9

L’occupazione

Hella sta crescendo, è vivace, dorme poco, è curiosa. Le piace leggere, anche di notte, nonostante la mamma non voglia. È così che si accorge che anche Rosa in quel periodo è spesso sveglia, la sente muoversi nel silenzio della casa. Una sera Hella esce piano dalla sua stanza, la segue, va a sbirciare nella Stube, dove l’ha vista entrare, spingendo piano la porta per guardare attraverso la fessura.

Rosa infila un ciocco di legno nella stufa e apre un grande registro. In casa lo conoscono tutti, è il registro dei conti. Intinge la penna nel calamaio e comincia a trascrivere ordinatamente entrate e uscite da una serie di fogli sparsi. Sembra fare e rifare più volte le somme, poi si prende la testa fra le mani. Hella si sente in colpa a sbirciare la madre. Capisce all’improvviso che forse le ore notturne sono le uniche in cui può sfogare le preoccupazioni del giorno.

Poi Rosa alza la testa. Non si guarda alle spalle.

«Hella» dice, interrompendo il silenzio della notte.

La bambina si ritrae, cerca di non respirare, di farsi inghiottire dal pavimento. Non vuole essere scoperta.

«Hella» ripete ancora Rosa. «Lo so che sei lì.» Il tono è rassicurante e affettuoso.

Hella esce dal suo nascondiglio e si fa avanti, una figuretta esile e con la schiena dritta nella sua camicia da notte bianca con i pizzi ricamati.

«Da quanto sei lì?»

«Perché piangi, mamma?»

«Non piango» ma Rosa si è asciugata rapidamente gli occhi con un fazzoletto.

«Invece sì. Ti ho vista.»

«Non dirlo a papà. E neanche agli altri, d’accordo? Sono già abbastanza preoccupati.» Si chiede cosa deve dire, sua figlia ha solo sette anni. Poi decide che la verità è il partito migliore. «Sono preoccupata perché le cose non stanno andando bene. Le tasse sono diventate altissime. Bisogna pagare gli operai, la servitù, un sacco di spese di casa. Alcuni sono qui con noi dai tempi di tuo nonno, ma sono tante bocche da sfamare. Non è un momento facile per nessuno e bisogna aiutare chi è più povero.»

«Il cugino Hans dice che è tutta colpa dei Welschen.»

«Non proprio. Ma prima che ci fossero loro molte cose andavano meglio» aggiunge, amara.

«Ma io cosa posso fare per aiutarti?»

«Niente, tu devi pensare a studiare. Cosa stai leggendo?» Rosa conosce l’avidità di informazioni della figlia.

«Un libro che mi ha dato lo zio sull’Austria, con tante figure.»

«È sicuramente un bel libro. Ma torna a letto, andiamo, ti accompagno.»

Rosa sorride con un po’ di fatica e uscendo dalla Stube con la sua piccola getta uno sguardo ai conti. Aspetteranno il suo ritorno. Sembrano non finire mai.

 

 

Gli squadristi, gli uomini che hanno terrorizzato Rosa in quella domenica del 1921 a Bolzano, hanno preso il potere. Il 31 ottobre 1922, a seguito della marcia su Roma, il re ha nominato Benito Mussolini presidente del Consiglio, e da quel giorno il nuovo despota d’Italia fa il buono e il cattivo tempo. Non perde occasione per menzionare con ostilità la minoranza germanofona del Sudtirolo, che ostinatamente si rifiuta di rinunciare alla sua lingua, alla sua fede e alla sua storia.

Il 4 novembre 1922 con l’arrivo del nuovo prefetto della Venezia Tridentina, Giuseppe Guadagnini, è stata avviata ufficialmente la politica di assimilazione della popolazione di lingua tedesca. I Provvedimenti per l’Alto Adige, redatti da Ettore Tolomei, sono diventati il programma dello Stato fascista per il Sudtirolo. Nel 1923 il fanatico irredentista italiano, ora in camicia nera, espone le linee guida del programma al Teatro di Bolzano: italianizzazione delle istituzioni e dell’immagine dell’Alto Adige, come lo chiamano adesso; spinta al trasferimento e insediamento di nuovi italiani nella zona; progressiva eliminazione della cultura tedesca. Per i sudtirolesi è una dichiarazione di guerra.

