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«L’anno è cominciato nel sangue»

Alla vista degli occhi arrossati di Luise il cuore di Rosa si spezza. Nella chiesetta di Margreid sua sorella è sorretta dai figli, e intorno a lei è raccolta la famiglia colpita da una nuova tragedia. Il sacerdote abbassa l’aspersorio dopo aver benedetto un’ultima volta il corpo senza vita di Johann Tiefenbrunner. Il marito di Luise è morto di un’epatite fulminante. I medici hanno tentato di operare, ma è stato tutto inutile. È il maggio del 1917, e Luise è rimasta sola, a quarantaquattro anni con cinque figli. Il maggiore, Johannes detto Hans, ha già diciannove anni, ma è a lei che è affidata la gestione dei vasti possedimenti e del castello di Entiklar. Il tutto in una congiuntura economica pesantemente segnata dalla guerra.

Rosa si avvicina a Luise e la abbraccia. Oggi tocca a lei consolare la sorella maggiore, proprio come Luise aveva fatto con lei il giorno in cui la mamma, Anna, se n’era andata per sempre. La stringe forte. «Dio ci guarda da lassù» le sussurra. «Lui saprà infonderti il coraggio per rispettare la Sua volontà.» Dentro di sé ringrazia il cielo che suo figlio Josef sia ancora piccolo: Hans è già soldato e dopo questo breve congedo, che ha avuto per il funerale del padre, Luise lo vedrà ripartire per il fronte.

Sul sagrato della chiesa prende forma il corteo che accompagnerà la salma di Johann al cimitero di Margreid. La famiglia, i dipendenti della tenuta e gli abitanti del posto e dei villaggi vicini sono venuti a porgere l’estremo saluto.

La processione si avvia, il passo pesante e cadenzato. In lontananza la valle dell’Adige risuona delle esplosioni dei campi di battaglia. Gli scontri tra austriaci e italiani sono frequenti sul fronte alpino, e col vento arriva il rimbombo delle cannonate.

I volti sono gravi, la morte di Johann pesa sui cuori di tutti. Alla tristezza del lutto si mescola l’angoscia di una vita quotidiana che si sta facendo ogni giorno più dura.

«A che cosa serve combattere? Un giorno guadagnano terreno, il giorno dopo devono indietreggiare. E intanto centinaia di ragazzi vengono massacrati!» rumina una donna anziana.

«E questi aerei che sorvolano il villaggio? State a vedere, uno di questi giorni ce ne cadrà uno in testa!» le fa eco un’altra.

Rosa le ascolta e capisce che parlano per farsi sentire da lei. Come se la signora potesse intervenire, compiere un miracolo, alleviare le pene dei compaesani. Ma per quanto possano considerarla una sorta di fata buona, una tragedia di queste proporzioni è ben al di là delle sue forze.

«I militari hanno aumentato ancora la quota di prodotto requisito, è la volta che moriremo di fame» le dice uno dei mezzadri, che avanza al suo fianco. «Il raccolto non è ancora nei granai, e già ce lo portano via.»

«Lo so bene» risponde Rosa, che è venuta a pregare per l’anima di un morto, ma viene assalita dalle paure dei vivi.

Perfino a Pinzon deve lottare ogni giorno per sfamare tutti. La carne, il burro, le uova, la farina, lo zucchero e il formaggio non bastano mai, e hanno raggiunto prezzi proibitivi. Ecco che il corteo funebre raggiunge il cimitero, e lo scalpiccìo delle scarpe e degli zoccoli sui ciottoli del sentiero si va smorzando. Una alla volta, le conversazioni si spengono.

Qualcuno osserva ancora a mezza voce: «C’è chi nasce per diventare milionario, e chi è costretto a chiedere la carità». Rosa si volta, ma non riesce a capire chi ha parlato.

A quel punto cala il silenzio e il curato prende la parola: «Fratelli, non dimenticate che Gesù ha detto alla sorella del suo amico Lazzaro: “Io sono la Resurrezione e la Vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà”».

