6

Una donna nella tempesta

Rosa guarda Jakob, in piedi di fronte a un alto specchio che ha fatto portare in camera da letto. Il marito è quasi irriconoscibile, anche lui sta scoprendo un nuovo se stesso. I loro sguardi si incontrano nel riflesso e Rosa legge nei suoi occhi una domanda silenziosa.

«Sei molto bello» dice infine.

Jakob non risponde. Osserva l’uniforme che ha appena indossato e che un sarto ha rifinito perché cada alla perfezione sulle sue forti spalle. La giacca abbottonata fino al collo è azzurra, con i pantaloni nello stesso tessuto e una fusciacca in vita. Il berretto piatto con la visiera getta un’ombra sul suo bel viso risoluto.

«Sarà una cosa rapida, vedrai» dice. «L’imperatore ha bravi generali.»

«Sei padre di famiglia, non andrai al fronte» lo rassicura Rosa, e sta in realtà rassicurando se stessa.

«Farò il mio dovere» ribatte Jakob secco, girandosi. Per una volta il suo famoso sorriso fatica ad accendersi. Non ama l’idea di dover abbandonare la moglie, i figli e questa casa che è divenuta la sua. Non è un uomo d’avventura e non ha mai preteso di esserlo. E a questo punto della sua vita, sente che il suo destino prende una piega imprevista.

Il marito di Rosa ha quarant’anni e parte per la guerra, alla fine di luglio del 1914. Al pari di centinaia di migliaia di sudditi dell’Impero austroungarico, la patria lo chiama a combattere. Altrove in Europa, in Germania, in Russia, in Francia, in Inghilterra milioni di uomini stanno compiendo i suoi stessi gesti di preparazione e di saluto.

«Cosa dirai ai bambini?» si preoccupa Jakob. La maggiore, Elsa, ha undici anni e Berta, la più piccola, sette.

«Dirò loro la verità» risponde lei. «E poi non sarai lontano, vai a Bolzano, sarai qui spesso in permesso.»

Lo abbraccia. Nell’intimità della loro stanza, stringe a sé l’uomo con il quale da oltre dodici anni condivide ogni istante della sua vita. Ama la sua forza e questo abbandono che le fa sciogliere il cuore. Jakob avverte la sua angoscia e le sussurra all’orecchio: «Ti amo».

Quando la coppia giunge alla stazione di Neumarkt, i treni stanno per partire. Il fumo delle locomotive offusca l’orizzonte e i fischi del vapore riempiono l’aria. I soldati salutano le loro famiglie sporgendosi dai finestrini dei convogli.

Qualcuno grida a pieni polmoni: «Tutti al fronte!». Sulle banchine le mogli piangono, fazzoletto alla mano. Qualche bambino corre contagiato dall’agitazione degli adulti. Attorno a ogni treno gruppi di persone passano ai soldati formaggi, salami, bottiglie di vino. Jakob resta un istante in piedi sul predellino del vagone che lo porta con sé. Rosa gli manda un bacio. Suo marito è partito.

 

 

Tutto ha avuto inizio alla fine del mese di giugno, e gli eventi sono precipitati molto rapidamente. Come se nessuno desiderasse davvero evitare la tragedia. Dopo il suo viaggio a Innsbruck, Rosa è diventata una lettrice ancora più accanita di giornali e riviste. Fa rilegare e conserva i numeri del «Tiroler Stimmen», che la posta le recapita a casa.

È lì, sulla prima pagina del 29 giugno 1914, che ha letto con terrore di quanto accaduto nella città di Sarajevo. L’arciduca austriaco Francesco Ferdinando è stato assassinato. Lui e la moglie Sofia sono stati uccisi a colpi di pistola mentre attraversavano in auto la città della Bosnia Erzegovina. È stato immediatamente arrestato un uomo, un certo Gavrilo Princip. Rosa è rimasta colpita dalla sua giovane età: non ha ancora vent’anni, e già è animato da un così cruento fanatismo. Princip ha confessato il crimine, dicendo di aver agito per l’unità della Jugoslavia e l’indipendenza dall’Impero. Secondo un articolo del «Tiroler Stimmen», però, Princip e i suoi complici erano al soldo dei servizi segreti del regno serbo. Belgrado infatti aveva contestato apertamente l’annessione della Bosnia Erzegovina del 1908 da parte dell’Austria. E rivendicava il controllo di questa provincia in nome dell’unificazione delle nazioni balcaniche.

Nelle settimane dopo l’attentato di Sarajevo, tutte le mattine Rosa si precipitava sul giornale appena arrivava. Con i parenti e gli amici in visita a Pinzon ormai si parlava solo di politica.

«L’imperatore deve lavare questo insulto nel sangue, e farla pagare ai serbi!» dicevano alcuni.

«Non può muoversi senza il consenso della Germania, o si immischieranno i russi» sostenevano altri.

«Berlino accetterà di buon grado! I tedeschi vogliono farla finita con francesi e inglesi.»

«L’Inghilterra aspetta solo il pretesto per sbarazzarsi della Kriegsmarine che minaccia il suo Impero.»

Ma come si fa a parlare di guerra?, si chiedeva Rosa, l’Europa è in pace da così tanto tempo. Vedeva bene che questo dramma li riguardava tutti molto da vicino, e voleva capire cosa sarebbe successo a questo continente che stava passando di crisi in crisi. In particolare nei Balcani, dove confliggevano gli interessi di Vienna, di Mosca e dell’Impero ottomano. Per settimane Rosa si è chinata sull’atlante alla ricerca dei popoli e delle nazioni che man mano divenivano fondamentali: Bulgaria, Macedonia, Albania.

