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Addio a Vienna
Rosa ha portato con sé a Graz la lettera di Hella per Gusti. Le due sorelle si scrivono spesso, condividono la stessa fede politica. Gusti ha letto qualche passo ad alta voce e Rosa si è sforzata di non commentare: di questi tempi le discussioni politiche con le figlie la stancano. Ha preferito godersi la compagnia di Mariedl e Toni, che lavorano senza risparmiarsi alla nuova attività, dove le cose vanno meglio del previsto. La figlia e il genero hanno rilevato la Traminer Weinstube, un locale molto noto in città, dove si viene per mangiare, bere e parlare di politica come nella tradizione di Pinzon. Mariedl è soddisfatta di come vanno gli affari, nonostante la crisi costringa a fare attenzione alle spese, e l’addio alla Heimat sia una ferita non ancora rimarginata nel cuore di tutti.
Il 16 novembre 1936 Rosa prosegue il viaggio alla volta di Vienna. Sua figlia Berta, che il 29 febbraio ha sposato un avvocato di nome Oskar Hammerle, si è stabilita con lui nella capitale austriaca. Rosa non può ancora saperlo, ma sono le ultime nozze che vedrà: nei cieli dell’Europa si addensano nuvole nere e i giorni di festa finiranno presto. È stato un bel matrimonio, però, nella chiesetta di Pinzon con il ricevimento a Bolzano, all’hotel Greif. Rosa ripensa alla poesia che lei stessa ha composto in onore degli sposi: «Il matrimonio è un grosso rischio, buio è il futuro. Non c’è giardino senza ortiche; non c’è rosa senza spine; non c’è casa senza la sua croce!». Non è esattamente un inno alla gioia, e le è dispiaciuto vedere Berta rabbuiarsi leggendola. Ma Rosa è inquieta per la più spensierata delle sue figlie, Berta, con i suoi vestiti eleganti e le mani sempre pronte a correre al borsellino per spendere. Vuole che questo giorno solenne non sia solo una bella festa, vuole che rifletta. Sta andando lontana, in quella che un tempo era la luminosa capitale dell’Impero. E che ora si va popolando di forze oscure.
Rosa non è più giovane ed è sopravvissuta al suo mondo. Quello in cui Vienna era ancora il cuore pulsante di una grande realtà politica, in cui l’Ancien Régime con i suoi riti e le sue corti dominava l’Europa, e il nome degli Asburgo incuteva rispetto. Tutto questo è finito da decenni, in un giorno di novembre del 1918, ma lei non è mai davvero riuscita ad accettarlo. Forse in questo viaggio sarà capace di venire a patti col presente.
Chissà che cosa resta della gaia città di allora? Rosa attraversa in treno l’Austria, vede passare le montagne, i chiari specchi d’acqua, le valli punteggiate di campanili. È tutto così familiare. Lo sarà anche Vienna? Per Rosa quel nome è simbolo di fascino e cultura. I giornali che si fa mandare a Pinzon parlano di opere liriche, balli e salotti letterari. Legge i programmi dei concerti, i nomi dei grandi maestri invitati a dirigere la celebre orchestra filarmonica, articoli di cronaca sulle personalità mondane, sui principi, gli artisti e gli scrittori che danno lustro alla vita culturale.
Berta e Oskar sono venuti ad attenderla al binario del Südbahnhof, e Rosa si getta tra le braccia di sua figlia.
«Che bello rivederti, mamma!» dice Berta con un gran sorriso. È in forma ed elegante, gli occhi luminosi e sui capelli un cappellino all’ultima moda che deve essere costato parecchio. E ha delle novità da raccontarle.
«A quanto pare diventerò di nuovo nonna» dice Rosa, sollevando un sopracciglio, e Berta scoppia nella sua contagiosa risata.
«Proprio così, cara mamma! Volevo farti una sorpresa!» Si passa orgogliosa una mano sul ventre tondeggiante di futura giovane madre.
