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Italiani o tedeschi?
Dopo la messa del mattino Rosa si è seduta all’ombra del tiglio che svetta nella piazza di Pinzon. Indossa un lungo abito leggero di stoffa grigia con il colletto bianco, e si è annodata intorno alla vita un grembiule candido. Ha con sé i giornali e la posta degli ultimi giorni, che non ha ancora trovato il tempo di leggere. È luglio, tra poco gli operai cominceranno la raccolta del mais e ha intenzione di andare a vedere come procedono i lavori. Anche a settembre per la vendemmia farà qualche visita nelle vigne: sono tempi duri, il vino si vende male, bisogna essere più attenti del solito. Non è il momento di scherzare con il denaro.
Lei cerca di aiutare la sua gente quanto può, ma la coperta è sempre troppo corta. E poi gli incessanti appelli alla sua generosità non vengono tutti da persone pronte a fare altrettanto. Domenica, come d’abitudine, ha invitato il parroco di Montan alla prima colazione dopo la messa. C’era anche sua figlia Gusti e il discorso è caduto sulla terribile crisi. Il religioso sottolineava l’importanza della carità cristiana, un implicito invito per una donazione alla sua chiesa.
Rosa, la cui porta è sempre aperta ai bisognosi, stavolta ha taciuto. A un certo punto si è scusata, si è alzata da tavola ed è uscita. Pochi minuti dopo qualcuno ha bussato alla porta d’ingresso e una cameriera è andata ad aprire. Sulla soglia c’era un’anziana mendicante che chiedeva l’elemosina, ha riferito a Gusti. «Mandala via» ha risposto la ragazza, e il curato le ha fatto eco. Ma la stracciona è entrata in casa, si è fatta strada verso la Stube. «Che cosa vuoi, vecchia?» ha chiesto irritato il sacerdote. «Non abbiamo niente per te.» Alla fine Gusti si è lasciata commuovere e le ha dato qualche soldo. Il prete no. E la vecchia se n’è andata borbottando. Nel giro di alcuni minuti è riapparsa Rosa, indossando ancora gli stracci con i quali si era travestita per recitare la parte della mendicante. «Ebbene, stimato padre?» ha chiesto. «Lei predica la carità cristiana ma non si sogna neppure di praticarla. Come la mettiamo?»
Rosa sorride tra sé e sé ricordando come il viso del prelato era avvampato di vergogna. Ben gli sta! Volta il capo sentendo dei passi, il suo fedele amministratore sta salendo veloce lungo la strada che porta al fienile: «Buongiorno, Gnädige Frau».
«Buongiorno a voi.» Rosa gli sorride ma poi nota la sua espressione. «C’è qualcosa che non va?»
In quel lunedì 28 luglio 1928 l’uomo sembra ancora più tetro del solito. Si rigira nelle mani il cappello di feltro, c’è una linea ben visibile sulla fronte dove il cranio calvo che cerca di tenere coperto incontra il viso riarso dal sole. Gli occhi chiari hanno un’espressione pensosa, e ha addirittura dimenticato di riaccendere la cicca di tabacco nero che fa capolino sotto i baffi.
«Succedono brutte cose in città.» Scuote il capo e Rosa capisce di che cosa sta parlando. La sua prima reazione è di sollievo: non è successo niente alle sue proprietà. Poi la invade la tristezza, stava cercando di non pensare alla notizia di cui tutti parlano da mesi. Nella sua Stube le consuete discussioni politiche si sono fatte addirittura incendiarie su quell’argomento. I fascisti hanno costruito a Bolzano un Monumento alla Vittoria, scegliendo come sito proprio le fondamenta del monumento che l’Impero austroungarico aveva cominciato a costruire dopo Caporetto, in onore dei Kaiserjäger caduti nella Grande Guerra. Oggi ci sarà l’inaugurazione. Rosa non vuole parlarne, cerca però di mostrarsi rassicurante: «Io mi ricordo ancora del giorno in cui hanno portato via le campane di Pinzon per fonderle e farne cannoni» dice. «Però mi ricordo anche del giorno in cui hanno montato quelle nuove, e abbiamo risentito la loro voce nella valle. Ci sono voluti cinque anni, ma le campane le abbiamo riavute. Dio ci aiuterà a superare anche questa nuova prova.»