Poi le ipotesi disegnate nei dibattiti delle calde serate di luglio sono diventate minacciosa realtà. Il 24 di quel mese, il giornale ha annunciato che Vienna ha dettato un ultimatum a Belgrado. L’imperatore ha intimato ai serbi di punire essi stessi gli istigatori dell’attentato. Una richiesta impossibile da esaudire. È stato allora che Jakob ha ricevuto l’ordine di recarsi al più presto al quartiere generale di Bolzano.

 

 

Il 28 luglio 1914 l’Austria dichiara guerra alla Serbia. E quella che doveva essere una semplice operazione militare contro un vicino recalcitrante si trasforma in una guerra mondiale.

Nella piazza di Neumarkt i cittadini ascoltano il testo della dichiarazione di guerra letto dal barone Anton von Longo, il borgomastro del paese. C’è molto entusiasmo nell’aria, applausi e slogan. I giovani fremono dall’ansia di mostrare il proprio coraggio, essere uomini, difendere la patria. Inoltre, gli ultimi anni di continui scontri tra le etnie hanno esasperato gli animi e la guerra sembra ora l’unica valvola di sfogo possibile. L’unica via.

Attraverso il gioco di alleanze, sono coinvolte tutte le grandi potenze. Da un lato, l’Impero austroungarico e la Germania ai quali si uniranno gli ottomani: gli imperi centrali. Dall’altro lato, la Russia prende le parti della Serbia e le si uniscono Francia e Inghilterra: è la Triplice Intesa. Nei giorni seguenti, il fronte occidentale si infiamma e i tedeschi attaccano Belgio, Lussemburgo e Francia. Si apre anche il fronte russo e la guerra giungerà ben presto in Africa, e a oriente, nella penisola arabica e in Mesopotamia.

Il conflitto durerà più di quattro anni, mobiliterà intere generazioni di uomini, farà milioni di morti, feriti e invalidi. Devasterà economie, distruggerà i sistemi politici antichi, provocherà rivoluzioni e porterà al crollo dei quattro imperi che avevano finora dominato il mondo: l’austriaco, il tedesco, il russo e l’ottomano. E infine pianterà in Europa il seme di un odio da cui nascerà un conflitto ancora più cruento.

Il 4 agosto 1914, Rosa cerca le parole per descrivere la drammatica situazione.

 

La tanto temuta guerra mondiale è scoppiata per davvero. C’è stata la mobilitazione generale e per gli uomini coraggiosi non è più il tempo dell’attesa. Il dovere chiama, bisogna salvare l’onore del Kaiser e della patria.
«E corriam con lieta speme la battaglia a sostener.» Queste sono le parole che vogliono cantare, per annientare i nemici, per assicurare la pace e l’ordine sul territorio dell’Impero. I nostri cari fratelli e mariti combattono per una causa giusta e voglia Dio Onnipotente benedire le loro armi e distendere il suo manto protettivo sugli Asburgo. È quello che chiederemo nelle nostre preghiere, noi mogli e madri rimaste a casa afflitte dal più profondo dolore. È stato un commiato orribile e straziante: grandi e piccoli gridavano e piangevano e tenevano abbracciato stretto il loro «caro» in partenza, come se ogni cuore sanguinante presagisse ciò che il futuro tace. Anch’io sono stata colpita dallo stesso duro destino, perché anche mio marito e padre delle mie creature ha dovuto salutare moglie e figli.
È terribile come tutto adesso è vuoto, non si vede nient’altro che volti gonfi di pianto. Forse tra poche ore il mondo sarà avvolto dal fumo dei cannoni e la terra esalerà i vapori del sangue dei nostri uomini.
O guerra come sei crudele! Signore del cielo non punirci nella tua ira, manda la tua luce a rischiarare le tenebre, risparmiaci, conduci a casa vittoriosi i nostri cari affinché noi non moriamo nella tristezza!

 

Su Pinzon si è scatenato un temporale. Rosa ascolta la pioggia che batte contro i vetri. In quella sera del 20 maggio 1915 si è coricata presto, dopo il bacio della buonanotte ai suoi figli. Ringrazia Dio che la spensieratezza dell’infanzia li protegge ancora dai dolori della vita. L’esito della guerra è più incerto che mai, e lei anche stasera ha pregato davanti all’alto crocifisso della stanza perché Jakob torni a casa presto e al Kaiser sia concesso il trionfo. Non riesce a prendere sonno, la lampada è accesa accanto al suo letto e la sua mente è oppressa da un funesto presentimento: le notizie sul giornale non sono incoraggianti. Gli austriaci non hanno fatto alcun progresso contro i serbi, e sul fronte occidentale l’offensiva delle forze tedesche contro i francesi è stata bloccata. I dispacci dal fronte parlano di una guerra di posizione combattuta nelle trincee. La vittoria non sarà facile per nessuno.