«Non c’è niente di più bello dei figli» le assicura Rosa prendendola sottobraccio. Nel frattempo Oskar ha chiamato con un cenno un facchino che li segue verso il taxi in attesa, le spalle cariche di valigie.
«E quando...?»
«Ai primi di gennaio, se tutto andrà bene.»
«E perché non dovrebbe andare tutto bene?» protesta Rosa. «Speriamo che sia un bel maschietto.»
Finalmente la figlia ha trovato la sua strada nella vita, pensa, sollevata. Era ancora una ragazza quando era partita per Trieste come istitutrice tedesca in casa di una famiglia della borghesia cittadina. Poi si era trasferita a Milano, una città più dinamica, più adatta al suo temperamento estroverso. Queste brevi esperienze di lavoro sono preziose per una giovane di buona famiglia, pensa Rosa. Hanno appagato la sua curiosità e la sua sete di avventura e sono state istruttive. Ma ora penserà il bell’avvocato viennese a renderla felice e a non farle mancare mai più nulla. Se solo tutte le sue figlie fossero così fortunate.
«Bisognerà che parliamo di Hella, cara. Sono preoccupata per tua sorella» sussurra Rosa all’orecchio di Berta mentre prendono posto sul taxi.
Vienna è terribilmente cambiata, anche se non tutti i mutamenti sono visibili, sotto il quieto fascino dei palazzi imperiali, dei suoi ampi viali alberati e giardini fioriti e del lento scorrere del Danubio. All’indomani della sconfitta nella Prima guerra mondiale, le poche pagine del Trattato di pace hanno trasformato un Impero in una piccola repubblica di soli sei milioni di abitanti. Nel 1927 le tensioni tra i partiti di sinistra e i movimenti nazionalisti di destra sono sfociate in episodi di violenza sanguinosa, che hanno imperversato fino a che il cancelliere Dollfuss, giunto al potere nel 1932, non è riuscito a imporre un regime sempre più autoritario. Prendendo le distanze dal nazismo, nel quale scorgeva una minaccia al proprio ambizioso progetto nazionalista, Dollfuss si è avvicinato al fascismo italiano. Quando è stato assassinato dai nazisti, il suo posto è stato preso da Kurt von Schuschnigg, che in questo 1936, quando Rosa scende dal treno, è ancora capo del governo. Ma è ormai intrappolato tra Hitler e Mussolini.
Vienna è ancora relativamente immune, per il momento, dal male terribile che ha contagiato altre città: l’antisemitismo, che in Germania sta divampando con virulenza. La scena culturale così brillante che Rosa ammira è arricchita da molti artisti ebrei in fuga che da Berlino vengono a stabilirsi a Vienna. Pittori, cineasti, direttori di teatro che scappano dalle persecuzioni di cui sono vittima da quando Hitler si è impadronito del potere. Il regime nazista impedisce loro di lavorare, e sequestra tutti i loro beni prima di concedere un visto di espatrio.
Già nell’ultimo scorcio del XIX secolo alcuni movimenti politici tedeschi premevano per l’abolizione del principio di cittadinanza, che riconosceva a tutti pari diritti. Ha preso forma la nozione di una razza ariana la cui purezza, minacciata dagli elementi «semiti», va difesa a tutti i costi. E con l’ascesa al potere del nazismo, le ideologie di matrice antisemita hanno ispirato misure sempre più discriminatorie. Gli attacchi contro gli ebrei tedeschi sono aumentati dopo l’elezione di Hitler, nel gennaio del 1933. Nel 1935, il Congresso del partito ha imposto al Parlamento addirittura un pacchetto di leggi razziali. Ora in Germania sono vietati i matrimoni tra ariani ed ebrei come pure i rapporti sessuali tra ebrei e non ebrei; sono stati introdotti diversi livelli di cittadinanza che privilegiano gli ariani; gli ebrei hanno perso il diritto di voto e l’accesso a determinate professioni tra cui il pubblico impiego. Ed è solo l’inizio.
