La lacerazione

Rosa ha il cuore pesante. Seduta nel salone della sua grande casa, fissa le pareti rivestite di legno. La catastrofe infine è accaduta.

Con la schiena dritta nel vestito grigio a collo alto, apre sullo scrittoio il diario rivestito di pelle marrone a cui confida i suoi pensieri. Prende una penna e la intinge nell’inchiostro nero. Il suo antico corsivo tedesco è una calligrafia regolare, leggermente inclinata. Comincia a raccontare un nuovo episodio della sua storia, a discendenti che non incontrerà mai.

Innanzitutto annota il luogo in cui si trova, «Pinzon». Non ha mai lasciato, se non per brevi viaggi, questo minuscolo villaggio del Sudtirolo dove ha iniziato a scrivere il diario, sedici anni prima. È qui, sulle alture che dominano l’Adige, che ha ancorato la sua vita. Tra le vigne, i meleti e i grandi alberi che ricoprono di un verde intenso i fianchi della montagna.

Aggiunge la data: «novembre 1918». Non ha bisogno di essere più specifica. Per lei, l’intero mese significa infelicità: ha portato la sconfitta e una dolorosa lacerazione. E annuncia nuove tragedie. Rosa sa che il suo mondo è crollato, che la sua vita non sarà mai più la stessa. Che la sua famiglia, la sua comunità, la sua identità sono in pericolo.

Questa donna di quarantun anni ha un viso aperto e generoso, illuminato dagli occhi azzurri. Gli zigomi sono alti, il naso regolare e la bocca ben disegnata. Ha gettato sulle spalle uno scialle di lana per combattere il freddo. L’inverno si annuncia gelido e manca la legna per alimentare la grande stufa di maiolica bianca che troneggia in un angolo della Stube al primo piano, la stanza foderata di legno di abete riservata alla famiglia e agli intimi.

Rosa comincia a scrivere: «Sono arrivati i giorni più turbolenti della guerra». Di tanto in tanto si interrompe per tendere l’orecchio. La sua ultimogenita, Helene detta Hella, che a maggio ha compiuto due anni, si è addormentata e Rosa veglia sul suo sonno tranquillo. Per questa bambina il mondo sarà un posto completamente diverso, dovrà crescere in un universo che sua madre non conosce e non riesce ancora a immaginare. Potrà mai essere felice?

 

Si è concordato l’armistizio con l’esercito italiano, ma gli italiani l’hanno accettato solo quattordici giorni dopo in modo da passare il confine senza fatica. La carestia, il tradimento, la miseria... Le molte nazioni dell’Austria si sono viste perdute, si è giunti al terribile crollo. Si salvi quello che si può. Il giorno dei morti sembrava che la tromba chiamasse i vivi e i defunti al giudizio finale. È impossibile descrivere la ritirata, chi l’ha vista con i propri occhi porterà quelle immagini impresse nel cuore. Ungheresi e cechi se la sono data a gambe gli uni dopo gli altri, saccheggiando i depositi delle provviste, incendiando paesi e città, uccidendo chiunque si avvicinasse, rubando cavalli e carri ai loro proprietari per tornare a casa più in fretta o per venderli e procurarsi un ricco bottino.
I soldati italiani sono arrivati subito dopo, cosa che per noi, da una parte, è stata una fortuna.
Quello che gli uomini e gli animali potevano trascinare è stato portato via immediatamente dai magazzini della ferrovia, ognuno pensava solo a se stesso; il giuramento a Dio, all’imperatore e alla patria ormai non ha più valore.

