiglia: «Che gli angeli del cielo facciano in modo che coloro che mi amano mi proteggano e mi facciano tornare presto a casa» scriveva allora. Il soggiorno di due settimane alle terme non è stato certo una vacanza.

Le lacrime velano le ultime parole che legge, la pagina del dicembre 1906, di nuovo piena di serenità. «La vita è un sogno che passa davanti ai nostri occhi senza che ce ne rendiamo veramente conto. Il tempo procede veloce, con passi da gigante, ed eccoci di già alla fine dell’anno. Sono felice di potermi lasciare alle spalle gli ultimi dodici mesi. Che la mano di Dio ci guidi e ci faccia sempre accettare la sua volontà con pazienza.»

La vita è un sogno e i sogni finiscono.

Rosa appoggia di nuovo la penna sul foglio. E scrive:

 

Il 10 giugno ho partorito una bambina sana, che il giorno successivo è stata battezzata con il nome di Berta Johanna dal reverendo parroco Andrealta. Mia sorella Luise le ha fatto da madrina.
Il mio amatissimo padre è venuto alla cerimonia da Kalditsch, dove passava l’estate, sebbene non stesse bene da parecchio tempo. Nessuno immaginava però che la Morte gli stava già battendo la mano sulla spalla. Il 17 del mese, quando ha deciso di tornare a Entiklar, il buon vecchio è riuscito ad arrivare solo fino all’hotel Bahnhof e ha dovuto fermarsi lì. L’uomo propone e Dio dispone!
Verso le 7 di sera è arrivato un telegramma, diceva che papà era in punto di morte. L’ansia che mi ha preso al pensiero della cosa terribile che stava per accadere è indescrivibile.
Accompagnata dal mio caro sposo, tenendomi in piedi come meglio potevo, sono andata almeno a vedere per l’ultima volta colui che mi era tanto caro e affezionato. Al suo capezzale c’erano mia sorella Gusti e un mio cognato, il dottor Sembianti, e gli asciugavano le gocce di sudore freddo. La mano che il mio buon padre mi ha subito teso in segno di saluto aveva già il colore della morte. Com’è stato difficile sentirgli pronunciare quelle parole: «Figliola cara, entro mezzanotte sarò morto». Ha voluto un prete e ha ordinato di portarlo a Entiklar, dove a mezzanotte in punto si è abbandonato al sonno eterno.
Il povero cuore stanco, già tanto provato, aveva smesso di combattere. Noi abbiamo perso il nostro più grande benefattore e consigliere. Le sue proprietà e i capolavori che ha creato sono muti e inconsolabili e sono in lutto per il loro padrone. Ah, come spesso arriva in fretta la fine della vita, la morte giunge imprevista di giorno o di notte.
Il martedì, come lui aveva chiesto, il caro corpo è stato portato a Pinzon, nel luogo che lui stesso aveva scelto per il suo riposo eterno.

 

Morendo, Johann lascia un patrimonio che negli anni, tra eredità e acquisizioni, è divenuto uno dei più floridi della regione. Ma non lascia eredi maschi.

Il Sudtirolo dei suoi tempi è una società estremamente conservatrice, per alcuni aspetti quasi feudale, in cui il dominio degli uomini è la regola. Rosa è una donna di carattere e capace di ribellione, come dimostra la storia del suo matrimonio. Ma è figlia di quel mondo e non mette certo in discussione l’ordine costituito, che considera come lo stato naturale delle cose. Bisognerà attendere altre generazioni di donne perché si cominci a considerare il sistema di successione tramandato nei secoli come un’ingiustizia, e perché lo si modifichi.

Il cosiddetto istituto del «maso chiuso» affonda le sue radici addirittura negli insediamenti germanici del VI secolo, anche se ha avuto una codifica giuridica solo sotto l’imperatrice Maria Teresa, nel 1775. È la regola per cui tutte le proprietà di una famiglia vengono ereditate da uno solo dei figli. In genere si tratta del maschio primogenito, ma il possidente può designarne anche uno diverso. A tutti gli altri spetterà una compensazione in denaro, che spesso viene rateizzata in modo da non pesare troppo sulle finanze dell’erede. Inutile dire che le donne non sono considerate, salvo estreme emergenze, e anche in quel caso è naturale pensare che sarà il marito a occuparsi effettivamente della proprietà.

Da ragazza trovavo mostruosa questa regola. Mi sembrava una delle manifestazioni peggiori del mio Sudtirolo maschilista e ultraconservatore. Col tempo ho dovuto comprenderne la logica. Capisco che, soprattutto con famiglie numerose come quelle di una volta, una successione alla pari di molti discendenti avrebbe significato suddividere i possedimenti in appezzamenti sempre più piccoli. Alla fine nessuno avrebbe potuto vivere dei proventi delle proprie terre. Tanto è vero che quando, sotto il fascismo, si imporrà la legge di successione italiana, verrà vista come l’ennesimo attentato alle tradizioni e alla prosperità del Sudtirolo.

La cosa più preziosa nella mia terra è la terra, questo non si discute. Persino mio padre, certo non un conservatore, ha voluto lasciare a ciascuno dei suoi tre figli un piccolo podere di famiglia. Il mio è un meleto. Abito a Roma, ho sposato un francese, giro il mondo per professione e passione, ma ho un fazzoletto di terra tra le montagne che conserva un pezzo delle mie radici.

Eredità
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