Mercoledì 13 agosto, ore 14.55

Georg Stadler entrò nell’atrio degli arrivi e si guardò intorno. La stagista aveva fatto un ottimo lavoro. Poche ore prima le aveva detto di contattare un esperto in Inghilterra e chiedere una consulenza sul loro caso, e adesso il commissario era già in aeroporto per accoglierlo. Gli eventi si erano evoluti rapidamente. La sera precedente aveva chiamato un collega dell’LKA, la Polizia di Stato, e gli aveva riassunto i fatti chiedendo il loro aiuto. L’uomo gli aveva risposto che avrebbe dovuto aspettare la settimana successiva, dato che in quel momento erano impegnati in un’altra faccenda, piuttosto importante, e non c’era nessuno disponibile. Stadler non aveva insistito; volente o nolente non aveva scelta.

Quella mattina, però, la Scientifica gli aveva comunicato che sul ritaglio di giornale trovato nella bocca di Jonathan erano stati rinvenuti dei segni, scritti con un pastello a cera nero. I tecnici avevano ripreso in mano anche il ritaglio di Katharina Wagner e riscontrato segni analoghi, sebbene appena accennati. Il testo purtroppo non erano riusciti a ricostruirlo. Ma quei risultati costituivano una svolta fondamentale: le probabilità che le due vittime avessero in comune lo stesso carnefice erano aumentate di molto. Ormai era ufficiale: stavano cercando un serial killer.

Per questo Stadler aveva insistito ancora con l’LKA.

«Perché non chiedi al professor Burntisland e al suo team?» gli aveva suggerito il collega dopo avergli ribadito che erano a corto di personale.

«Burntisland? E chi diavolo sarebbe?»

«Un professore inglese che studia i messaggi lasciati dai serial killer. Abbiamo collaborato spesso con loro, sono molto in gamba.»

«E che me ne faccio di un esperto inglese con testi tedeschi?»

«Ma il punto non è il contenuto dei messaggi» aveva replicato l’uomo dell’LKA. «L’importante è dove sono stati lasciati, di che materiale sono fatti, insomma l’aspetto… E fidati, loro sono proprio bravi!»

Così Stadler serrando i denti si era fatto lasciare il recapito, senza grandi speranze di ricavarne qualcosa. Invece, cinque ore dopo, era lì in attesa di uno dei collaboratori del famigerato professore. Le porte di vetro si aprirono, e i primi passeggeri uscirono nell’atrio. D’un tratto Stadler si sentì mancare il respiro… Liz! Liz Montario!

Ci mise un attimo a capire. Ma certo, era lei l’esperta dalla Gran Bretagna! Ma Zoe sapeva che si conoscevano? Non gli aveva detto nulla apposta? Oppure non ne aveva la più pallida idea?

Iniziò a girargli la testa. Era bellissima. Si era tirata su i capelli rossi in una coda, da cui erano usciti un paio di ciuffi. Indossava un vestito estivo verde chiaro con un cardigan di cotone in tinta e stivali marroni. Una borsetta sotto il braccio e un trolley argentato.

Finalmente anche lei lo vide. E il suo volto si illuminò di un bellissimo sorriso. «Ciao Georg» lo salutò fermandosi proprio davanti all’uomo. «Sembri sconcertato. Non te lo avevano detto, che saresti venuto a prendere me?»

Da vicino Stadler notò che le rughe che le si formavano sulla fronte quando era preoccupata erano più profonde del solito. E aveva anche le occhiaie. «Non sono mica scioccato… diciamo sorpreso, piacevolmente sorpreso…» Esitò. Poi fece un passo avanti, la abbracciò e le stampò un bacio sulla guancia. Per poi lasciarla andare e prenderle la valigia. «È bello rivederti.»

Avviandosi verso la macchina scambiarono due chiacchiere di circostanza. Una volta saliti in auto, con Stadler che stava già imboccando l’autostrada, lui osò farle una domanda personale. «Come stai? Ti trovi bene, lì?»

«Sì, molto.» Sorrise, ma c’era dell’altro.

«Nessun problema con la guida a sinistra o le patatine all’aceto?» insisté lui con un sorriso ironico.

«No… non con queste cose…»

«E con cosa?»

Liz scosse la testa. «Cavolo, mi ero dimenticata quanto fossi insistente! Dài, invitami a pranzo. Ho una fame da lupi, in aereo mi hanno dato solo un misero panino.»

Lui sogghignò. «Sempre al vostro servizio. Hai un desiderio particolare?»

Lasciò fare a lui, e Stadler scelse un ristorante giapponese in centro, dove portava a cena le donne quando voleva impressionarle. Mentre aspettavano da mangiare, lei raccontò nei dettagli del cottage, del lavoro all’università e del processo che suo malgrado l’aveva catapultata di nuovo sotto i riflettori.