Le violenze aumentano. Rosa si sente inquieta quando Jakob deve andare in città, a incontrarsi con gli altri possidenti e i membri dell’associazione delle cantine vinicole. L’ex borgomastro di Neumarkt, il barone Anton von Longo, se n’è dovuto andare con tutta la sua famiglia, auto-esiliati nelle loro terre in Carinzia. Troppi scontri con i fascisti: prima se la sono presa con lui perché la targa «municipio» in italiano sulla facciata del palazzo del Comune, secondo le camicie nere, non era abbastanza visibile. Poi sono cominciate le minacce e le intimidazioni. E quando il barone è andato alla polizia a denunciare la cosa, quelli gli hanno riso in faccia.

Il mondo di sempre con i suoi punti di riferimento è sconvolto.

 

 

Hella va a scuola, ma sembra che non potrà nemmeno imparare a scrivere nella sua lingua. Dall’oggi al domani infatti la maestra è stata cacciata e ne è arrivata una nuova, italiana. Da adesso bisogna studiare solo nella lingua dei conquistatori.

Hella non capisce e fa un sacco di domande: la vecchia maestra è sempre lì nel paese, la incontra tutti i giorni. E allora perché non lavora? Forse non ha più voglia di svegliarsi la mattina? Rosa va a trovarla, le portano un po’ di frutta, qualche bottiglia del loro vino. Della situazione politica nemmeno parlano, è evidente a tutti che il nuovo regime ha cominciato dalle scuole la sua opera di italianizzazione, e che i bambini saranno i primi ad andarci di mezzo.

Hella infatti si lamenta un po’ perché la sua vita è decisamente peggiorata: adesso la scuola non finisce a scuola, ma ricomincia a casa. Appena tornati bisogna tirare fuori di nuovo il quaderno, per fare gli esercizi di tedesco. Rosa, con tutto quel che c’è da fare, si è dovuta trasformare in una seconda maestra perché la sua piccola possa imparare a leggere e scrivere nella lingua che ha sempre parlato. Ora comincia a diventare pericoloso anche usarla in pubblico. E quanti ragazzini hanno una madre o un padre che possano insegnare loro il tedesco? Sicuramente pochi, troppo pochi. Il tasso di analfabetismo è basso rispetto ad altre regioni, ma senza la scuola la battaglia è persa in partenza.

Come Hella, migliaia di bambini sudtirolesi vivono in questi mesi una grande confusione.

«Mamma, la nuova maestra non la capisco.»

«Devi avere pazienza» li esortano le madri.

Ma qualcuno comincia a formulare un altro genere di risposta.

Nelle case si svolgono sempre più spesso riunioni clandestine, organizzate spontaneamente da volontari. Occorre mettere in piedi un sistema alternativo di istruzione nella lingua e cultura tedesca. Si comincia a parlare di Katakombenschulen, scuole delle catacombe, una definizione usata dal canonico Gamper, uno dei primi promotori di questa forma di resistenza. In un suo articolo sul «Volksbote», che conquisterà molti nuovi adepti alla causa, scrive che il modello deve essere quello dei primi cristiani: «Quando essi non furono più al sicuro, officiando le loro messe nei templi pubblici, di fronte alle persecuzioni, allora si ritirarono all’interno del loro focolare domestico. Lì pregavano e sacrificavano insieme. Quando i persecutori arrivarono anche lì, essi si rifugiarono presso i morti nelle tombe sotterranee, nelle catacombe».

Si divide il territorio in tre aree: Bolzano, Merano e Bressanone, per coordinarsi al meglio. Nel 1923 i corsi privati di tedesco non sono ancora stati vietati ufficialmente, ma lo saranno presto e bisogna giocare d’anticipo.