 

Gli eventi del novembre 1918 mettono fine a un periodo difficile della vita di Rosa Rizzolli, nata Tiefenthaler. La guerra in Europa, che si è appena conclusa con la sconfitta dell’Impero austroungarico e della Germania guglielmina, ha scandito a lungo la vita nella casa di Pinzon. Quel tranquillo paesino è stato scelto, fin dall’inizio delle ostilità, per ospitare un comando dell’esercito austriaco. Più in alto sul versante della montagna, alcuni prigionieri russi hanno costruito un tratto di ferrovia, fondamentale per approvvigionare il fronte. E la grande casa di Rosa e di suo marito Jakob, la più bella dimora di Pinzon, è stata requisita. Si è riempita di ufficiali e i soldati si sono acquartierati negli edifici annessi, come la stalla e il magazzino. Jakob è stato mobilitato e trasferito a Bolzano, una ventina di chilometri più a nord, per fortuna lontano dalla zona dei combattimenti. Rosa però ha dovuto affrontare da sola le incertezze del tempo di guerra. E in questa tempesta ha dovuto crescere le quattro sorelle maggiori della piccola Hella – Elisabeth, Auguste, Maria e Berta – e il fratello Josef, unico e prezioso erede maschio della famiglia. Anche a sua sorella Luise non sono mancate le preoccupazioni: il figlio maggiore Hans, erede del vasto patrimonio familiare, è appena tornato ferito dal fronte.

Rosa apre il suo diario, in cui non scrive da oltre quattro mesi, pochi giorni dopo l’avvenimento che trasformerà radicalmente il destino di una regione, dei suoi abitanti e dell’Europa intera. Il 10 novembre 1918, nel pomeriggio, un veicolo dell’esercito italiano si è fermato nel centro del villaggio di Brennero, sul passo che d’ora in avanti diventerà il nuovo confine del Regno d’Italia. Ne è sceso un generale seguito dai suoi ufficiali che ha assistito, soddisfatto, alla ritirata dei soldati austriaci e ungheresi. Le truppe, in fuga già da diversi giorni, si sono battute per difendere la sovranità dell’Impero degli Asburgo sulle regioni dell’Istria, del Trentino e del Tirolo. Ma sono state sconfitte. Il 3 novembre è stato firmato l’armistizio, a Villa Giusti, nei dintorni di Padova. In seguito a questo accordo l’imperatore Carlo I dovrà rinunciare anche al Sudtirolo. Una terra che per Rosa è la Heimat, la sua patria. Una regione le cui popolazioni parlano il tedesco, legata all’Impero asburgico da secoli di storia e di cultura condivisa.

Nei giorni che seguono l’arrivo degli italiani al Brennero, una barriera di legno viene eretta attraverso la strada principale, tra l’Italia e l’Austria. Nei primi tempi è una semplice garitta, verniciata coi colori nazionali bianco, rosso e verde. In seguito, verrà costruito un vero e proprio posto di frontiera, per imprimere nel terreno il segno di una lacerazione storica. Questa divisione sarà consacrata dal Trattato di Saint-Germain-en-Laye, firmato nel settembre 1919. Con un tratto di penna, le popolazioni che vivono qui da generazioni si ritrovano soggette a un nuovo Regno.

 

 

Rosa si alza un momento per accendere una lampada e contempla la valle dell’Adige. Le terre che scendono in un dolce pendio verso il fiume appartengono a lei. Se sposta lo sguardo a destra, vede gli imponenti contrafforti delle Dolomiti, che dominano Bolzano. Il passo del Brennero, dove pochi giorni prima si è consumato il dramma, è poco più a nord. Scrive:

 

L’Austria è smembrata, il nostro caro Tirolo diviso, noi poveri sudtirolesi siamo finiti sotto il dominio dei Welschen. Ma continuiamo a sperare e a sopportare, non vogliamo far parte per molto di questa nazione, il nostro cuore e la nostra mente rimarranno tedeschi in eterno.

 

Rosa chiude il diario e ascolta il silenzio della notte. Con la fine dei combattimenti è tornata la calma a Pinzon. Gli ufficiali austriaci hanno già lasciato la casa, i soldati hanno smantellato gli accampamenti. Presto arriveranno i Welschen – così qui chiamano gli italiani. I lavori di costruzione della ferrovia si sono interrotti. E i colpi di cannone che sono risuonati così spesso nella valle, con un rombo ben più terribile di quello del tuono, ora tacciono.