Sono le undici passate quando Rosa avverte un rumore secco tra le raffiche di vento, uno schiocco, come se un’anta di legno avesse sbattuto o un ramo avesse urtato la finestra. Poi ecco di nuovo lo stesso suono. Rosa si alza a sedere sul letto, tendendo l’orecchio. Un terzo colpo. Si alza, a piedi nudi va a scostare una tenda e socchiude appena la persiana. La pioggia cade regolare e fitta, la strada è piena di pozzanghere fangose. La chiesa di Pinzon si staglia scura contro il cielo infuriato. Gli occhi di Rosa cercano nella penombra, finché all’improvviso lo vede, in piedi sul sagrato.

«Mio Dio!» si lascia sfuggire in un soffio. Poi, senza neanche indossare le pantofole, si precipita verso le scale.

In piedi nell’ingresso, la porta appena socchiusa, Rosa stringe Jakob tra le braccia senza dire una parola. L’uomo dal mantello cerato grondante di pioggia restituisce l’abbraccio a sua moglie e la bacia teneramente. Lei vorrebbe parlare, ma lui le posa l’indice sulle labbra e indica la Stube. Si richiude alle spalle la porta e ammonisce sottovoce: «Sst, non svegliamo nessuno!».

Jakob si toglie la cappa militare e posa il cappello fradicio su una sedia. Negli occhi gli danza un sorriso: «Sapevo che sarebbe bastato gettare dei sassolini contro le tue finestre. Come da tuo padre a Kalditsch, quando eravamo ragazzini!».

«Che cosa ci fai a casa? E perché così, in segreto, come un ladro? È successa qualche disgrazia?» Questo incontro nel cuore della notte le sembra uno strano sogno.

Jakob si siede al tavolo della Stube e si versa un generoso bicchierino di grappa. Rosa va a preparare un tagliere di speck e un cestino di pane nero e mesce una caraffa di vino rosso.

«Sono venuto da Bolzano a cavallo, ma l’ho lasciato a Neumarkt. L’ultimo tratto l’ho fatto a piedi tagliando per le vigne. Non volevo farmi notare» racconta Jakob con la bocca mezza piena. All’improvviso solleva la testa e tende l’orecchio.

«Ma cosa è successo?» ripete Rosa. Non è la prima volta che suo marito rientra in licenza, ma aveva sempre avvertito per tempo. Ogni volta lei riuniva i bambini per far loro intonare una canzone di benvenuto, preparava un pranzo speciale, lo accoglieva insomma con tutti gli onori.

Jakob fa per rispondere, quando un colpo lo zittisce all’improvviso. Si alza, attraversa a grandi passi il pavimento di terrazzo veneziano dell’atrio, apre il battente di legno e la sagoma di un uomo in uniforme si staglia nella cornice della porta. Fa un passo avanti e Rosa lo riconosce. Non crede ai suoi occhi. È Karl von Larcher! Il marito di sua sorella Gusti, membro dello stato maggiore dell’esercito imperiale.

«Karl, sei tu? Cosa ci fai qui?»

«Forse dovrebbe spiegarcelo tuo marito. Ho ricevuto un messaggio che mi pregava di raggiungerlo qui in gran segreto.» Le bacia la mano e poi guarda Jakob, con occhi indagatori. «Di che si tratta?»

L’orologio a pendolo segna la mezzanotte. Ha smesso di piovere, in un angolo del cielo la luna ha fatto capolino tra le nuvole e manda in terra un luccichio pallido. Rosa vede un’ombra scivolare attraverso la porta ancora aperta. Riconosce l’abito nero dei gesuiti. Il religioso si libera dal cappuccio del mantello, scoprendo un viso giovane in cui spiccano due occhi verdi.

La strana compagnia entra in silenzio nella Stube.

«Il tempo stringe, amici. C’è molta, molta fretta» esordisce il gesuita con una voce calma e grave. Si rivolge a Rosa: «Vi ringrazio, sorella, per averci accolti qui, sotto il vostro tetto. Vostro marito, che ho l’onore di confessare a Bolzano, mi ha assicurato che da voi saremmo stati al sicuro. Ahimè, la guerra ha gettato il seme del tradimento anche nelle anime dei più acerrimi avversari del Maligno».

I suoi occhi cercano quelli di Karl.

«Devo trasmettervi un messaggio che proviene direttamente dall’arcivescovado di Bressanone» gli dice. «Non mi fate domande, non potrei rispondervi. Ma tornate al più presto a Innsbruck e parlate coi vostri superiori.»

Il gesuita parla con il tono posato e sicuro degli uomini abituati al potere. Fa uno strano contrasto con il viso liscio e quegli occhi luminosi.

«Abbiamo saputo che i Paesi dell’Intesa si sono riuniti in segreto con alcuni emissari del Regno d’Italia. Gli incontri si sono tenuti a Londra, e gli inglesi e i francesi sono quelli che si sono dati più da fare. Il 26 aprile è stato firmato un accordo che prevede l’entrata in guerra dell’Italia entro il termine di un mese. Stando alle informazioni che ci hanno trasmesso i fratelli di Roma, l’Italia dichiarerà guerra all’Impero di qui a tre giorni.»

Karl e Jakob si fissano in silenzio. Rosa non dice una parola. Sa bene che il gesuita non può essersi sbagliato. Da secoli il suo ordine si batte contro l’influenza protestante in Tirolo. La Compagnia di Gesù è un ordine potente, ben organizzato, noto per la sua valida rete di informatori. Oggi, in un’epoca inquieta, si muove con decisione per difendere i propri interessi. La Chiesa cattolica tirolese ha scelto di stare dalla parte dell’Impero, gli Asburgo la proteggono e la finanziano praticamente da sempre. Ed è a Vienna, non a Roma, che vengono suggerite le nomine vescovili della diocesi di Bressanone.