 

 

Il 21 novembre 1916 è scomparsa un’altra persona molto importante per Rosa, ma lei non ha potuto assistere al suo funerale. Aveva cercato per un’ultima volta la sua figura tra la folla di Innsbruck, quando il mondo era ben diverso: l’imperatore Francesco Giuseppe. Ora è morto, a ottantasei anni, lasciando incompiuta una guerra che aveva sostenuto. Probabilmente ha chiuso gli occhi senza sospettare di aver precipitato il suo Impero in un’impresa avventata che lo distruggerà. Era salito al trono nel 1848 e aveva regnato per sessantotto anni come un monarca benevolo, sforzandosi di tenere in vita le tradizioni del potere dinastico. Ma le tensioni nazionalistiche interne all’Impero avevano ormai messo radici profonde. L’idea di governo di cui era portatore è irrimediabilmente tramontata.

 

Ogni sera, prima di andare a dormire, guardo fuori nella notte – e se vedo una graziosa stellina, le chiedo: quando tornerà la pace? Ma le dolci stelle tacciono, mute come una tomba; anche la luna, la vecchia e fedele luna, è diventata muta e i suoi raggi illuminano come fari le nazioni in lotta e le tombe abbandonate degli eroi. Attraverso le nuvole nere levo al cielo una fervida preghiera di ringraziamento perché ho mio marito, il mio più grande tesoro su questa terra. Ma sono una persona di cuore e sento l’altrui dolore, perché il dolore condiviso è mezzo dolore.
Il nostro amatissimo imperatore Francesco Giuseppe non è riuscito a vedere la pace. È andato là dove lo aspettano i valorosi del suo popolo, coloro che non hanno avuto paura di morire per il loro sovrano. Il nostro giuramento vale ora per il suo successore, l’imperatore Carlo I. A lui vogliamo restare uniti e fedeli resistendo fino alla vittoria o alla morte.
L’anno nuovo è cominciato nel sangue, la pazienza è messa a dura prova. È fortunato solo chi trova consolazione nella preghiera. Oh Signore, liberaci dal male!

 

Per Rosa, come per molti sudtirolesi, la figura di Francesco Giuseppe ha sempre significato autorevolezza paterna e infallibilità. L’emblema di un mondo più semplice e sicuro. Al tempo stesso la nostalgia che le ispira il ricordo del vecchio sovrano è macchiata da una punta di amarezza. I suoi amici viennesi le hanno parlato delle voci che circolavano nella capitale sull’attentato di Sarajevo. Sembrava che l’imperatore avesse usato parole molto dure: non aveva mai perdonato a suo nipote Francesco Ferdinando, l’erede designato, di aver sposato una semplice contessa. Aveva autorizzato il matrimonio, ma non aveva mai concesso alla nuora Sofia gli onori dovuti al suo rango. Alla notizia della morte dei due sposi, Francesco Giuseppe aveva sospirato: «Finalmente una forza superiore è intervenuta per disfare un imbroglio che io non ho saputo impedire».

Come sempre, Rosa si confida con il suo diario. Un tempo aveva creduto alla vittoria, ora desidera solo il ritorno della pace.

 

Pinzon, 25 gennaio 1918
 
Oggi è domenica e fuori è così tetro che si sta volentieri seduti in casa al caldo, nella Stube... Chi ha la fortuna di averne una. Molta povera gente è costretta a patire il freddo per via della penuria di carbone. L’anno vecchio se n’è andato lasciandoci tanto tristi, ma con la speranza che il «1918» compenserà tutto e porterà la pace. Sui giornali si legge che sono in corso le trattative di pace, ma ci hanno ingannato così tante volte che nessuno ci crede più. Per poter portare avanti rapidamente l’offensiva contro l’Italia e la Francia, devono essere di nuovo chiamati alle armi in molti.
O così o così!
[...] Abbiamo mandato le nostre due figlie maggiori a Bressanone nel collegio delle Dame inglesi, gli altri tre frequentano la scuola del paese. E la piccolina? Gironzola per casa e sa farsi valere. Con i generi alimentari va sempre peggio, perché i cereali vengono requisiti fino alla quota prescritta e a questo si aggiungono i furti ormai quotidiani; la gente non sa più cosa sono i comandamenti. È un inverno molto freddo e i primi a farne le spese sono i poveri soldati. Il morale poi è molto basso, si trema al pensiero dei figli.

 

In quel primo scorcio dell’anno 1918 le cose si stanno mettendo male. I giornali elogiano in continuazione le valorose schiere dell’Impero, ma Rosa ha ormai capito che le guerre non si vincono con il coraggio, né purtroppo con i sacrifici quotidiani. Le grandi potenze – la Francia, la Gran Bretagna, l’Italia, e perfino gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia – si sono tutte alleate contro gli austriaci e i tedeschi. Si preparano tempi ancora più difficili.