«Che l’Onnipotente la ascolti. I Welschen ci portano via tutto. Presto verranno a mancarci perfino le forze per coltivare le nostre terre. Io divento vecchio, poco importa, ma che cosa ne sarà dei nostri figli? Non potranno che chinare la testa o andarsene.»
Rosa vorrebbe tranquillizzarlo, ma che cosa può rispondere? L’anno precedente lei stessa ha dovuto vedere suo figlio Josef partire per il servizio militare con l’uniforme italiana. Sotto la bandiera tricolore, la bandiera del nemico. Per fortuna non lo hanno mandato troppo lontano: ha servito per sei mesi a Innichen, in Val Pusteria. L’amministratore ha ragione, che cosa riserva il futuro? La piccola Herlinde, che Elsa ha avuto l’anno prima, sarà costretta a vivere in esilio nella sua stessa patria?
«Lo sa che cosa ha detto questo Mussolini? Ha detto che Bolzano si è sempre chiamata Bolgiano, e che è sempre stata una città “italianissima”. Ha detto che i tirolesi sono italiani che hanno dimenticato di essere tali e che devono ritrovarsi! Italiani... noi?»
Anche Rosa ha letto il discorso dell’uomo che chiamano «il Duce». L’anno prima ha ripetuto, dal suo seggio alla Camera dei deputati, che la frontiera tra l’Italia e l’Austria in corrispondenza del passo del Brennero è sempre esistita. «Ci fossero nell’Alto Adige centinaia di migliaia di tedeschi puri al 100 per cento, il confine del Brennero è sacro e inviolabile» ha sentenziato quell’uomo basso dall’aria tronfia che guida i destini degli italiani.
«Lo so, lo so» annuisce Rosa con un filo di impazienza. Che cosa può farci? Sono dieci anni che la sua patria è passata in mani straniere, dieci anni di crisi economica e di pessime notizie. Ormai sente il peso del tempo sulle spalle. Ha da poco compiuto cinquantun anni e Dio non l’ha risparmiata. Sa che dovrà ancora battersi, ma in certi giorni le capita di perdersi d’animo.
«Mamma, mamma!» chiama Hella uscendo di corsa dalla porta di casa. Corre sempre, quella sua ragazzina tutta gambe e occhi. Ha solo dodici anni ma a volte le sue domande la sorprendono, e ha uno sguardo penetrante e pensoso molto più adulto della sua età.
L’amministratore la guarda con tenerezza, Hella così espansiva e allegra è molto amata da tutti nella proprietà.
«È ora che io torni al lavoro» conclude. «E che Dio ci aiuti. Fräulein Helene, non dimentichi di venire a controllare se le mele sono mature» strizza l’occhio a Hella che sorride radiosa.
«Verrò presto!» esclama. Ama molto andare nei frutteti e «rubare» le mele dagli alberi. Non è un comportamento da signorina, ma Rosa chiude un occhio. Il suo dipendente gira sui tacchi, si calca il cappello sulla testa e si avvia verso le vigne.
«Che cosa è successo, mamma? Perché sono tutti così tristi stamattina?» vuole sapere Hella. Si siede accanto alla madre e fa scivolare una mano nelle sue. Rosa ripiega il giornale che teneva sulle ginocchia. Passa le dita tra i capelli castani della piccola. Da tempo ha stabilito che ai bambini bisogna rispondere sempre, anche quando fanno domande imbarazzanti o dolorose.