Sono le donne le prime a muoversi a viso aperto. Escono allo scoperto chiedendo che non si cancelli una cultura. Organizzano manifestazioni a Bolzano e in altri centri, e nell’aprile 1924 scrivono direttamente alla regina Elena di Savoia. In quanto madre, pensano, di certo le capirà.

 

Altezza!
[...] L’eliminazione della lingua tedesca nelle scuole dell’Alto Adige ha portato tanto affanno, fra noi donne di questa terra, che anche oggi non possiamo che trasmettere nelle Vostre mani la nostra umile ma calda implorazione che ci venga lasciato inviolato ciò che un popolo possiede di più sacro, la sua madre-lingua, la quale venga riammessa come lingua d’istruzione nelle nostre scuole.
[...] Perciò noi rappresentanti delle madri dell’Alto Adige preghiamo l’Altezza Vostra di voler farsi fautrice ed interprete di questi nostri naturali diritti, e di patrocinare presso le istanze competenti la richiesta nostra per la conservazione della lingua di insegnamento tedesca nelle nostre scuole.
La gratitudine inestinguibile di tutti i cittadini di nazionalità tedesca ricompenserà la Vostra augusta benemerenza.

 

Ma la regina non si degna nemmeno di rispondere.

Da Bolzano fino al più piccolo dei paesi, le strade, gli uffici e le amministrazioni pubbliche del Sudtirolo si sono riempiti di fascisti. Vengono sostituiti sindaci, amministratori, funzionari. Si impone rapidamente l’obbligo di esporre cartelli o informazioni nella sola lingua italiana, e qualsiasi tentativo di preservare la cultura tedesca viene sanzionato. Oppressione e repressione sono una cifra comune al regime in tutte le regioni d’Italia, ma altrove si perseguitano gli avversari politici e ideologici. Qui invece la battaglia è più violenta, è una vera e propria colonizzazione quella che le camicie nere hanno in mente. E l’avversione per l’ingresso delle armate italiane nel 1919 si trasforma rapidamente in odio per il fascismo.

La vita di Rosa e dei suoi familiari e amici è diventata una foresta di nuovi divieti, tasse, imposizioni e pericoli. Jakob viene insultato quando si attarda a parlare in tedesco con un amico nella piazza di Neumarkt. Il barone Anton von Longo nel 1925 muore in Austria senza aver potuto rivedere la sua terra. Un conoscente viene picchiato in osteria perché si è rifiutato di ordinare la birra in italiano, un altro, impiegato statale, perde il lavoro perché «è tedesco». Gli affari cominciano ad andare male: non solo c’è una crisi mondiale, ma la nuova classe politica discrimina i proprietari terrieri tedeschi. Tra le nuove imposte e la nuova moneta, che ha comportato una perdita di valore del 40 per cento dei patrimoni in corone, molti masi passano di mano. Spesso vengono acquistati all’asta dai contadini italiani che il governo sta incoraggiando a trasferirsi qui. Cambiano i nomi dei luoghi – Kurtatsch diventa Cortaccia, Neumarkt diventa Egna, Pinzon diventa Pinzano. La vita sociale della comunità tedesca è annullata, ci si ritrova giusto a casa, le feste e i riti popolari sono stati cancellati dal regime che ci vede, non sbagliando, la nostalgia per la vecchia Austria. Viene vietata una tradizione molto amata, i fuochi del Sacro Cuore, considerati una manifestazione antiitaliana. In effetti tante usanze locali non sono italiane, ma di per sé non sarebbero neanche ostili.

Però stanno per diventarlo.

 

 

Hella comincia a frequentare le scuole clandestine. Le sedi cambiano continuamente e ogni volta bisogna preparare una copertura, in caso di controlli. Non è facile per i bambini riuscire a concentrarsi. La paura di essere scoperti è più forte della voglia di imparare o della bravura delle insegnanti. Molte di loro sono maestre che hanno perso il lavoro con l’italianizzazione.