Sul fronte serbo, dove tutto è cominciato, la vittoria su Belgrado è stata rimessa in discussione. I superstiti dell’esercito serbo hanno ripiegato sulla Grecia, e qui hanno serrato i ranghi e si sono riorganizzati. La Grecia e la Francia hanno dato loro manforte. La linea del fronte è stata sfondata, la determinazione dei soldati bulgari non è servita a molto. Nel settembre del 1918 sarà proprio la preziosa alleata dell’Austria e della Germania, la Bulgaria, a capitolare per prima. Sarà l’inizio della fine.

A est, nel frattempo, la Russia è alle prese fin dal 1917 con una rivoluzione che annuncia l’alba di una nuova era nella storia del mondo. E che ha deciso il ritiro delle truppe zariste. Anche l’Impero ottomano si sfalda, e i vincitori si spartiranno la sua carcassa.

Sul fronte occidentale, in Francia, l’anno si è aperto con un’offensiva tedesca. Le manovre di marzo garantiscono una vittoria rapida, consentendo alle truppe del Kaiser Guglielmo II, re di Prussia, di aprirsi un varco e di attestarsi a soli 150 chilometri da Parigi. L’avanzata, però, sarà bloccata, e nella seconda metà dell’anno l’iniziativa passerà alle forze alleate, che in agosto attaccheranno su tutta la linea.

L’esercito prussiano non è in grado di tenere testa a una coalizione di forze francesi, inglesi, americane, canadesi, australiane e perfino neozelandesi. Le perdite sono enormi, i caduti, i mutilati e i feriti si contano a milioni. Nei ranghi della truppa, tra i soldati stremati, il senso dell’assurdità di quell’uragano di violenza è ormai così palpabile che le diserzioni si moltiplicano. In settembre lo stato maggiore ha ormai capito che la sconfitta è inevitabile.

A nulla servirà il cessate il fuoco che la Germania proporrà per il tramite degli americani. La guerra ha sprofondato l’economia tedesca nel caos. La miseria dilaga. La rivolta sta già covando sotto la superficie. Il 9 novembre del 1918 l’Impero tedesco cessa di esistere e al suo posto viene proclamata la Repubblica di Weimar. L’11 novembre la Germania sceglie di capitolare.

Dopo la battaglia di Caporetto, tra l’ottobre e il novembre del 1917, austriaci e tedeschi hanno avuto la meglio sull’Italia sul fronte dell’Isonzo. Le truppe del Regno sabaudo sono state sbaragliate e decine di migliaia di soldati sono caduti prigionieri. Rosa ricorda ancora il giorno di metà novembre in cui la notizia della vittoria è giunta a Pinzon: gli ufficiali austriaci hanno bevuto, cantato e ballato fino a notte fonda. Ma pochi mesi dopo la situazione si è rovesciata con la battaglia di Vittorio Veneto, e ora l’esercito dell’imperatore è costretto a battere in ritirata.

Anche l’Austria è costretta a chiedere il cessate il fuoco. L’Impero sta andando a pezzi, con le dichiarazioni di indipendenza di Budapest, Praga e Zagabria. Il 29 ottobre sarà Vienna a proporre agli italiani un armistizio. Sarà firmato il 3 novembre a Villa Giusti.

Nel giro di alcuni mesi, nel 1919, verranno siglati i trattati di pace di Versailles e Saint-Germain-en-Laye. I principi dettati agli europei dal presidente americano Woodrow Wilson riconosceranno alle minoranze il diritto all’autodeterminazione. Eppure il Sudtirolo, passato sotto il controllo degli italiani in seguito agli accordi sottoscritti con l’Inghilterra e la Francia, non avrà alcuna voce al tavolo delle trattative.

 

 

Per Rosa il Brennero resterà una bruciante ferita aperta. Sarà lo stesso per tutti gli abitanti del Sudtirolo, sudditi dell’Impero, cittadini austriaci ora soggetti a un nuovo governo, quello di Roma. Non c’è da stupirsi che vivano l’arrivo degli italiani come un’occupazione straniera, la divisione del Tirolo come un’amputazione. E il distacco dall’Austria come una ingiusta separazione dalla madrepatria.