«Vedi, a Bolzano è successa una cosa che ha rattristato molte persone. Il re d’Italia è venuto a inaugurare un grande monumento. Lo hanno costruito sulla riva del Talvera e lo hanno finito in questi giorni» comincia a spiegare. Hella la ascolta con un’espressione seria. Adora le storie che racconta sua madre, soprattutto quelle in cui compaiono streghe, principesse e animali parlanti. Capisce già dall’inizio però che questa non sarà una fiaba.
«Che monumento? Come è fatto?»
«Per gli italiani è un monumento che celebra una vittoria. Ma per noi è il ricordo di una grave sconfitta.»
Riprende il giornale e mostra a sua figlia la fotografia in prima pagina. La figura prende quasi tutto lo spazio, un arco di trionfo di marmo bianco. La didascalia recita: «Il Monumento alla Vittoria». Il testo cita l’iscrizione latina che campeggia sull’architrave: HIC PATRIAE FINES. SISTE SIGNA. HINC CETEROS EXCOLVIMVS LINGVA LEGIBVS ARTIBVS.
«Che cosa vuol dire?» Il latino non è ancora alla portata di Hella. Rosa traduce per lei anche se le costa moltissimo. Quelle parole sono come uno schiaffo: «Qui sono i confini della Patria. Pianta le insegne. Da qui educammo tutti gli altri alla lingua, al diritto, alle arti».
«Ed è per questo che il signor amministratore era così arrabbiato?»
«Sì, cara. Vedi, sono stati gli italiani a costruire quel monumento e a scolpire quella frase. Noi, a differenza loro, non abbiamo proprio nulla di cui essere contenti.»
È stato Mussolini in persona a volerlo, rigirando il coltello in una piaga ancora aperta. La vittoria in questione è quella del 1918 contro l’Impero austroungarico. In un primo tempo il Duce aveva pensato di dedicare il monumento alla memoria di Cesare Battisti, l’eroe dell’irredentismo italiano, arrestato e giustiziato dagli austriaci. La vedova di Battisti, però, ha chiesto ai fascisti di lasciare in pace l’anima di suo marito, che era anche un fervente socialista. Per questo le autorità hanno optato per una dedica di riserva: «Alla Vittoria». E nell’iscrizione Roma ha aggiunto al danno la beffa, spacciandosi come una potenza civilizzatrice venuta a portare la luce a quei «ceteros» che in una versione precedente della scritta sarebbero dovuti essere addirittura «barbaros». I barbari del Sudtirolo.
«Che cosa possiamo fare, mamma?» chiede Hella.
Rosa pensa al quarto di secolo trascorso al fianco di Jakob, alle nozze d’argento che hanno celebrato, ancora innamorati, l’anno precedente. Come assicurare a Hella, che non le stacca gli occhi di dosso, una felicità paragonabile a quella? Si alza. Prende per mano la ragazzina e si avvia per il sentiero sterrato che porta a Glen. Il cielo è azzurro, il sole è caldo e l’aria profuma. Tutto intorno la natura è un tripudio di bellezza.
«Hella, quello che puoi fare è svolgere al meglio il tuo lavoro, essere generosa con il tuo prossimo e avere fede.»
«Ma se la fede non basta? Se bisogna fare la guerra? Josef si è vestito da soldato.»
«Josef è andato a imparare a fare il soldato ma è tornato. Non c’è nessuna guerra.»
Rosa prova un senso di disagio. Ha detto la verità? Quella dei fascisti contro di lei e contro i suoi non è una guerra, in fondo?
«Tesoro, cantiamo la canzone dell’allegria, vuoi?»
Hella è ancora pensosa ma capisce che sua madre vuole smettere di discutere. E la canzone dell’allegria le piace molto. Allunga il passo e unisce la sua voce a quella di Rosa:
Hab ein Lied auf den Lippen,
hab stets frohen Mut,
hab Sonne im Herzen,
und alles wird gut.