Attraversa l’atrio e va in camera sua. Si inginocchia ai piedi del grande crocifisso appeso al muro. Si rivolge a quel Cristo che fin da bambina è stato la sua guida. La terra del Tirolo riserva un culto particolare al Sacro Cuore di Gesù, e Rosa vive la sua fede con passione e rigore. Questa sera, prima che la Storia imbocchi la nuova strada, sa che avrà bisogno più che mai del sostegno divino. Ma prima di chiedere a Gesù di aiutarla, vuole ringraziarlo.

Ha risparmiato la vita di suo marito Jakob, in un conflitto che ha fatto milioni di morti in tutta Europa. Presto il suo adorato sposo tornerà a casa, e lei sentirà la sua presenza rassicurante nel letto coniugale dove sta per coricarsi. Dio ha risparmiato anche i suoi figli, mentre la fame e la malattia decimavano intere famiglie. E ha preservato i suoi possedimenti, mentre intorno pioveva la distruzione su tante case incendiate, saccheggiate, abbattute. Rosa ringrazia. Ma sospira, inquieta.

 

 

Rosa è la mia bisnonna. Non l’ho mai conosciuta, è morta nel 1940. Era nata nel 1877, in un tempo così radicalmente diverso dal mio. Quando ho ritrovato il suo diario, conservato con cura da una parente, e ho cominciato a leggerlo, la sua voce mi è suonata subito familiare. Mi parlava di sé, delle sue gioie e dei suoi dolori. Ma anche di me e delle mie radici.

Rosa per me non era certo una sconosciuta, anche prima di leggere quelle pagine. Al contrario. Mia madre e mia nonna Elsa mi hanno raccontato spesso di lei. Questo personaggio quasi leggendario emergeva da ogni aneddoto mostrando sfumature diverse: la madre dolce, la nonna affettuosa e l’indipendente, colta proprietaria terriera. La benefattrice dal grande cuore e la donna forte, determinata a fare a ogni costo il bene della famiglia. Una figura carismatica e insolita per i suoi tempi. Una vincente, in un periodo in cui la sua patria di appartenenza visse cocenti sconfitte storiche.

Ed era bella, Rosa. Il suo viso spicca nelle foto e per tutta l’infanzia mi ha guardata, un po’ indulgente e un po’ severa, dal suo ritratto nell’atrio della casa di Pinzon. Forse per questo la sua figura mi ha sempre incuriosito, o forse perché mia mamma Herlinde, la sua nipote preferita, unica figlia femmina della sua primogenita Elisabeth detta Elsa, me l’ha sempre descritta come una persona speciale. Ho sentito di dover dar voce alla sua storia, che è anche la storia tempestosa della regione in cui sono cresciuta. Oggi anch’io la chiamo la mia Heimat.

 

 

Per anni mi sono detta che avrei dovuto, in un libro, occuparmi del Sudtirolo. Ho viaggiato molto e nel mio lavoro ho cercato di raccontare il mondo: il Medioriente, le sue tensioni e ricchezze, l’Europa con le sue inquietudini e speranze, l’America con i suoi splendori e contraddizioni. Ma della terra da cui vengo non avevo mai parlato.

Da giovane sono stata spesso insofferente nei confronti delle tradizioni, di quella retorica patriottica che in Sudtirolo può sfociare in aperto nazionalismo. Devo dire a mia discolpa che una ragazzina sudtirolese veniva letteralmente sommersa di Storia, con la maiuscola. A scuola e nel discorso pubblico le maiuscole erano tante: la Cultura, la Memoria, la Heimat. A casa dei miei genitori le cose erano diverse, per fortuna: hanno sempre insistito perché conoscessimo le nostre radici, ma come base di partenza per incontrare popoli diversi, abbattere i confini. «Dovete sapere da dove venite, per potere andare lontano» spiegavano. In quegli anni Settanta di ideologie, rivoluzioni e anche rimozioni, l’apertura al mondo saldamente radicata in un’identità culturale era un messaggio insolito e prezioso. Così suonavo Mozart al pianoforte, e ascoltavo i vinili dei Rolling Stones.