Rosa guarda Hella uscire di casa senza cartella o quaderni, non si può portare dietro niente altrimenti qualcuno potrebbe insospettirsi. Non si dà neppure appuntamento con le compagne: va da sola, al massimo portando una fetta di torta per dire che quella è la ragione della sua visita. Una volta arrivata si sistema nella Stube della casa in cui si svolge la lezione, altri bambini arrivano alla spicciolata. A volte Rosa li accoglie a Pinzon, prepara per tutti un succo di lamponi con una buona torta, anche per fingere che si tratti solo di una merenda. La regola è che, se arrivano i carabinieri, i fogli su cui stanno scrivendo devono essere nascosti in fretta in uno dei vani chiusi ricavati nel rivestimento di legno della parete, o sotto il cuscino della poltrona, dove non guarderanno.

Quando arriva la proibizione ufficiale di tenere i corsi, i controlli diventano più severi. Fioccano gli arresti, le multe e vengono comminati i primi «confini» alle maestre. Scrive a Roma il prefetto Guadagnini nel 1925:

 

Il numero considerevole di scuole clandestine scoperte specialmente nella zona fra Bolzano e Salurn dimostra che esiste in Alto Adige un’organizzazione regolare di resistenza la quale provvede al reclutamento di maestri, all’impianto delle scuole e al finanziamento necessario. Essa deve avere dei fiduciari nei comuni. [...] Occorre prendere accordi con l’autorità giudiziaria direttamente e a mezzo mio per procedere a sequestri e a perquisizioni domiciliari. Si terranno anche a contatto con le autorità scolastiche e daranno precise disposizioni perché sia intensificata al massimo la vigilanza e chiuse immediatamente le scuole scoperte col sequestro del materiale didattico con la denuncia dei responsabili.

 

La delazione è all’ordine del giorno e ogni volta si deve ripartire da capo, cercando di trovare una nuova casa sicura. D’estate è tutto più semplice, ci si può ritrovare all’aria aperta e fare lezione sul prato, ma il rischio c’è comunque. Bisogna avere coraggio a insegnare ma anche a mandarci i figli. Il sospetto avvelena i rapporti persino tra persone che si conoscono molto bene. I paurosi, gli opportunisti, i collaborazionisti non mancano, come nel resto d’Italia, sotto la dittatura fascista.

I bambini vivono sdoppiati: devono fare attenzione a dissimulare le lezioni ricevute.

«Hella, perché hai scritto casa con la k?» chiede un giorno la maestra mentre la piccola sta facendo un esercizio di ortografia alla lavagna. A Hella batte il cuore più forte: da mesi le spiegano che non deve tradirsi, la k o la j in italiano non esistono. È come una dichiarazione di colpevolezza. Alcuni tendono delle trappole agli scolaretti, per permettere alla polizia di risalire alle scuole clandestine. Per questa volta, la maestra lascia correre.

«Non ti preoccupare, ma non scriverla più» si limita a dire.

 

 

Rosa da sempre si diverte a raccontare favole e storie del passato ai suoi figli e ai loro amici, ma adesso ha smesso di farlo. Ne soffre, ma è troppo pericoloso: le leggende tradizionali sono considerate propaganda anti-italiana.

Un pomeriggio trova Hans, il figlio di Luise, che parla a Hella di Andreas Hofer, l’umile oste che aveva combattuto e vinto l’esercito napoleonico per difendere il Tirolo. Hans è partito per la guerra sano ed è tornato epilettico, colpito alla testa da una scheggia di granata. Ha passato molti mesi all’ospedale militare, e quando finalmente è rientrato a casa le sue condizioni hanno allarmato tutta la famiglia. Luise lo ha portato a Lourdes e ha fatto voto di non mangiare mai più carne e di dire il rosario tutte le sere, se il figlio tornerà in salute. Per ora sembra che gli attacchi siano cessati, ma chi può dire se ricominceranno. Quello che è certo è che l’esperienza della guerra e il dolore sopportato hanno trasformato Hans nel più strenuo nemico degli italiani. E figurarsi poi i fascisti.