Abbi una canzone sulle labbra,
sii sempre di buon umore,
nel tuo cuore splenda il sole
e tutto andrà bene.1
«Ma tu ti senti più italiana o più tedesca?» È tutta la vita che me lo chiedono e non sarò mai abbastanza grata ai padri fondatori dell’Unione Europea perché oggi posso affermare: «Sono e mi sento cittadina d’Europa», una soluzione che trovo perfetta. C’è però anche un’altra risposta, altrettanto vera: sono sudtirolese. E in quanto tale ho vissuto confrontandomi ogni momento, su qualunque questione, con un problema: c’era sempre un punto di vista tedesco e uno italiano su tutto. E ovviamente ognuna delle due comunità perpetuava i più vieti stereotipi sull’altra. Gli italiani descrivevano i sudtirolesi come montanari nazisti e ritenevano che non avessero diritto all’autonomia stabilita dalla legge. Viceversa i tedeschi consideravano gli italiani dei bifolchi fascisti, sempre in agguato per minare le basi dell’identità e della cultura locale. Anche i rispettivi organi di informazione erano intrisi di questi pregiudizi, tanto sul passato quanto su come veniva gestito il presente. I mostri generati dal ventennio fascista erano duri a morire.
Per questo nel 1981 il primo censimento etnico organizzato in Sudtirolo scatenò tante polemiche. L’articolo 89 dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, tuttora in vigore, statuiva che i posti pubblici nella provincia di Bolzano fossero distribuiti tenendo conto della cosiddetta «proporzionale etnica», rappresentando cioè il peso dei rispettivi gruppi di appartenenza tedesco, italiano o ladino. Per dirla facilmente: se la popolazione germanofona è il 70 per cento della popolazione, deve ricevere il 70 per cento dei posti, il 26 per cento agli italiani e il 4 per cento ai ladini. Lo stesso principio si applica alle case popolari e altri tipi di sussidi e benefici. Ovviamente non è così semplice, la burocrazia non lo è mai, ma il concetto è quello.
Il problema diventava quindi come stabilire quanti tedeschi, quanti italiani e quanti ladini ci fossero in Sudtirolo. La risposta fu: chiedendoglielo. Ciascuno dovette dichiarare a quale gruppo etnico-linguistico apparteneva. Considerando che cominciavano anche a esserci nuove minoranze grazie alle migrazioni, si trattava di una vera e propria scelta di campo. Poteva avere ragioni ideologiche o anche di comodo, perché aveva effetti molto concreti. Da essa poteva dipendere il lavoro che avresti trovato, il tuo intero futuro. La dichiarazione valeva dieci anni. Oggi è sufficiente una dichiarazione di appartenenza che viene fatta una volta per tutte, ma è modificabile in qualsiasi momento. Per accedere ai posti pubblici, però, occorre anche un patentino di bilinguismo, che si ottiene superando un esame.
Nel 1981 fui fra quanti, assieme al carismatico e influente leader dei Verdi, il pacifista Alexander Langer, si espressero contro il censimento. Non gridai all’orrore della «schedatura etnica» come Langer, che scrisse parole di fuoco: «Mettiamo in guardia contro le “nuove opzioni”, contro l’imposizione delle “gabbie etniche”. Mi pare di capire con assoluta lucidità che si tratta del più grave attentato alla democrazia, del più grave avvelenamento dei rapporti inter-etnici nel Sudtirolo dall’accordo Hitler-Mussolini e le “opzioni” dal 1939 in poi. [...] Sono angosciato per questa grande operazione di razzismo legale». Io trovavo il paragone storico un po’ estremo. Ma concordavo che costringere i cittadini a fare una simile scelta approfondisse la frattura tra le etnie, anziché cercare di ricomporla.