Nel 1936 Rosa è una signora dell’alta borghesia rurale, ormai prossima ai sessant’anni. Non può non avere sentito parlare di un fenomeno che pochi anni più tardi precipiterà l’Europa nella catastrofe. I giornali hanno scritto per mesi delle polemiche sui giochi olimpici di Berlino, prima e durante l’agosto del 1936. I nazisti erano decisi a vietare la partecipazione agli atleti ebrei e a quelli di colore. Federazioni sportive e governi di tutto il mondo, frementi di indignazione, avevano minacciato di boicottare l’evento, convincendoli ad ammorbidire le loro posizioni. Era addirittura circolato l’ordine di dissimulare i segni più tangibili della discriminazione: per l’occasione erano spariti i manifesti di propaganda antisemita, le stelle di Davide dipinte sulle facciate dei negozi ebraici e i cartelli che vietavano loro l’accesso a determinati luoghi pubblici. I giochi olimpici si erano svolti regolarmente, e il regime hitleriano aveva perfino concesso a un’atleta tedesca di origini ebraiche di partecipare alle competizioni. Si trattava della fiorettista Helene Mayer, che aveva vinto la medaglia d’argento. Le olimpiadi del 1936 passeranno anche alla storia per le quattro medaglie d’oro conquistate dal campione di colore Jesse Owens: uno schiaffo al razzismo nazista, ma anche a quello degli Stati Uniti, dove la segregazione razziale era ancora la norma.
L’auto attraversa il centro di Vienna e si ferma sul Kärntner Ring. Gli alberi che fiancheggiano il doppio viale sono ormai quasi del tutto spogli, se non per qualche ultima foglia ingiallita dall’autunno. Uomini e donne eleganti nei loro cappotti e cappelli invernali passano di fronte alla maestosa facciata dell’hotel Imperial, ex palazzo ducale. Oskar apre la portiera alla suocera e le dà il braccio per gli ultimi pochi metri, fino a una casa all’angolo della Dumbastrasse. È un sontuoso edificio di quattro piani, e Rosa può immaginare quanto piacere provi sua figlia, che ha il gusto delle cose belle, a viverci. L’ascensore dalla tappezzeria in velluto rosso si ferma al secondo piano, e con orgoglio Oskar apre la grande porta d’ingresso sulla sinistra spiegando: «Qui abitiamo noi, e dall’altra parte del corridoio c’è il mio ufficio».
Rosa fa il suo ingresso in un fastoso appartamento dai soffitti alti. Il pavimento è coperto di tappeti persiani, e un enorme salone si affaccia sul Ring. Rosa si avvicina a una delle finestre e scosta la pesante tenda color porpora. I rumori della strada le arrivano attutiti e lontani. Guarda i tram che si incrociano alle fermate e le automobili che sostano all’angolo del Schwarzenbergplatz davanti a un semaforo rosso. Dall’altra parte della strada alcune limousine attendono di fronte all’ingresso dell’Imperial, dove concierge in livrea marrone aprono la portiera a giovani donne eleganti vestite all’ultima moda. Da quassù la vita sembra così semplice, pensa. Ma perché, allora, l’inquietudine che si è annidata nel fondo del suo cuore non vuole darle pace? Perché la danza tranquilla dell’esistenza quotidiana, che guarda da quella finestra viennese, dovrebbe fermarsi all’improvviso?
Rosa ha già visto una guerra e ha provato sulla propria pelle quanto in fretta possano cambiare le cose. Ha letto molto sulle voci sempre più insistenti che si rincorrono da un capo all’altro dell’Europa, minacciando un nuovo conflitto. Vorrebbe credere di poter invecchiare in tempo di pace, ma sente che intorno a lei il mondo intero grida pieno di odio. Sono passati vent’anni dalla nascita di Hella, forse l’ultimo suo momento di vera felicità. Rosa si strappa a quelle meditazioni e raggiunge la figlia che la chiama dal corridoio.