Rosa guarda i cugini seduti sulla panca davanti a casa, il viso animato di Hans che racconta, lo sguardo intenso della piccola che ascolta. Hella batte le mani all’episodio, probabilmente apocrifo, della fucilazione. Al plotone di esecuzione che alla prima salva non lo colpisce, stringendo in mano il crocifisso Hofer lancia un provocatorio: «Ma come sparate male!». Rosa rimane zitta, ma sa che dovrebbe intervenire. Se Hella ripete queste cose a scuola la famiglia ne subirà le conseguenze. Ha ragione sua sorella, Hans è davvero imprudente.

Hella avvicina la testa a quella del cugino, i due cominciano a cantare sussurrando, come chi ha ben imparato la lezione della segretezza:

 

Zu Mantua in Banden
der treue Hofer war,
in Mantua zum Tode
führt ihn der Feinde Schar.
Es blutete der Brüder Herz,
ganz Deutschland, ach, in Schmach und Schmerz.
Mit ihm das Land Tirol,
Mit ihm das Land Tirol.
 
A Mantova era in catene
il coraggioso Hofer,
a Mantova alla morte
lo porta la schiera nemica.
Sanguina il cuore dei fratelli,
la terra tedesca intera ahimè nella vergogna e nel
dolore,
con lui il Tirolo, con lui il Tirolo!

 

Finito di cantare Hella si guarda intorno come se avesse commesso una marachella, sussulta vedendo la mamma che la osserva, poi le fa un largo sorriso. Rosa non può evitare di sorriderle di rimando ma ha il cuore oppresso da un presagio: questa sua figlia si metterà nei guai.

 

Pinzon, 23 marzo 1924,
domenica pomeriggio
 
I miei ragazzi oggi sono andati a Entiklar, io sono seduta un momento per conto mio e posso seguire liberamente i miei pensieri. L’inverno ci ha lasciato da alcune settimane e i mandorli sono al punto più bello della fioritura. Oh primavera, che bella stagione! Tutto è pieno dell’eccitazione che segna l’uscita dal lungo sonno invernale. C’è desiderio di nuova vita fuori, nella natura donataci da Dio, perché dentro le mura di casa si fa sentire il peso opprimente delle preoccupazioni quotidiane.
Da quando qui si sono stabiliti i Welschen sembra tutto morto, solo quando siamo barrati dentro casa osiamo cantare una canzone tedesca. I Welschen vogliono sopprimere tutto ciò che è tedesco, perfino gli impiegati pubblici tedeschi sono stati lasciati senza il pane. Le scuole sono solo italiane e perfino l’ora di religione deve essere tenuta in italiano. Mirano a distruggere tutti i proprietari terrieri così che la nostra patria sia ben presto italianizzata. Ci piovono tasse tra capo e collo e siamo costretti a prendere in prestito denaro, quando le banche sono abbastanza disposte a stare al nostro fianco e aiutarci. Oh bei vecchi tempi, quanto siete distanti, quanto siete lontani!
La nostra piccola Helene potrà fare la prima comunione a Pasqua. Che Gesù Bambino faccia sì che i Welschen non ci portino via la nostra fede, quella che a noi tirolesi viene inculcata fin dalla culla. Purtroppo abbiamo dovuto rinunciare alla nostra terra e ognuno qui ha nostalgia del bel Tirolo. Ma non può sempre restare così, la vita vuole cambiamenti. Io spero che ai miei figli siano risparmiati tempi di paura e di ansia come questi. La nostra fattoria l’abbiamo affittata quasi tutta, a parte qualche proprietà, perché i vecchi contadini non erano più in condizione di lavorare tutti i terreni. Berta frequenta il secondo anno della scuola commerciale e gli altri cinque figli per il momento sono a casa. Anche se le preoccupazioni per gli affari qualche volta mi fanno versare calde lacrime, ringrazio Dio perché abbiamo la salute, che è un tesoro prezioso.