Sono cresciuta però in un continuo dialogo con un passato che non voleva passare, a partire dai dettagli della vita quotidiana. Mia nonna Elsa si è rifiutata categoricamente per tutta la vita di imparare l’italiano perché per lei il Sudtirolo era, semplicemente, tedesco. In casa sua esistevano solo libri, giornali e riviste tedeschi o austriaci, oltre allo storico «Dolomiten». La cucina era di stampo austroungarico, dominata dagli arrosti con la marmellata di ribes rosso e da Knödel di ogni tipo. A casa sua non si vedevano cannoli e babà, ma Strudel e Sacher-Torte. Burro, non olio d’oliva.

E c’erano certi quadretti in cucina, appesi in fila sopra al legno del rivestimento, che per me bambina erano una fonte perenne di curiosità e inquietudine. Raffiguravano fuggiaschi stracciati, scene di miseria e di violenza. Uno per me indimenticabile rappresentava una donna con un fazzoletto da contadina sul capo, un bambino per mano e un vecchio dietro, che portava sulla schiena curva un pesante fardello. La classica iconografia dei profughi: il marito al fronte, la donna in fuga dal combattimento, sulle spalle una vita intera. «Questa è la guerra» mi ripeteva mia nonna. «Ricordati, è solo fame, paura e miseria.»

Di guerre, da inviata, ero destinata a vederne più di una. Mia nonna ne aveva attraversate due. E in un certo senso, una l’ha «salvata» dall’addio per sempre alla sua patria. Rischiò di dover lasciare la sua casa e tutti i suoi beni, nel 1939, con le cosiddette «opzioni». Una grande tragedia collettiva orchestrata da Hitler e Mussolini.

 

 

Il diario di Rosa si apre nel 1902 e si interrompe a Natale del 1939. Anni dolorosi, non solo per il Sudtirolo. Le crisi e le tensioni nazionaliste che segnarono l’inizio di un secolo turbolento. Il trauma del passaggio della regione dall’Austria all’Italia. Il ventennio fascista. Il sorgere e l’affermarsi di un sentimento di rivalsa che avrebbe portato tanti, troppi sudtirolesi dritti tra le braccia del Führer. E il patto col diavolo, dopo l’accordo tra il dittatore tedesco e il Duce.

Non è un periodo facile da raccontare, già in molti ne hanno parlato con autorevolezza, e questo non è un libro di storia. È un libro di memoria e di recupero di un’eredità familiare e culturale che mi appartiene. Oggi mi dispiace non averne discusso con alcuni dei testimoni diretti, parenti e amici che se ne sono andati e la cui voce tace per sempre. Il mio è anche un tentativo di ritrovare ciò che è andato perduto, con chi ancora rimane. Un modo di onorare e ricordare quello per cui hanno combattuto, hanno sofferto e sono vissuti.

Per guidarmi in questo percorso Rosa mi ha teso la mano, e io l’ho afferrata. Pagina dopo pagina ha risvegliato la mia curiosità. Ho potuto sentire le sue parole, come faceva mia madre Herlinde che mano nella mano passeggiava spesso con lei. La ascoltava spiegare i segreti della vita, imparava la saggezza per celebrarne la bellezza, il coraggio per affrontarne i dispiaceri.

È così, di voce in voce, che sopravvive la memoria del mondo.

Eredità
titlepage.xhtml
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_000.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_001.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_002.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_003.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_004.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_005.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_006.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_007.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_008.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_009.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_010.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_011.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_012.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_013.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_014.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_015.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_016.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_017.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_018.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_019.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_020.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_021.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_022.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_023.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_024.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_025.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_026.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_027.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_028.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_029.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_030.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_031.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_032.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_033.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_034.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_035.html
Eredita_(Saggi_italiani)_(Itali_split_036.html