Quell’incontro è solo uno dei tanti organizzati dai gesuiti, come da tutte le altre parti in causa, per essere certi che le notizie giungano a destinazione. Gli agenti che percorrono l’Europa in quegli anni sono molti ed efficienti.

Karl, chiaramente, non è sorpreso: «Le vostre informazioni confermano le nostre. Abbiamo saputo che la mobilitazione dell’esercito italiano è stata ultimata pochi giorni fa. Ci sono oltre un milione di uomini pronti a combattere. Abbiamo anche i piani dello stato maggiore del generale Cadorna. Attaccherà verso nord per cercare di strapparci Trieste. Il suo obiettivo è spaccare il Tirolo in due all’altezza di Trento».

Rosa avverte la collera nella voce misurata di suo cognato. Come biasimarlo? Sulla base degli accordi di Vienna del 1882 l’Italia era tenuta a entrare in guerra al fianco dell’Austria e della Germania, in caso venissero attaccate. Roma, invece, si è dichiarata neutrale nel conflitto che è divampato subito dopo l’attentato di Sarajevo. La guerra, hanno sostenuto, non era difensiva ma offensiva, per via delle rappresaglie di Vienna contro la Serbia. E ora, pensa Rosa, ecco che gli italiani voltano la schiena ai loro alleati e si schierano al fianco dei nemici dell’Impero. L’intervento militare è un tradimento che costringerà le truppe austriache e tedesche ad aprire un nuovo fronte di battaglia. Molto vicino a Pinzon.

Il giovane gesuita si è già rialzato: «Devo rimettermi in cammino. Fate buon uso delle notizie che vi ho trasmesso. Temo che ormai sia troppo tardi, ma chi può saperlo».

«Ci impartisca la sua benedizione, padre» lo prega Rosa chinando il capo. Il religioso accenna un segno della croce mormorando una rapida preghiera.

«Che il Signore ci protegga» conclude calandosi il cappuccio sul viso. Nel giro di un attimo si è dileguato nella notte.

Karl si getta nuovamente sulle spalle la cappa militare e Jakob il mantello. Non si sono ancora asciugati. Rosa vorrebbe trattenere i due uomini stanchi e farli riposare, ma devono ripartire.

Si rivolge a Karl: «Credi davvero che gli italiani ci tradiranno? Ma perché?».

Il giovane ufficiale dell’Impero risponde cupo senza esitazione: «Vogliono strapparci Trieste, l’unico porto che abbiamo. Vogliono il Sudtirolo. Vogliono i nostri campi, le nostre case, le nostre chiese. Ecco perché».

 

 

Domenica 23 maggio 1915 l’Italia entra in guerra. Il Regno ha ultimato la mobilitazione delle truppe il 4 maggio e dispone ora di un milione e trecentomila soldati. Il piano del generale Luigi Cadorna prevede di bloccare le armate austriache sul fronte delle Alpi, e di concentrare le forze nei pressi di Gorizia. La guerra è giunta fino alla porta di Rosa, e abiterà a Pinzon per molti mesi a venire.

Il 3 giugno lei confida la propria amarezza al diario.

 

Oggi è il Corpus Domini, la processione sembrava più un funerale, tanto l’atmosfera era depressa e si sfilava senza la minima interruzione. Dietro il Santissimo si vedevano solo bambini e vecchi, con gli occhi colmi di lacrime, e Cristo grida ancora, la mia ora non è giunta! I nostri uomini sono sui campi di battaglia già da dieci mesi e purtroppo non si prevede una pace a breve. Si è aggiunto un nuovo nemico: il 20 maggio l’Italia ci ha dichiarato guerra, questi vigliacchi hanno rotto la Triplice Alleanza.
Ma hanno avuto torto ad agire così. Il suono delle campane non annuncerà loro niente di buono per il futuro. Uno Stato che volge le sue armi contro coloro che erano suoi amici da oltre trent’anni, che hanno protetto la sua crescita e che in ogni circostanza difficile gli hanno spianato la strada spingendolo avanti con braccio forte, quasi sempre commette peccato contro se stesso e contro il popolo che si raduna sotto la sua spinta.
Questi farabutti vogliono prendersi il Tirolo e non accettano alcuna offerta vantaggiosa, lasciano decidere le armi. Noi siamo in grande pericolo, mentre le fiamme della guerra divampano al nostro confine, siamo attaccati. Vuol dire combattere di nuovo per la vita o la morte, combattere per Dio, l’imperatore e la nostra amata patria. «Aquila del Tirolo, perché sei così rossa?»
Anche in queste ore difficili confidiamo in Dio che presta il suo braccio alla giustizia, vogliamo soprattutto implorare il Sacro Cuore di Gesù, a cui il Tirolo è consacrato, affinché i comandanti supremi del nostro esercito e degli alleati ottengano la pace e la vittoria. Su ordine del Kaiser c’è stata una nuova chiamata alle armi, dai diciassette ai sessant’anni, ragazzi che hanno appena smesso le braghe corte o uomini smagriti, con la barba bianca. Chi può aiutare aiuti. Anche la Germania ha mandato il suo esercito di milioni di uomini, che ci sono sempre stati accanto fedeli, e così partono, mano nella mano, colmi di rabbia e di entusiasmo per gettarsi sui Welschen. O carissimi, vi accompagnino la benedizione delle madri e la preghiera.
La popolazione è stata quasi tutta evacuata fino a Trento, e presto toccherà anche a noi dover lasciare in tutta fretta la nostra casa e il nostro paese. Vieni cacciato dalla mano traditrice, in un luogo dove sarai circondato dalla miseria e dal dolore.
 