Berta l’accompagna da un ambiente all’altro senza nascondere la sua contentezza. Ha ottenuto la vita che ha sempre desiderato, da gran signora nel cuore di una metropoli. Ama moltissimo il Sudtirolo e Pinzon, ma è partita alla conquista di una vita più cosmopolita e brillante senza troppi rimpianti. «Vieni mamma» aggiunge. «Ti faccio vedere la tua camera.»
Apre la porta della stanza degli ospiti, le mostra il bagno e la lascia a rinfrescarsi. «Quando avrai ripreso fiato andremo a fare una passeggiata, magari qualche acquisto? Dai, ci divertiremo! Il medico mi ha raccomandato di camminare tutti i giorni» dice come per giustificare l’ennesimo giro di compere. Ora andrà subito a fare gli occhi dolci a Oskar, le ha dato stamattina come sempre i soldi per le spese di casa ma certo la visita di sua madre merita una piccola elargizione in più.
Rosa si cambia rapidamente e le due donne escono a braccetto. Si avviano a passo tranquillo in direzione dell’Opera, la cui sagoma spicca in lontananza sull’Opernring. Risalgono la Kärntner Strasse guardando le guglie della cattedrale gotica di Santo Stefano, in fondo.
«Non riesco più a capire tua sorella Hella» sospira Rosa.
«Che cosa ha fatto?» Berta aggrotta le sopracciglia, vorrebbe che la sorella la smettesse di dare tante preoccupazioni. La mamma non è più giovane.
«Da quando è andata in Germania non è più la stessa.»
«Puoi dirlo forte, trabocca di entusiasmo per il Führer. Lei e Gusti sono convinte che ci salverà tutti. Oskar è di tutt’altra opinione.»
Rosa tace, guarda la via affollata attorno a sé, i passanti che si affrettano, quelli che come loro si attardano davanti alle vetrine. L’atmosfera viennese è quella di sempre: leggera e viva.
«Anch’io, una volta, ero convinta che l’imperatore ci avrebbe salvati tutti. L’ho creduto fino all’ultimo. E invece è morto, e poi l’Impero è crollato. Non si può non amare il Kaiser, ma ci ha scatenato addosso forze da cui poi non ha saputo proteggerci.»
Berta, esterrefatta, si ferma di colpo, rischiando di far cadere anche la madre che tiene sottobraccio. Non l’ha mai sentita parlare così del suo idolo, del Kaiser. Non ha mai sentito un tono così amaro nella sua voce. Fissa incerta Rosa, che a sua volta guarda la cattedrale in lontananza. E decide che è meglio distoglierla dai suoi pensieri. Riprendono a camminare.
«Sembra che Hitler non voglia la guerra. Lo dice continuamente, lo ha ripetuto anche a Norimberga, che il suo scopo è la pace. Che saranno i bolscevichi a scatenare la rivoluzione se li lasciamo fare, e lui è l’ultimo baluardo!»
«Lo so. Hella ripete le stesse cose da quando è tornata da quel congresso. Hitler l’ha stregata, quando l’ha visto parlare da quella tribuna ha perso la testa. Addirittura un predestinato, lo ha chiamato.» Nella voce di Rosa c’è una nota di diffidenza che non sfugge a sua figlia.
«A Vienna si discute molto, nessuno sa più cosa pensare» spiega Berta. «Alcuni temono che i nazisti siano ancora più violenti dei fascisti. Non si fermano davanti a nulla. Gli altri hanno più paura dei comunisti, che vogliono portarci via tutto.» Si appoggia una mano sul ventre, protettiva: «Vorrei solo che il mio bambino non venisse al mondo in tempo di guerra, e che Oskar non avesse problemi».
«Quali problemi?» chiede Rosa, preoccupata.
Ma Berta non risponde. Sono giunte sulla piazza accanto a Santo Stefano, e preferisce dire: «Guarda quanto è bella, mamma. Sono davvero fortunata a poterci venire tutti i giorni».