Nel tempo ho dovuto rivedere la mia posizione, proprio come mi è capitato con la questione delle quote rosa per le donne. Quando uno squilibrio nato da un’ingiustizia si perpetua per così tanto tempo, e si radica così in profondità, una forzatura temporanea è necessaria per mettere in moto il cambiamento. Nel caso delle donne, lo squilibrio è dato da secoli di dominazione maschile che le hanno escluse dalla gestione del potere. Nel caso dei sudtirolesi, era stato creato da vent’anni di dittatura fascista che aveva fatto esattamente la stessa cosa: rimuovere i cittadini di etnia tedesca da tutti i posti di responsabilità e di comando. Per riportare l’equilibrio, la proporzionale etnica e il relativo censimento erano una soluzione certo non perfetta, ma forse necessaria. Non mancarono ovviamente obbrobri e soprusi. Ma con una storia del genere alle spalle sarebbe stato ingenuo pretendere che le cose si sistemassero da sole, senza alcun intervento legislativo.
E così, quello è stato il giorno in cui mi sono ufficialmente dichiarata tedesca. Quando mi venne chiesto di scegliere la mia «appartenenza» la mia prima reazione fu di rifiuto, per una domanda che ritenevo lontana dalla mia educazione. La mia famiglia non era certo ossessionata dal problema identitario, anzi per i parenti il nostro nucleo familiare era troppo «contaminato» dai rapporti con gli italiani. Eravamo quelli un po’ Welschen, soprattutto dopo che per otto anni, a metà dei Sessanta, avevamo abitato a Verona dove mio padre aveva trasferito la sua attività. Ovviamente però non potevo che decidere per il gruppo tedesco.
Certo, la croce su quel foglio nel 1981 non fu priva di conseguenze. Non lo avevo previsto, anche perché non pensavo di lavorare nella pubblica amministrazione e nemmeno di restare in Sudtirolo. E invece, qualche problema sul lavoro ci fu.
All’inizio degli anni Ottanta lavoravo per la televisione. Si cominciava ad avvertire il bisogno di una nuova generazione di giornalisti, nati in un tempo in cui i traumi dell’occupazione fascista fossero storia, e non cronaca. Anche per questo, nel 1984, la redazione del Tg3 dell’Alto Adige richiese, con una mozione al caporedattore votata all’unanimità, che fossi assunta io, che lavoravo per il canale di lingua tedesca della Rai. Il loro timore era di vedere arrivare l’ennesimo raccomandato, spedito a caso a occupare il posto vacante. In genere queste perle giunte da Roma non parlavano la lingua e piombavano nella contrastata realtà locale preparati e pertinenti come abitanti della luna. Io ero giovane, donna, perfettamente bilingue, e fui assunta anche con una sorta di funzione-ponte tra i gruppi etnici.
La mia era stata una scelta strana, succedeva di rado allora che si passasse da una pubblicazione o televisione tedesca a una italiana, o viceversa. Tanto è vero che alla notizia della mia assunzione alcuni italiani insorsero perché avevo occupato un posto «loro». Che tornassi dai «miei» tedeschi, dicevano. Invece rappresentare entrambi, e rendere giustizia a tutti, mi stava molto a cuore. Sia che percorressi le vette a caccia di epigoni di Andreas Hofer, sia che mi aggirassi per Bolzano a intervistare le donne in occasione dell’8 marzo. Per fortuna ebbi in tutte le redazioni grandi maestri, come Silvano Faggioni, Piero Agostini e Hansjörg Kucera che mi insegnarono non solo il mestiere ma anche il rigore professionale. L’amore per le frontiere sarebbe diventato una costante del mio lavoro giornalistico. Viene da lì, dalla frontiera che avevo dentro.