Es gibt kein Feld der Ehre
für Räuber auf der Welt!
 
Non esiste campo dell’onore
per i ladri, in questo mondo!

 

L’entrata in guerra dell’Italia scatena un autentico terremoto a Pinzon. Di punto in bianco il pacifico villaggio si ritrova in prima linea, e il conflitto acquista volti e voci. Il fronte è poco lontano, sulle montagne. Rosa e i bambini sentono le cannonate che echeggiano nella valle, e l’esercito imperiale ha stabilito un posto di comando proprio a casa loro. Pinzon ora alloggia ufficiali eleganti dai modi educati, mentre negli altri edifici della tenuta prendono posto i soldati austriaci e ungheresi.

A sera, quando la cena è finita e ci si rilassa con un bicchiere di vino, viene aperto il Gästebuch, il libro degli ospiti di casa Tiefenthaler-Rizzolli. Gli ufficiali non si fanno pregare per lasciare un ricordo del loro passaggio, e le pagine fioriscono di messaggi, firme, disegni, poesie, note musicali e fotografie.

A quasi un secolo di distanza, seduta dove sedevano quei militari, scorro questo libro dai fogli pesanti, a volte un po’ strappati, e ho un brivido. È come se potessi toccare con mano la storia di quella casa. Mi sento grata che attraverso le generazioni le parole di questi testimoni siano arrivate fino a me. E sono riconoscente a chi è venuto dopo Rosa, e ha saputo conservare con tanta cura le tracce del passato di famiglia.

Nella prima istantanea che ritrae dei soldati ce ne sono solo due, al centro della piazza, immortalati mentre immergono le mani nella fontana. È il marzo 1915, probabilmente i primi ospiti in divisa di Pinzon sono solo un’avanguardia.

Nel 1916 arriva sul fronte italiano il secondo battaglione del 92° reggimento di fanteria imperiale «Edler von Hortstein». Immagino l’ufficiale di comando che batte i tacchi presentandosi a Rosa, la sconosciuta le cui proprietà sta occupando con la sua truppa. «Né a voi né ai vostri figli sarà fatto alcun male.»

A sera, c’è una festa per il loro arrivo, all’aperto, con una grande tavolata di cibo e di buon vino. Due intere pagine sono occupate da un affastellarsi di firme, poste sotto una poesia:

 

Wir sahen Serbien, Montenegro und den Isonzostrom
Jetzt geht es hoffentlich bis weit nach Rom!
So schön war’s nirgends, nie war uns so wohl,
Als wie im schönen Lande Südtirol.
 
Nach harten Kämpfen folgt als reicher Lohn,
die Retablierung in Pinzon.
In Deinem schönen stilgerechten Haus
Geh’n 92er glücklich ein und aus!
 
Mög Dich der liebe Herrgott schützen und die Deinen
Mög Euch das Glück so warm wie Eure Sonne scheinen!
 
Zur Erinnerung an lustige Tage in Pinzon
März 1916
Theodor Schulhoff, Major
 
 
Abbiamo visto la Serbia, il Montenegro, le acque
dell’Isonzo
e speriamo di arrivare fino a Roma!
Ma nessun luogo era così bello, nessuno così perfetto,
quanto la bella terra del Sudtirolo.
 
Dopo la dura battaglia segue la ricca ricompensa
di potersi ristorare a Pinzon.
Nella tua bella ed elegante dimora
il 92° felice si è sentito a casa sua!
 
Che il buon Dio protegga te e i tuoi
e che la fortuna splenda come il sole su tutti voi!
 
Nel ricordo dei bei giorni di Pinzon
Marzo 1916
Maggiore Theodor Schulhoff

 

Una bella foto di gruppo ritrae Rosa e le sue figlie sotto il tiglio, sedute composte con dietro di loro una vera e propria guardia d’onore di militari sorridenti. È il 1° aprile 1916 e la pagina accanto è interamente occupata da un nitido disegno, una veduta del paese con il suo campanile in bella evidenza al centro.

Sono uomini abituati alla guerra ma sono anche ragazzi lontani da casa, grati di trovare un’atmosfera familiare e calore umano. Le figlie di Rosa sono piccole, la maggiore, mia nonna Elsa, ha appena tredici anni, ma in casa c’è la servitù femminile e in paese mancano gli uomini. Quando non sono intenti a manovre, esercitazioni e piani di guerra, i militari hanno certo il tempo di innamorarsi. Ecco forse perché svariati di questi giovani votati al mestiere delle armi fanno lo sforzo di un componimento in versi o di uno schizzo grazioso, persino fiori. Come il 2 agosto 1916 quando uno di loro lascia per ricordo il disegno di un Edelweiss, una stella alpina, e una pagina assai lirica. È un certo Hans, che a giudicare dalla sua abilità grafica deve essere il disegnatore e fotografo in forze al reggimento. Il mese prima ha riempito due fogli interi di bozzetti assai ben fatti: soldati in divisa, uno dei quali turco, la chiesetta di Pinzon, un ufficiale barbuto che legge una lettera. Sotto aggiunge una foto della Stube.