 

Rosa entra nella stanza di Elsa, sfuggendo per un attimo ai mille doveri di quella giornata di festa. Vorrebbe stringere sua figlia tra le braccia, ma ha paura di stropicciare il magnifico abito di seta color crema. Sui capelli neri tagliati a caschetto secondo la moda, la ragazza sta fissando con le forcine la cuffietta di tulle bassa sulla fronte, da cui ricade sulle spalle il velo da sposa. I suoi occhi azzurri scintillano di gioia.

«Che cosa c’è, mamma, sono in ritardo?» chiede con voce ridente.

«Altroché, se sei in ritardo! Le donne sono sempre in ritardo quando la felicità le aspetta.»

«Sono pronta.» Elsa getta un’ultima occhiata allo specchio. «Ho promesso a Franz di non fumare prima di andare in chiesa, ma ho una voglia matta di accendermi una sigaretta!»

«Non ti azzardare» la ammonisce Rosa. Si sente in colpa per non essersi opposta fin dall’inizio alla cattiva abitudine che Elsa ha preso da ragazzina. La sua primogenita e la sorella Gusti hanno cominciato ad apprezzare il tabacco molto giovani, in quella casa ospitale sempre piena di studenti e di ufficiali austriaci. Loro volevano essere gentili, certo, offrendo sigarette alle sue figlie. Ma adesso Elsa fuma come una ciminiera.

Rosa precede Elsa lungo la scalinata di casa e la aiuta a salire sull’auto che le condurrà a Neumarkt. Sono tanti anni che sogna questo giorno e adesso è arrivato, il 25 maggio 1925. Vuole che quelle nozze siano indimenticabili. Di fronte alla chiesa del paese le attende un giovane slanciato con il naso dritto e lineamenti fini. Stranamente, anche se ha solo trentatré anni, i suoi capelli sono tutti bianchi, e quel particolare gli conferisce un’aria di maturità e serietà che a Elsa è subito piaciuta. Si chiama Franz Deutsch ed è figlio di una rispettabile famiglia di Neumarkt, suo fratello maggiore è ispettore generale delle Poste a Innsbruck e lui è ingegnere forestale.

Le famiglie degli sposi e gli invitati hanno preso posto sulle panche. A officiare è il parroco di Pinzon, il reverendo Dosser. Rosa è seduta in prima fila e segue con emozione la cerimonia. «Sembra così giovane» si dice guardando Elsa ventiduenne che s’inginocchia ai piedi dell’altare, accanto all’uomo che sta per diventare suo marito nella buona e nella cattiva sorte. «Eppure ero poco più grande di lei quando ho sposato Jakob.» Spera di essere stata una buona madre e di essere riuscita a insegnarle la pazienza e il coraggio.

Jakob la aiuta a rialzarsi e Rosa gli avvicina le labbra all’orecchio: «La sposa abbandonerà la casa del padre e della madre per seguire il suo sposo» mormora.

«Amen. Che Dio benedica i nostri figli!» risponde lui guardando Mariedl, Josef e Berta in piedi accanto alla madre. Gusti è subito dietro e tiene d’occhio Hella, cercando di evitare che si stropicci troppo il vestitino. Silenziosamente, Jakob ringrazia il Signore per la bella famiglia che gli ha regalato, e stringe forte la mano di Rosa.

Al termine della cerimonia gli invitati si dirigono in piccoli gruppi all’hotel Post, dove sta per avere inizio una sontuosa festa di nozze nella migliore tradizione sudtirolese. Si danzerà fino a notte inoltrata, cantando a squarciagola in tedesco, in barba al nuovo ordine sociale e politico.

 

 

Vado a trovare mio zio Norbert nella sua casa di Signat, sull’altopiano del Renon, bella zona di villeggiatura di mezza montagna a una quindicina di chilometri da Bolzano. Dalla terrazza di legno, ornata con magnifici gerani, si gode l’intero panorama della val d’Isarco e una splendida vista sulle Dolomiti. È una giornata di luglio, ma fin dal mattino il tempo è stato variabile: siamo passati dal temporale al sole più caldo. Il cielo è azzurro, striato di nubi bianche. Guardo i pendii coperti di boschi e penso che per molti sudtirolesi sono stati amici e salvatori. È facile perdersi nel fitto degli alberi, nascondersi quando si è in fuga da un nemico.