Günther Pallaver, brillante professore di Scienze politiche all’università di Innsbruck, mi ha raccontato che suo nonno Battista, chiamato Tittele, di origine trentina, nato nel 1869 che faceva il mezzadro, usava dire: «Sen trentini ma no sen italiani: sudtirolesi». I due popoli si conoscevano ovviamente prima dell’annessione. Avevano rapporti di buon vicinato, molti trentini emigravano in Sudtirolo per lavorare, la borghesia sudtirolese mandava i figli a imparare l’italiano. Ma, come scriveva lo storico giornalista Claus Gatterer, «il trauma per i tirolesi a sud del Brennero nel 1919 non era [...] l’incontro con gli italiani, ma l’incontro con lo Stato italiano come ordinamento, e se si vuole come sistema di valori». La burocrazia, il centralismo, gli amministratori inefficienti: è l’impatto con questa realtà che dà ai sudtirolesi l’impressione di essere stati invasi dai barbari.

Per colmo di sfortuna, nel giro di un paio d’anni il colpo di Stato di Mussolini porterà al potere i fascisti. Che non solo perseguiranno una politica di colonizzazione economica e culturale, ma, mi ricorda Pallaver, manderanno in Sudtirolo i loro burocrati più inetti, non proprio la crema.

È per toccare con mano le radici di questo trauma che decido di andare al Brennero. È il paese in cui Rosa andava a passare le acque, quando i problemi alla cistifellea si aggravavano. Ma «il» Brennero è soprattutto un passo. Uno dei più bassi delle Alpi, da secoli offre una via di passaggio tra l’Europa centrale e la penisola italiana. La costruzione di una ferrovia, nel 1867, dieci anni prima della nascita di Rosa, ne ha fatto un luogo cruciale per gli scambi economici e per la strategia militare.

Parto, assieme a mio marito Jacques, per il comune di Brennero, e non è solo un viaggio nella storia turbolenta di inizio secolo, ma anche nella mia storia personale.

Sono cresciuta a Vill, vicino a Neumarkt, in una casa immersa nei vigneti, che guarda la valle dell’Adige. Per poter vedere la Bassa Atesina dalla chiusa di Salurn fino quasi al passo del Brennero mi basta salire, circa mezz’ora di marcia a passo alpino, fino a Castelfeder. È un’altura selvaggia e silenziosa, disseminata di antiche pietre e aspre piante di cardi, intrisa di suggestioni. Fa quasi paura quando il tempo cambia, le nuvole ti sorprendono inseguendoti rapide e scure e le ombre scorrono sull’erba e richiamano dalle rocce le anime del passato. In quell’insediamento i Reti fecero sacrifici ai loro dèi, i Romani costruirono fortificazioni, e i signori medievali coltivarono i loro sogni di gloria. La valle fertile e popolosa che contemplo una volta arrivata in cima non era altro, allora, che un acquitrino malsano. Ma oggi capisco chi ha dedicato la vita a difenderla.

In basso corrono una ferrovia e un’autostrada trafficata. Da ragazzina, quando aprivo la finestra della mia camera, sentivo il rumore di treni e camion. In estate si aggiungevano colonne di caravan, le grandi migrazioni turistiche che hanno preso il posto delle invasioni e delle conquiste.

 

 

Si impiega meno di un’ora per coprire il tragitto tra casa mia a Neumarkt e il comune di Brennero. C’è una sola strada, bordata di ristoranti, con negozietti di vestiti e accessori vari e la facciata rossa di un enorme centro commerciale dove gli austriaci vengono a fare provvista di salumi, formaggi e moda italiana. Mi avvicino a una donna dai capelli neri e dal sorriso luminoso, proprietaria di una piccola boutique di souvenir. Mi riconosce e tiene a farmi sapere che non ama i giornalisti, non vuole che faccia il suo nome. «La stampa ha sempre giocato sporco con noi» sentenzia, spiegando che i giornali amano descrivere il passo come un luogo di contrabbando e traffici loschi. Per lei, invece, è soprattutto un angolo di Italia allo sbando. «Non c’è più niente» dice. «Non abbiamo neanche più una parrucchiera, non una farmacia, il medico viene due ore a settimana.»