Due anni dopo la triste giornata in cui i sudtirolesi hanno visto scoprire il Monumento alla Vittoria, che provocherà tante polemiche anche negli anni a venire, Hella parte per un anno di studi in un collegio di Salisburgo. L’Italia che nell’agosto del 1930 si lascia alle spalle salendo sul treno è un Paese ormai soggiogato dal regime fascista. E anche la morsa sul Sudtirolo si è stretta. Già dalla metà degli anni Venti, l’unico ambito in cui la lingua tedesca viene tollerata sono le funzioni religiose. La Chiesa cattolica ha fatto e continua a fare moltissimo per permettere la sopravvivenza della cultura perseguitata. La casa editrice Tyrolia ha ottenuto il permesso di continuare le pubblicazioni in tedesco, ma per adeguarsi alla censura che proibiva l’uso della parola «Tirolo» si era dovuta rinominare Athesia. Con l’appoggio del Vaticano i parroci sono stati ritirati dalle scuole, dove l’insegnamento della religione si deve svolgere in italiano, e sono invece state istituite le Pfarrschulen, scuole parrocchiali, dove si prega e si fa lezione in tedesco. I fascisti sono costretti a tollerarle: nel 1929 c’è stato il Concordato e non possono certo rifiutare che ai bambini venga impartito il catechismo. Anche se sanno benissimo che sotto lo schermo dell’insegnamento religioso si trasmettono la lingua e la cultura tedesche. Quindi si accaniscono con più foga in tutti gli altri ambiti della vita civile. Nel 1926, i sindaci sono stati sostituiti dai podestà, di nomina governativa. Ovviamente, italiani. Non mancano alcune eccezioni, ci sono sindaci di etnia tedesca che hanno deciso di collaborare e hanno mantenuto il loro posto.
I bambini sono stati inquadrati nella Gioventù fascista, i maschi si vestono da balilla e le femmine da piccole italiane. Per loro è un gioco, fanno ginnastica e cercano di divertirsi, ma a casa queste divise non piacciono affatto. Molti genitori si ribellano, e per i piccoli non è una vita facile. Quando passa da Neumarkt il cinema ambulante, durante l’estate 1926, i ragazzini aspettano entusiasti che venga montato il palco, con le sedie e lo schermo, nella piazza del paese. Si proietta La montagna sacra, un film con Leni Riefenstahl, un’attrice e regista che si sta facendo un nome in quegli anni e che più tardi diventerà la creatrice dell’immagine potente e suggestiva del regime nazista. È una storia d’amore, non di politica. Ma i genitori tedeschi scelgono di boicottare lo spettacolo, perché si rifiutano di cantare l’inno fascista prima della proiezione.
Molti non rinunciano a protestare. Bruciano bandiere italiane, cantano inni tedeschi e manifestano pubblicamente la propria ostilità al regime. Pagano con il carcere o l’esilio, sempre più spesso. Hans, il figlio di Luise, ha rischiato grosso quando ha accompagnato i suoi figli dal podestà restituendogli le divise da balilla con cui sono tornati a casa da scuola. «I miei figli mai le indosseranno» ha detto chiaro e tondo nel suo italiano dal forte accento. Il podestà, temendo una reazione dell’intero paese, ha lasciato correre. La famiglia Tiefenbrunner-Tiefenthaler è molto influente. Ma è ormai finita sotto la lente del regime e pagherà lo scotto di questa resistenza.
Sempre nel 1926, un regio decreto ha approvato la cosiddetta re-italianizzazione dei cognomi tedeschi che a detta di Ettore Tolomei sono di presumibile origine italiana. Questo «lavacro dei nomi» mira a coinvolgere l’80 per cento dei cognomi della popolazione che, secondo i deliranti progetti, devono ritornare alla loro presunta originaria forma latina. Nel giro di qualche anno, ben quattromila saranno cambiati forzatamente, in qualche caso con risultati grotteschi. Ci sono casi di fratelli che, italianizzati presso uffici diversi, riceveranno cognomi differenti a seconda della traduzione scelta dall’impiegato. I criteri sono a volte una traduzione letterale, ma spesso puramente fonetici: Fuchs diventa Volpi ma Gogl viene trasformato in Golfi, Bernlochner in Baldi, Bischof in Bisofi.
Tra il 1926 e il 1928 tutto il Parlamento italiano è stato fascistizzato e le minoranze tedesche e slave sono state le prime vittime: da quel momento, non avranno più alcuna rappresentanza nell’assemblea nazionale.