Un drappello lascia la casa poco dopo la nascita di Hella, che ricordano con una poesia:

 

Noch einmal, eh uns heiß der Kampf umfängt,
grüßt uns der stille, sonnengoldene Friede.
Er führt uns in das gastliche offene Haus.
Er gleitet mit dem lichten Sonnenstrahl an dunklem
Fels...
Und an dem Schmuck der bunten Blumen hin.
In frohem Kinderlächeln grüßt er uns
Und in der Hausfrau still bescheidener Würde.
Sechs schöne Wochen lädt er uns zu Gast
Und da wir scheiden, ruft er uns nach
Durch eines neugeborenen Engels Stimme:
«Erhellet mir das sonnig traute Heim,
dies Heim, das meine ganze Zukunft ist!».
Da wissen wir, warum zum Kampf wir gehn:
Wir kämpfen für dies schöne Fleckchen Erde,
daß es auch weiterhin dem Glück zur Heimat werde.
 
Una volta ancora, prima che la battaglia ci circondi
col suo abbraccio ardente, ci saluta la silenziosa
pace dorata.
Ci conduca nella casa aperta, ospitale.
Con il raggio del sole scivola luminosa sulla roccia scura...
E sullo splendore dei fiori variopinti.
Ci saluta nel lieto sorriso dei bimbi
e nella tranquilla dignità della padrona di casa.
Per sei liete settimane ci ha offerto ospitalità
e ora che ce ne andiamo ci chiama
chiama la voce di un angelo appena nato:
«Rischiaratemi l’amata patria solatia,
questa terra che è tutto il mio futuro!».
E noi sappiamo allora perché andiamo in battaglia:
per questo bell’angolo di terra,
affinché continui a essere la patria della felicità.

 

Il 22 febbraio 1917 un gruppo di tre o quattro ufficiali si ingegna a riprodurre un cartiglio con lo stemma di famiglia, sotto cui inscrivono il loro ricordo. Molti chiamano affettuosamente Rosa «La nostra cara signora della casa».

Il 25 luglio 1917 l’aria si è fatta più pesante e il disegno mostra invece una testa d’uomo dai tratti mongolici, verso cui è puntata una pistola.

È l’ultima pagina firmata da un militare.

 

 

In quegli stessi mesi in cui il Sudtirolo è in armi contro i «Welschen traditori», un trentino di nome Cesare si è arruolato nell’esercito italiano. È dai tempi dell’università che combatte per la difesa dei diritti della nazionalità italiana nell’Impero austroungarico. Dieci anni prima a Innsbruck lui e i suoi hanno perso una battaglia, ora c’è da vincere una guerra. Forse questo è il momento in cui potranno finalmente raccogliere i frutti del lavoro di questi anni. Già dal 1914 lui e i suoi si sono trasferiti in Italia, e sono andati a Roma per fare pressione sul re e sul governo affinché intervenissero nel conflitto. Poi è venuto il momento di vestire la divisa di un Paese che non è il loro, non ancora.

In questo inverno del 1916, al fronte, l’ardito irredentista si è già accorto che la guerra è una faccenda inutile e crudele: in centinaia ogni giorno muoiono per guadagnare pochi metri che il giorno dopo gli austriaci riconquistano. A volte vacilla persino la certezza assoluta della propria missione, quella che lo ha spinto ad arruolarsi, lui cittadino austriaco, nell’esercito italiano in guerra contro gli Asburgo. Su quelle montagne piene di fango, neve, cecchini, fame e abbrutimento gli uomini non sono mai stati così uguali. Ma mai così nemici.

Finché Cesare viene catturato. È con un compagno in un giro di perlustrazione, si imbatte in un’unità di Kaiserjäger, fanteria leggera. Viene rapidamente identificato come un «Welscher traditore», è uno di loro che sta combattendo contro di loro. Viene tradotto rapidamente a Trento, la sua città, e rinchiuso in carcere. Non c’è tempo per i dubbi, per la clemenza, né voglia di fare concessioni a chi ha voltato le spalle all’Impero. Lo schiaffo è reso ancora peggiore dal fatto che lui è un intellettuale, è stato un deputato austriaco. La punizione deve essere esemplare. Gli viene rifiutata l’unica grazia che chiede: essere fucilato come soldato nemico catturato, e non impiccato come traditore.

È perfettamente cosciente di quello che gli accadrà, non è il primo. Incatenato e portato in giro per le strade di Trento, esposto al pubblico ludibrio, sente gli insulti, gli sputi che gli arrivano in faccia. Il processo a lui e ad altri come lui si svolge per direttissima. Il giudice gli chiede di rinnegare la sua scelta, di implorare il perdono del Kaiser. Ma lui non ha lottato tanto per poi rimangiarsi tutto proprio alla fine.

«Viva l’Italia!» grida Cesare Battisti, e il cappio si stringe.

 

 

Rosa continua a seguire col fiato sospeso le notizie dal fronte. Ai giornali e ai bollettini di guerra si è aggiunta una nuova preziosa fonte di informazione, gli ufficiali suoi ospiti che cenano nella Stube.

Sul fronte serbo le truppe austriache e tedesche hanno subìto alcune sconfitte, ma la Bulgaria è intervenuta in loro soccorso, finché nel 1915 Belgrado è caduta.