Considera il suo villaggio una vittima dei cambiamenti che hanno investito il mondo. L’eliminazione delle frontiere interne dell’Europa ha stroncato la principale risorsa economica del luogo: la dogana e le attività di intermediazione. Poi è venuta l’autostrada, che ha dato il colpo di grazia dirottando sulle sue corsie veloci le colonne di camion. Non ha tutti i torti: nessuno passa più da Brennero. L’unica distrazione sono i motociclisti provenienti dai quattro angoli della terra che percorrono la vecchia statale per guidare su una strada più gradevole e interessante. Mi imbatto infatti in un drappello di australiani in viaggio verso nord, bardati di cuoio, che si fotografano a vicenda accanto alla pietra che segna il confine, il «cippo».

Le terme che Rosa ha visitato nel 1906 hanno chiuso i battenti, vittima di un contenzioso legale. Eppure, la mia interlocutrice ne è convinta, la loro riapertura potrebbe attirare turisti: l’acqua che sgorga in quel punto è in grado di curare ogni sorta di malattie. Realtà o illusione? Chi può dirlo, in questa valle in cui il vento, prigioniero tra le montagne, soffia senza posa. Il paese ha circa centocinquanta abitanti, ma gli autoctoni sono rimasti quattro gatti. Le famiglie tradizionali se ne sono andate, o si sono estinte. Chi è rimasto si lamenta degli immigrati, soprattutto pakistani, che si sono stabiliti in paese.

Al vicino bar Anita incontriamo la memoria storica locale: il signor Remo. Ha settantasette anni, un’aria fragile e mingherlina nella sua giacca a quadri, ma un atteggiamento ben più positivo della sua compaesana. «Qui siamo nel cuore dell’Europa» dichiara, ben felice di condividere qualcuno dei suoi ricordi. Accetta di farci da guida e ci accompagna alla stazione. «Giocavo proprio qui con gli altri bambini» racconta mentre costeggiamo il binario lungo il quale Mussolini è venuto ad attendere Hitler. Ricorda ancora il freddo che faceva, la pelle delle mani nude che si incollava all’acciaio gelato delle porte dei vagoni, su cui si arrampicava insieme ai suoi amici. Ha ben vivi nella mente i bombardamenti americani, che prendevano di mira le stazioni ma per sua fortuna spesso le mancavano. Insieme ai suoi genitori, zaino in spalla, cercava rifugio nei boschi, nelle grotte sul fianco della montagna. Una targa su un muro commemora l’«incursione aerea» del 21 marzo 1945, che ha ucciso dodici civili e un ufficiale di polizia italiano. Remo racconta anche che dopo il 1943 sua sorella cercava di portare da mangiare ai prigionieri rinchiusi nei vagoni che attraversavano il passo del Brennero. «Weg! Weg!», «circolare, circolare», urlavano le sentinelle naziste per scacciare la ragazzina, che non sapeva nulla di ebrei e campi di sterminio.

Proprio in questa stazione, vent’anni dopo la frattura del 1918, si sono consumati altri eventi che hanno forgiato il destino del Vecchio Continente. Uno dei più nefasti è stato la stretta di mano nel marzo 1940 tra Adolf Hitler e Benito Mussolini. I due tiranni sorridevano, allora, incontrandosi sul binario. Siglato a Berlino il «Patto d’acciaio», riaffermarono qui la loro alleanza, anche dopo aver gettato il mondo in un conflitto che si sarebbe rivelato il più mortale della storia. E che avrebbe scatenato l’orrore più spaventoso con l’annientamento sistematico di sei milioni di ebrei.

Come una mera nota a piè di pagina della grande tragedia che si sta preparando, in quell’incontro Hitler conferma a Mussolini che abbandonerà la comunità tedescofona del Sudtirolo. Rinnegherà chi aveva creduto di trovare nella Germania nazista un Paese protettore, l’erede della grande Austria, ridottasi nel frattempo a una provincia del Terzo Reich.

La mia guida mi conduce nel cimitero, accanto alla chiesetta di San Valentino. Sono tutti sepolti nella stessa terra: quelli che pregavano in italiano e quelli che pregavano in tedesco. Queste vette non hanno più storie da raccontare, né tristi né gioiose, il passo è diventato il simbolo di un continente senza più frontiere, dove certe lezioni sono state apprese. Ma sarà poi così vero? A quasi un secolo dal crollo degli imperi centrali, una nuova e grave crisi economica, politica e morale minaccia oggi con i suoi sconvolgimenti la costruzione di un’Europa riconciliata.

Eredità
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