Norbert, come suo padre Franz, ha percorso da sempre i boschi del Sudtirolo. Padre e figlio erano ingegneri forestali, il loro compito era inventariarli, albero per albero, e tenerli sotto controllo. La foresta era per loro una passione divorante, come l’oceano per i marinai.

Franz Deutsch, mio nonno, era nato nel 1892 a Neumarkt. Cittadino austriaco, aveva studiato a Vienna, ma la Grande Guerra lo aveva costretto ad abbandonare l’università e a partire per l’Ungheria, dove aveva combattuto contro i cosacchi. Non dimenticherò mai la storia che mi raccontava da bambina per spiegarmi come i suoi capelli erano diventati precocemente bianchi. «La battaglia era finita, e noi avevamo perso. Ci avevano presi prigionieri, me e i miei compagni. Alcuni erano feriti a morte. Io ero tra i fortunati che se l’erano cavata con qualche graffio. I cosacchi hanno ordinato di sdraiarci a terra a faccia in giù. Hanno sguainato le sciabole e hanno cominciato a menare terribili fendenti alla testa, sfondandoci il cranio uno dopo l’altro. Ecco, era venuto il mio turno. Ero alla mercé del cosacco che stava già per darmi il colpo di grazia. Non potevo fare nulla. Ho sentito il fischio dell’aria mentre la lama calava, il colpo violento sul mio elmetto.» Forse il boia aveva il braccio stanco? Forse l’elmetto aveva deviato il fendente? Fatto sta che mio nonno è sopravvissuto, con una ferita alla testa. «Ho aspettato che se ne andassero. Poi, lentamente, mi sono rimesso in piedi. “C’è qualcuno ancora vivo?” Solo uno dei miei uomini si è alzato. E mi ha informato che i miei capelli erano diventati tutti bianchi.»

Cessate le ostilità, Franz Deutsch rientra a Neumarkt, poi riparte per Vienna e finisce gli studi. Dopo la laurea, nel 1923, comincia a lavorare per il servizio forestale di Brunico. E due anni più tardi prende moglie.

Mi piace pensare a mio nonno come al giovane orgoglioso e felice di fianco alla sua sposa, in quel giorno di festa del 1925. La vita non gli risparmierà delusioni e sofferenze e io lo ricordo come un uomo serio e un po’ burbero, anche se capace di gesti di generosità. La sua vera passione erano le carte e insieme a mia nonna costringeva mio fratello, ragazzino, a interi pomeriggi di canasta. Vinceva sempre Elsa, la sigaretta in mano e una battuta spiritosa sulle labbra. Sua madre magari le aveva insegnato la pazienza, ma lei rimase uno spirito libero fino alla fine.

 

 

Nelle pagine del diario del 1922 Rosa non scrive nulla degli avvenimenti politici che hanno sconvolto il suo mondo. Passa sotto silenzio la marcia su Bolzano, la marcia su Roma subito successiva e la conquista del potere da parte dei fascisti. Cerca di ignorare una realtà che non riesce ad accettare. Annota invece che la sua vita è giunta a una svolta importante, lei ha compiuto quarantacinque anni e prega il cielo di farla arrivare al mezzo secolo. Da quando dodici anni prima si è dovuta sottoporre a un’operazione che avrebbe potuto essere fatale, Rosa non dà più niente per scontato. Era il 1910 ed era stata ricoverata all’ospedale di Innsbruck per farsi rimuovere dei calcoli biliari. «Ho visto in faccia l’angelo della morte» annotava nel suo diario. E da Innsbruck non aveva alcuna certezza di tornare viva. La mattina dell’operazione, il 3 marzo, aveva ricevuto i sacramenti nella piccola cappella dell’ospedale. Insieme a lei c’erano Jakob e suo cognato, il dottor Sembianti, accompagnati dal chirurgo che l’avrebbe operata, il dottor Hlavacek. «Signore, mi rimetto nelle vostre mani» aveva pregato Rosa prima di scivolare in un sonno profondo indotto dall’etere. L’operazione era andata bene, ma la convalescenza era durata due lunghi mesi.