Alla fine del 1926, la censura ha messo a tacere tutti gli organi di stampa sudtirolesi, esclusi quelli cattolici. Ma il quotidiano «Der Tiroler» è stato costretto a ribattezzarsi «Der Landsmann» ed esce sempre più spesso con ampi spazi vuoti in prima pagina a causa della censura. Infine, adducendo motivazioni legate alla sicurezza dello Stato, si è disposto lo scioglimento dei partiti tedeschi e di ogni associazione, anche quelle religiose o sportive.
Anche l’Austria che Hella, quattordicenne, ha modo di conoscere nel corso del suo anno di studi salisburghese, nel 1930, è molto diversa da quella descritta nei libri che le presta il cugino Hans. Salisburgo è la città di Mozart, e per lei che viene da una famiglia così amante della musica i concerti sono la prima attrattiva. Ed è bella, con il fiume che l’attraversa scintillando, le montagne che la circondano, le cupole barocche delle chiese e i palazzi moderni. Ci sono parecchie automobili per strada, più di quante ne abbia mai viste. Ma sui marciapiedi si incontrano molti mendicanti, la gente non è sempre disponibile a dare indicazioni, si respira una forte tensione. Il sabato e la domenica non di rado ci sono grandi manifestazioni operaie, migliaia di persone in piazza che urlano e protestano. Spesso la polizia è costretta a intervenire, a picchiare i più facinorosi.
Hella si accorge come il fascismo sia presente anche nell’Austria che considerava un’isola felice. Per strada, si incontrano squadracce di miliziani. Da anni il fascismo italiano le finanzia per tenere a bada tutti coloro che spingono verso l’Anschluss, l’annessione alla Germania. Dai fascisti è vista come il primo passo per annettere anche il Sudtirolo.
Hella scrive spesso a casa, ma la corrispondenza ci mette tanto ad arrivare e le buste sono sempre aperte dalla censura, che legge tutto. Si parla quindi solo delle vicende familiari, delle novità nel paese, senza alcun riferimento alla situazione politica o alle difficoltà economiche. La disciplina nell’internato è molto rigida, non sono tante le occasioni di svago. Hella cerca di studiare, di capire, di confrontarsi con le altre sue compagne. Quelle tedesche le raccontano di una Germania in difficoltà, dell’inflazione, della povertà in aumento. Berlino è piena di straccioni e ubriaconi. Hella a sua volta parla delle sue montagne, di Pinzon e di Entiklar, ma anche del fatto che lei e i suoi sono costretti a parlare la loro lingua di nascosto. Persino le iscrizioni sulle tombe devono essere scritte in italiano. Le sue amiche non riescono a credere che al Comune le abbiano cambiato il nome in Elena.
«Le cose però si stanno muovendo. Vedrai, tutto si sistemerà» le dice una sera un’amica che fa già l’ultimo anno.
«E come? Il fascismo è fortissimo e noi non possiamo difenderci.»
«Ci penseremo noi, la Germania, a salvarvi. Il Sudtirolo tornerà tedesco come è sempre stato.»
«E come?»
«C’è un uomo in Germania. L’ho sentito parlare una volta, a Monaco, un giorno che ero uscita con mia madre. Stava su un palco, con dietro delle bandiere rosse, nere e bianche. Dovevi vedere quanta gente c’era! Diceva che la Germania deve tornare grande, potente. Quanto sudava! Mia madre poi si è informata, ha chiesto chi era.»
«E chi era?» chiede Hella che ha ascoltato col fiato sospeso.
«Si chiama Adolf Hitler. E ci tirerà tutti fuori dai guai.»
Un anno passa in fretta. Nonostante la nostalgia della sua terra, a Hella sembra che il tempo trascorso a Salisburgo le abbia aperto gli occhi. Le pare di capire molto meglio, ora, cosa sta succedendo a casa. E cosa dovrà fare appena tornata.