Attraversano l’alto portale. Gruppi di fedeli percorrono nei due sensi l’immensa navata, e a Rosa si apre il cuore in quello spazio maestoso e sacro. Pensa alla sua piccola cappella di Pinzon, alla bellezza semplice del suo campanile. Ricorda la gioia che ha provato quando, tanti anni fa, sono state montate le nuove campane. Era il 1923, quando assieme agli abitanti del paese hanno fatto la colletta per restituire la voce alla loro chiesa. Poi ogni anno ha portato nuove disgrazie. È possibile che ora questo Hitler restituisca loro i bei tempi andati, una nuova età dell’oro? Rosa ne dubita da sempre. Ora, di fronte a questo grande altare nella casa del Dio che il nazismo nega e offende, si sente certa del contrario.
«Berta, non si può servire Dio e il demonio» scuote la testa. «La nostra causa è giusta, ma se per raggiungere lo scopo vendiamo l’anima a Satana non ne verrà nulla di buono.»
Sua figlia ha un moto di impazienza. Non vuole che la visita sia turbata dalla nostalgia né dalle angosce politiche. Vuole portarla all’opera, al cinema, al caffè Sacher, ha già organizzato tutto. Vuole che si svaghi, dimentichi i problemi di casa, i conti, i fascisti.
«Dai, mamma, non preoccuparti! Hella dice che Hitler rimetterà in riga Mussolini appena avrà chiuso il conto coi bolscevichi.»
Ma Rosa non si lascia distrarre, ha lo sguardo perso come se stesse prendendo una decisione. Poi abbraccia la figlia e dice: «Scusa cara, ma devo fare due passi da sola. Ci rivediamo da te tra un’ora».
Berta rimane attonita nel bel mezzo della navata centrale e guarda sua madre uscire dalla cattedrale. Quando le viene in mente di seguirla è troppo tardi. Avrà anche sessant’anni ma il passo alpino è ancora vispo e veloce.
Rosa scompare nelle viuzze intorno alla piazza e in breve raggiunge la sua meta. Si avventura lungo una scalinata i cui gradini ripidi scendono sottoterra. La luce è fioca e indistinta, le lampade proiettano aloni chiari sui muri grigiastri. I suoi passi risuonano sul pavimento di granito della Cripta dei cappuccini. Tra quelle pareti sono sepolti da secoli i membri della dinastia degli Asburgo.
Rosa passa in rassegna i sarcofaghi allineati nella penombra, si sofferma davanti all’imponente sepoltura dell’imperatrice Maria Teresa. Poi una tomba più discreta, in legno pregiato, posata su un piedistallo di marmo, sul quale sono incisi solo un nome e due date: Francesco Giuseppe, 1830-1916. Qui giace l’imperatore, il Kaiser, l’uomo per il quale suo marito Jakob sarebbe stato disposto a dare la vita. La bara è coperta di fiori, e il pavimento è cosparso di biglietti. Si china a raccogliere un cartoncino e legge: «Sempre fedeli nel ricordo del nostro Kaiser».
Prima di andarsene, Rosa si fa un’ultima volta il segno della croce. Il passato è morto e sepolto, bisogna avere il coraggio di andare avanti. Ma cosa riserva il futuro?
Scriverà nel suo diario:
Mi ha fatto così bene vedere la vecchia capitale dell’Impero, ma la Cripta dei cappuccini mi ha detto «c’era una volta»! È tutto passato, è passato, la Hofburg è vuota, vuoto e solitario Schönbrunn, la morte non risparmia nemmeno la casa imperiale. Uomo, pensa che tu sei polvere! Vienna, Vienna, sei unica, ma non vorrei essere qui.