Per anni Rosa non ha più pensato a quell’incontro ravvicinato con la morte ma ora, ai primi di marzo del 1925, avverte il bisogno di sbrigare una formalità importante: fa testamento. La sua età matura coincide con una situazione politica sempre più pericolosa. La sua prima bambina se ne va di casa. E qualunque cosa capiti non vuole che si ripetano nella sua famiglia le brutte scene seguite alla scomparsa di suo padre Johann.

 

Oggi, libera e senza costrizioni, in pieno possesso delle mie facoltà mentali, esprimo le mie ultime volontà. Desidero e prego con tutto il cuore che dopo la mia morte non nasca alcuna discordia tra gli eredi, ma che essi accettino con gratitudine e soddisfazione quello che toccherà loro. Quella di accontentare tutti è un’arte che non conosce nessuno.
 
1. Il mio corpo dovrà essere sepolto nel cimitero di Pinzon accanto ai miei avi.
 
2. Dispongo che ogni anno, per sempre, nella cappella della Madonna di Loreto venga celebrata una messa di suffragio per la salvezza della mia anima. Le tombe devono essere sempre tenute pulite e in buono stato dai miei successori.
 
3. A mio figlio Josef lascio in eredità la casa al nr. 15 incluso quello che contiene, così come il fienile, l’Ansetz [la cantina dove si mette il mosto a fermentare, NdR], il pascolo con il frutteto e la vigna di Sölderle che gli diedi in anticipo in dono. I restanti vigneti, prati, campi, terreni dovranno essere valutati dai periti giurati e ripartiti insieme tra i miei 6 (sei) figli. Josef dovrà rilevare il tutto e pagare le sorelle come gli è possibile, contribuendo loro però l’interesse annualmente. Anche i crediti e i debiti devono essere sostenuti insieme.
 
4. La casa al nr. 14, con il fienile, la stalla, la cantina e il pascolo in alto, l’ho donata il 20 novembre 1911 al mio caro marito e spero che dopo la sua morte andrà di nuovo ai miei amati figli.
 
5. La vecchia usanza di offrire la colazione dopo la messa celebrata dal clero di Montan dovrà essere mantenuta.
 
6. Le mie figlie hanno il diritto di restare in casa fino a quando si sposeranno.
 
7. I miei successori non dovranno lesinare l’aiuto ai poveri affinché la benedizione di Dio sia sempre con loro.
 
8. I figli dovranno comportarsi bene con il loro caro padre, non dargli la minima preoccupazione e assisterlo con amore e attaccamento nella vecchiaia e nella malattia. «Onora tuo padre e tua madre affinché si prolunghino i tuoi giorni sulla terra che il Signore tuo Dio ti dà.»
 
9. Il mio ultimo desiderio è che i miei figli mantengano la loro religione e la trasmettano a loro volta, perché la fede è il nostro passaporto sicuro per l’eternità. Nell’affidare i miei cari figli alla protezione del Signore e augurare loro fortuna e felicità in futuro, li benedico in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.
 
In fede e di mio pugno
Rosa Rizzolli nata Tiefenthaler
Pinzon, 1° marzo 1925

 

Eredità
titlepage.xhtml
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_000.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_001.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_002.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_003.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_004.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_005.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_006.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_007.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_008.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_009.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_010.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_011.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_012.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_013.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_014.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_015.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_016.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_017.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_018.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_019.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_020.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_021.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_022.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_023.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_024.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_025.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_026.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_027.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_028.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_029.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_030.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_031.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_032.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_033.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_034.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_035.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_036.html