In Francia l’offensiva tedesca è stata bloccata sulla Marna nel settembre 1914. Il fronte si va stabilizzando. Ben presto, e per mesi interi, i giornali potranno riferire solo le alterne vicende di un sanguinoso faccia a faccia, in cui i soldati di entrambe le parti muoiono per nulla. A est le cose vanno meglio, tanto che le offensive contro i russi in Polonia porteranno alla presa di Varsavia.

Contemporaneamente l’Impero ottomano entra in guerra al fianco di Vienna e Berlino. Le forze russe lo attendono sul Caucaso, e quelle britanniche in Mesopotamia, Egitto e Africa. Le autorità ottomane dovranno inoltre fare i conti con la rivolta araba del 1916, fomentata dai servizi segreti britannici, che divamperà dalla Mecca a Damasco.

Ad appassionare di più Rosa, però, sono le notizie sulle battaglie contro gli italiani. Segue passo passo le fasi della resistenza accanita che le truppe dell’Impero oppongono alla loro avanzata lungo le rive dell’Isonzo, nella regione di Trieste. Le osservazioni dei suoi ospiti la rassicurano: le Alpi tirolesi, spiegano, non si prestano a offensive su larga scala. «Signora può stare tranquilla, non vedrà mai i soldati di Roma alla sua porta.»

Nei primi giorni del 1916 Rosa confida al suo diario, accanto ai moti di tristezza, anche slanci di fiducia nella provvidenza divina. Senza dimenticare l’annuncio di una grande gioia destinata a illuminare quei giorni tragici.

 

Pinzon, 16 gennaio 1916
 
Abbiamo iniziato di nuovo un altro anno, ma tra dolore e lamenti perché all’orizzonte ci sono ancora nuvole cupe e pesanti che oscurano il cielo. La guerra continua a imperversare, le immagini della battaglia sono sempre davanti ai nostri occhi.
Anche se finora, nonostante la strapotenza, i nemici non ci hanno potuto fare molti danni, non passa giorno senza che ci siano perdite immani. In questi tempi difficili ci vogliono proprio una fede salda, coraggio e pazienza. C’è stata una nuova leva e chi era stato scartato è stato dichiarato idoneo, perché l’imperatore deve vincere.
Che triste commiato, ora la guerra si prende anche l’ultima forza rimasta e crea vuoti nelle famiglie e nelle attività. Per molti cuori è il momento dell’addio, madri con una prole numerosa o bambini che vanno in custodia da estranei restano indietro come orfani abbandonati. Coloro che sono chiamati alle armi devono essere afflitti da cupi pensieri, e si capisce come a pesare sui loro cuori non sia solo il dover apprendere da vecchi un mestiere sconosciuto, ma anche la separazione dalle loro case e dalle loro famiglie. Ma bisogna andare avanti a testa alta e con coraggio per portare la pace nell’Impero.
Il mio buon marito se ne sta ancora nel suo vecchio posto, sano e salvo, oh come ringrazio Dio per la Sua grandissima bontà. Avrò la gioia di diventare mamma per la sesta volta! In questi tempi tristi è doppiamente difficile, ma non si muove foglia senza che Dio lo voglia. Speriamo che vada tutto liscio. Sì, anche noi donne dobbiamo lottare e anche la nostra vita è in pericolo. Ovunque c’è carenza di cibo e gli alimenti diventano sempre più cari.

 

La guerra contro l’Italia è ormai entrata nel secondo anno, e Rosa, in piedi nella piazza assieme agli altri abitanti di Pinzon, fissa senza capire le scale di legno che i militari austriaci hanno posato contro il campanile della chiesa. Si sono sfilati le giubbe grigie e lavorano in maniche di camicia nel sole dei primi di giugno 1916. Montano un’impalcatura sormontata da grosse carrucole e annodano intorno alle campane grosse funi di canapa.

Rosa stringe tra le braccia un neonato, una bambina. Dio ha deciso di regalarle un sesto figlio, a nove anni dalla nascita di Berta. Come una sorta di meraviglioso dono del cielo, la piccola è venuta al mondo una settimana prima del suo trentanovesimo compleanno. Jakob non era accanto a lei, ma ad assisterla c’era il medico militare, uno degli ufficiali che alloggiano sotto il suo tetto. Racconterà nel diario, qualche settimana dopo l’evento:

 

Il 15 maggio ho partorito una bambina, che lo stesso giorno è stata battezzata dal nostro reverendo Geier. Mia sorella Luise ha fatto anche questa volta da madrina e alla piccola è stato dato il nome di Helene Aloisa. Avevamo la casa piena zeppa di soldati austriaci alloggiati da noi e così il dottor Richard Jenny, di Rankweil nel Vorarlberg, mi è stato amorevolmente accanto come un angelo salvatore per tutta la notte, finché quelle ore di ansia sono passate. Non è arrivato l’atteso giovanotto, ma una meravigliosa bambina dagli occhi scuri. La piccola è molto forte, ha le guance rosse del padre e sorride in modo dolcissimo a un roseo futuro. Speriamo che possa vivere giorni migliori di oggi quando questa tempesta, questo massacro terribile, sarà finalmente passato.