A distanza di settantasei anni dalla visita di Rosa mi siedo in un locale in cui certamente è passata anche lei. Il caffè Landtmann ne ha viste delle belle, da allora, ma in fin dei conti non è così cambiato. Quando l’Armata rossa nell’aprile del 1945 ha conquistato Vienna, i soldati venuti dalle steppe asiatiche hanno saccheggiato questo locale elegante. Hanno frantumato gli specchi con il calcio del fucile e lacerato i rivestimenti delle sedie con le baionette. Per giorni hanno imperversato in tutta la città uccidendo gli uomini, violentando le donne, e hanno stabilito il loro quartier generale proprio all’hotel Imperial. Berta è sfuggita alla loro furia, ma il suo bell’appartamento è stato confiscato dagli invasori e per un po’ lei e Oskar hanno dovuto cercare un alloggio altrove. Poi gli specchi del Landtmann sono stati sostituiti, i viennesi si sono sforzati di dimenticare.
Oggi Vienna è una città ricca. Ci sono stata molte volte ma non ci venivo da anni, e in questo luglio 2012 così difficile per tutta l’Europa mi sembra un po’ fuori dal tempo. Con il suo tasso di disoccupazione sotto il 5 per cento, sembra immune dalla crisi economica generale. Le piazze storiche, i vicoli, le vie pedonali piene di negozi: tutto è lindo e ben curato. Le automobili, i tram e i ciclisti convivono in perfetta armonia. Certo non è solo questa la realtà della metropoli multietnica che è diventata. La capitale dell’Impero mitizzato da Rosa non è rimasta così uguale a se stessa, anche se è ancora attaccata al retaggio della sua antica grandeur.
Tra allora e oggi c’è stato il trauma della Seconda guerra mondiale, con il nazismo prima e l’occupazione sovietica poi. Vienna, come Berlino, per anni è stata divisa, spartita tra i vincitori. Durante la Guerra fredda ha scelto una complicata neutralità, con la minaccia comunista così a ridosso dei suoi confini. Il collasso dell’Urss e la costituzione dell’eurozona hanno dato all’Austria un ruolo nuovo e nuove possibilità. Il Paese è tornato a essere un partner economico importante per le nazioni dell’ex blocco orientale, le stesse che un tempo facevano capo all’Impero austroungarico, come gli Stati dell’area balcanica. E Vienna ha saputo trovare interlocutori anche in Medioriente, soprattutto tra i maggiori esportatori di petrolio che negli anni Settanta hanno aperto qui i loro uffici.
È una città che conosco bene. Non solo con la mia famiglia siamo sempre venuti a trovare la zia Berta, fin da quando ero bambina, ma mio fratello Winfried ha pensato bene di trasferirsi qui da ragazzo, per frequentare l’università e perseguire la sua carriera di architetto e musicista jazz.
La mia prima visita da zia Berta risale a quando avevo quattro anni. Ricordo molti dei suoi consigli, decisamente fuori dal mio tempo, che quasi sempre avevano a che fare con il tema del matrimonio. Fu questo l’argomento con cui cercò di guarirmi dalla pessima abitudine che avevo allora di mangiarmi le unghie. «Se continui così non troverai mai un marito» mi ammoniva. La terribile minaccia non fece l’effetto sperato. «Vorrà dire che porterò i guanti» risposi. Ma lei non rinunciò mai a elargire le sue raccomandazioni: «Bisogna maritarsi» ripeteva. «È sempre meglio essere divorziate che mai sposate.» Alla fine mi sono sposata, cara zia, e non mi mangio più le unghie da tempo. Hai vinto tu.
Ricordi di famiglia, frammenti di un’epoca in cui non mi sarei mai immaginata di partire un giorno alla ricerca del passato.