«Stamattina ho ricevuto una telefonata, un pazzo maniaco» spiegò. «Così quando il mio capo mi ha detto che alla Omicidi di Düsseldorf ci avevano chiesto una consulenza mi è sembrata una manna dal cielo. David non farà i salti di gioia, ancora non sa nulla di questa mia improvvisa capatina in patria…»

«David?»

Lei sorrise. «Sì, ho conosciuto una persona. Un dottore.»

Quella notizia fu un colpo al cuore. «Sono felice per te» si sforzò comunque di balbettare il commissario.

«E tu, come stai?»

«Mah, nessuna grossa novità. A parte il fatto che adesso ho un ufficio tutto mio e mi annoio a morte.»

«E Birgit?» commentò Liz ridendo.

«Ora lavora con Miguel, mi sembra si trovino piuttosto bene.»

«Be’, lo credo. Miguel è un bel tipo.»

«Ah sì? E io no?»

«Vuoi la risposta sincera o quella di cortesia?» domandò lei inclinando la testa. Ma prima che lui potesse rispondere, cambiò argomento. «Basta con le chiacchiere, adesso parliamo del caso. Le informazioni sull’omicidio di Neuss che avete mandato via fax al mio capo le ho lette in aereo. Ma sull’altro non so nulla.»

«Non credere che io ne sappia molto di più.»

Lei inarcò un sopracciglio.

«Cioè, qualcosa sì. Dunque. La vittima si chiamava Katharina Wagner, aveva vent’anni e viveva ancora con la madre. Il padre è morto quando lei era piccola. La madre ne aveva denunciato la scomparsa due anni fa. Ma la figlia ormai era maggiorenne e in questi casi la polizia indaga solo in circostanze particolari. Insomma non l’ha cercata nessuno, per mancanza di indizi di possibili crimini. Invece la settimana scorsa hanno trovato i suoi resti nel bosco di Hardt, qualche chilometro a ovest di Mönchengladbach, vicino alla vecchia base militare di Rheindahlen. È stata identificata lo scorso venerdì, e anche nel suo caso, come in quello di Jonathan Geissler, in bocca aveva un ritaglio di giornale con tracce di pastello a cera. E ci sono segni di torture. Quel che è certo è che ha ricevuto un colpo alla nuca, che però potrebbe non essere stato la causa del decesso. L’assassino le ha anche cavato gli occhi e mozzato un dito.»

«Oddio, ma è terribile.» Liz si voltò verso la finestra, pensierosa. «Ricapitolando, a una vittima hanno cavato gli occhi, a un’altra hanno tagliato le orecchie. A entrambi è stato mozzato un dito. Anche a Katharina l’indice?»

«No, il medio.»

La psicologa annuì.

Arrivò il pranzo, e per un po’ mangiarono in silenzio. Liz aveva davvero fame! Il suo piatto era già vuoto quando Stadler prese in mano le bacchette. Ordinò un’altra Coca-Cola, ne bevve un sorso e poi disse: «C’è altro che devo sapere, sul caso?».

«Eccome. C’è un ulteriore mistero, forse un altro caso.»

«Una terza vittima?» Liz lo guardò sorpresa.

«Te l’ho detto, forse… ma non è ancora ufficiale.» Bevve un sorso della sua birra analcolica. Ne avrebbe preferita una vera, ma era ancora in servizio e doveva guidare. «La settimana scorsa ho ricevuto un pacco anonimo… con un dito dentro.»

«Di una delle vittime?»

«No, questo è escluso. Si tratta dell’indice di un ragazzo, ma certamente non è di Jonathan Geissler. Ovviamente ho già cercato tra i casi irrisolti di vittime con dita mozzate, ma ne ho trovato solo uno. Che non mi sembra combaciare con il resto. Secondo me il cadavere del mio dito non è ancora stato trovato.»

«E come fai a essere così sicuro che appartenga a un cadavere?»

«Infatti non lo sono, affatto. I medici dicono che è stato tagliato a una persona ancora viva. Tu cosa penseresti?»

«Be’, mi lascerei aperte tutte le opzioni.»

«Uffa… mi ero dimenticato quanto fossi saggia» brontolò Stadler. «Comunque ho già richiesto il fascicolo relativo al vecchio caso, così vedremo se ci sono altre affinità con i nostri.»

«E i ritagli di giornale trovati in bocca alle vittime?» domandò Liz. «Il messaggio, è possibile ricostruirlo?»

«Quello di Katharina Wagner pare di no. Il pezzo è troppo piccolo e malridotto. Ci sono solo dei residui di cera. Non bastano nemmeno per una singola lettera.»

«E quello di Jonathan Geissler?»

Stadler serrò le labbra. L’SMS del collega della Scientifica, al mattino, lo aveva colto alla sprovvista, risvegliando in lui ricordi morti e sepolti. Un ripostiglio buio, una minuscola prigione con mostri nascosti dietro pile di panni, e il disperato tetativo di reprimere le lacrime.

«Chi non vuole capire, deve subire» rispose con voce cupa.

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