 

Che cosa ne sarà di Helene, subito chiamata Hella, nata in un mondo impazzito? Rosa non può sapere che quella minuscola creatura le riserverà molte sorprese, e diventerà ben nota ai suoi compaesani. Ma forse lo immagina. Figlia di un tempo di guerra Hella è nata «molto forte», e saprà affrontare altre, peggiori battaglie.

Padre Geier le si avvicina e la riscuote dai suoi pensieri mormorando: «Non c’è stato modo di evitarlo. Dobbiamo sacrificare le nostre campane. Stanno facendo la stessa cosa in tutto l’Impero».

«Ma perché? Che cosa se ne fanno delle nostre campane?» domanda Rosa, senza smettere di cullare la bambina, che dorme quieta.

«Vogliono fonderle. Fondono le campane delle chiese per ricavarne armi e munizioni.»

«Che orrore!» sussurra Rosa. «Come abbiamo potuto arrivare fino a questo punto?»

«La guerra sta andando per le lunghe, Frau Mutter» le risponde padre Geier accarezzando la fronte della piccola Hella. La chiama affettuosamente «signora madre», il soprannome che gli abitanti del paese le hanno dato, per la sua presenza forte e amorevole e il suo soccorso costante in quei tempi così difficili. «E più durerà, peggiori saranno le sofferenze per tutti.»

«Ma portare via le campane della chiesa è come rubare a un paese la sua anima» protesta Rosa.

«La Chiesa deve sacrificarsi come tutti gli altri sudditi dell’imperatore» risponde il prelato con voce triste. «Guardatevi intorno. Le famiglie sono decimate, gli uomini che sono tornati dal fronte sono invalidi o feriti, le donne e i bambini muoiono di fame. Ma voi lo sapete meglio di me.»

Rosa, in effetti, conosce bene la situazione. Il suo cuore generoso sanguina per l’angoscia in cui si dibatte la comunità che dipende da lei. Tutti gli uomini abili sono stati chiamati alle armi. Giovani, vecchi, padri di famiglia: nessuna distinzione. È così in tutta Europa, in Sudtirolo, a Pinzon. Un continente intero è sprofondato nella follia. Il conflitto lanciato nell’estate del 1914 con tanta forza e prosopopea, profetizzando una rapida vittoria dell’imperatore, ha già divorato centinaia di migliaia di vite umane. Le fotografie dei soldati in partenza per il fronte in una pioggia di petali di fiori hanno lasciato il posto a immagini di trincee fangose, mitragliatrici in azione, esplosioni, granate e mine. La grande macelleria non accenna a placarsi.

Per le strade di Pinzon, Montan, Neumarkt, Rosa incontra donne e bambini emaciati. Le provviste si fanno sempre più scarse e costose. La macchina della guerra ha bisogno di essere alimentata, i militari vengono prima dei civili. Spesso la signora di Pinzon organizza in piazza grandi tavolate a cui rifocillare i concittadini, oltre ai soldati. Si adopera in ogni modo perché anche le famiglie che non lavorano sulle sue terre abbiano di che sopravvivere. I campi, gli orti e la fattoria però non bastano più a nutrire tutti quegli affamati.

Scrive nel diario:

 

Siamo ancora oppressi da una grave minaccia, di cui non vediamo la fine. I combattimenti imperversano, a destra e a sinistra si sentono le esplosioni come se fosse vicina la fine del mondo.
La carestia si fa sempre più percepibile, specialmente nelle città. La gente ha un aspetto sempre più magro, i generi alimentari si possono avere solo con le tessere. I prezzi aumentano quotidianamente, con il denaro non si può più comprare quasi nulla, il baratto è ormai all’ordine del giorno. Alcuni poveri invidiano i morti. Le ultime suppellettili della casa in rame, ottone o peltro sono state raccolte per essere trasformate in munizioni. Non bastando quelle sono state prese anche le belle vecchie campane della chiesa, che per tanto tempo hanno svolto fedeli il loro dovere, facendo risuonare per la valle i loro rintocchi, ora tristi ora lieti, secondo il desiderio degli uomini. Dover essere testimoni di una cosa come questa mette a dura prova i nervi e si sono visti molti anziani piangere. Che cosa deve accaderci ancora, quando saremo stati puniti abbastanza?
Tutti i giorni viene la sera, una volta sarà l’ultima anche per noi.

 

Ai piedi del campanile di Pinzon tutto è ormai pronto. I due «carillon» della torre campanaria sono stati svitati e sfilati dal loro asse. Le campane penzolano inerti dalle corde che le calano un centimetro alla volta verso il suolo.

«Sembrano angeli caduti» pensa Rosa, chinando lo sguardo velato dalle lacrime sulla bambina che le dorme tra le braccia. Ma poi torna a fissare la triste scena, con una nuova determinazione negli occhi. Se la imprime bene nella mente, la rabbia la aiuterà a resistere e a lottare perché il suo paese rinasca. «Comprerò io nuove campane per la nostra chiesa. Un giorno, presto, le rimetterò lassù» sussurra a sua figlia. «Lo prometto.»

Eredità
titlepage.xhtml
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_000.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_001.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_002.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_003.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_004.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_005.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_006.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_007.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_008.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_009.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_010.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_011.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_012.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_013.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_014.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_015.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_016.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_017.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_018.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_019.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_020.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_021.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_022.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_023.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_024.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_025.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_026.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_027.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_028.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_029.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_030.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_031.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_032.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_033.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_034.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_035.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_036.html