A Vienna capitai anche in veste professionale, nel 1988. Un anno particolarmente significativo: il cinquantesimo anniversario dell’Anschluss, l’annessione dell’Austria da parte della Germania nazista. Trascorsi allora una settimana nella capitale, il mio primo incarico da inviata all’estero per il Tg2. Nello stesso periodo infuriava di nuovo sui media il caso Waldheim, scoppiato due anni prima. Nel marzo 1986 un servizio del settimanale «Profil» aveva denunciato Kurt Waldheim, per due mandati segretario generale dell’ONU e candidato alla presidenza della Repubblica austriaca, come un nazista convinto. Non solo c’erano le prove della sua appartenenza a organizzazioni di regime, ma aveva servito in Grecia agli ordini del criminale di guerra Alexander Löhr. Waldheim si era dichiarato innocente. Alla fine una commissione di storici aveva confermato che lui non aveva avuto parte nelle stragi. Ma non poteva non sapere cosa accadeva a pochi metri dal suo reggimento. Fu eletto ugualmente presidente, creando enormi problemi nelle relazioni ufficiali con i governi di mezzo mondo. Quando arrivai a Vienna nel marzo 1988 la ricorrenza dell’Anschluss aveva riacceso le polemiche, la stampa di tutto il pianeta era accorsa per riportare sotto i riflettori l’Austria e il suo impresentabile capo dello Stato. Waldheim resse alla prova, se ne sarebbe andato solo nel 1992, ma lo scandalo aveva ricordato al suo Paese che il passato non può essere così frettolosamente rimosso.
Ebbi modo di riflettere molto su questi temi, una volta di più, in quella settimana. Si dice spesso che gli austriaci sono noti per aver fatto diventare Beethoven austriaco, e Hitler tedesco. L’Anschluss è stato a lungo raccontato come un’occupazione straniera, ma l’annessione fu acclamata da molti tra il popolo, gli intellettuali e i politici. Proprio come in Italia, dove Mussolini ebbe milioni di entusiastici sostenitori, che si dissolsero dopo la sconfitta in guerra lasciando un Paese all’apparenza abitato solo da acerrimi nemici del regime. E come nel mio Sudtirolo, dove l’adesione al nazismo fu velocemente archiviata come difesa del Deutschtum, diretta conseguenza degli anni di oppressione fascista. Essere lì a Vienna in quell’occasione mi ricordò per l’ennesima volta una verità semplice: il passato resiste, ma la memoria è sempre troppo corta.
In quel 1988 intervistai un uomo che vedeva il passato con chiarezza cristallina. Per lui i fatti esistevano ed equivalevano a condanne. E le categorie di «giusto» e di «sbagliato» erano una guida sicura nell’implacabile lavoro del presente. Era il cacciatore di nazisti, Simon Wiesenthal. Il centro di ricerca da lui fondato, a Vienna, ha continuato a operare anche dopo la sua morte nel 2005. Come tutti i grandi uomini, è stato anche criticato, ma ricordo il nostro lungo incontro come una grande emozione professionale e umana. Quest’uomo la cui storia personale già da sola testimoniava la tragedia dell’Olocausto aveva ottant’anni ed era ancora lucidissimo. La sua impresa, fare giustizia dei criminali nazisti scampati ai processi di Norimberga, aveva una biblica grandezza. Nel 1988 Wiesenthal era accusato, da alcune organizzazioni ebraiche americane, di non aver fatto ricerche abbastanza accurate sul passato di Waldheim, per complicità o per incompetenza. In una lettera al «New York Times» dell’8 maggio dello stesso anno si sarebbe difeso sostenendo di non avere ricevuto informazioni sufficienti dall’Archivio di Berlino. La polemica infuriò a lungo. Ma Simon Wiesenthal rimarrà un simbolo incancellabile della tenacia del passato e del dovere della memoria.
Per contrasto mi impressionò pochissimo la casa di Hitler a Braunau am Inn. È un palazzo giallo di tre piani dall’aria assolutamente anonima in una stradina tranquilla. Il luogo è segnalato solo da una semplice lapide di granito grigio. Quella pietra, messa lì il giorno del centenario della nascita di Hitler, viene dal campo di sterminio di Mauthausen. L’iscrizione recita: «Per la pace, la libertà e la democrazia. Mai più fascismi, ammoniscono milioni di morti». In piedi davanti alla telecamera, pensavo che alle mie spalle aveva visto la luce uno dei più efferati assassini della storia e la «banalità del male», secondo la definizione di Hannah Arendt, mi colpiva come uno schiaffo.