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Salvezza

PRIMA di tornare in me, impiego tre settimane. Ho frequentato le lezioni e studiato, certo, ma a parte quei momenti ho alternato periodi di totale indifferenza ad altri di totale disperazione. Mi sono ritrovata senza più fiato in corpo e mi ci sta volendo un’eternità per riprendere a respirare, però ci sto provando. È quello che vorrebbe Steffi, lo so. Non sarebbe affatto contenta se sapesse che impatto la sua malattia sta avendo su di me, quindi devo fare di tutto per liberarmi dallo sconforto. Kerry e Carmen sono fantastiche, sono sempre pazienti e mi lasciano piangere ogni volta che ne ho bisogno. Le mie nuove amiche sono fondamentali, anche se non ho alcuna intenzione di sostituire Steffi con loro, benché il pensiero si faccia largo nella mia mente molto più spesso di quanto vorrei. E poi Jason e Danny, gli amici di Esben, mi riempiono di abbracci affettuosi, tanto che mi stupisco di non essere ricoperta di lividi. Non riesco, però, a non pensare che Steffi non ha nessuno a confortarla. Solo perché ha scelto consapevolmente di isolarsi non significa che sia più facile accettare la sua decisione.

Tre giorni dopo la sua telefonata, l’ho detto a Simon. Lui avrebbe voluto raggiungermi, ma l’ho convinto a desistere. Ho la sensazione che, se lo vedessi, potrei crollare, perché l’amore che proviamo entrambi per lei è enorme.

In questo sabato mattina di febbraio, mi sveglio determinata ad affrontare le prossime ore come se fosse un giorno qualunque.

La seconda stanza si è nuovamente riempita di pacchi di Simon ancora chiusi, a testimonianza delle emozioni in sospeso. È giunto il momento di sbarazzarsi almeno in parte del dolore, quindi comincerò con una cosa semplice: vado ad aprire il pacco più grande.

In seguito alla telefonata di Steffi, ho scoperto di aver rotto la macchina del caffè e la caraffa di vetro, oltre ad aver ribaltato il minifrigo e distrutto le bottiglie al suo interno. Io non ricordo nulla ed Esben ha ripulito tutto prima che potessi vedere il disastro che avevo combinato. Tuttavia, ne ho sentito molto la mancanza.

Estraggo dal pacco la nuova macchina e le tazze e le sistemo al loro posto. Ora è tutto uguale a prima, ma è solo un inganno, perché nulla è più com’era una volta.

Sarò coraggiosa. Sarò coraggiosa. Sarò coraggiosa.

Andrò avanti.

È ancora sufficientemente presto per convincermi che questa giornata si possa salvare e forse, almeno per oggi, posso cercare di non crollare. Esben è uscito mentre dormivo e non so dove sia andato. Passo un’ora a pulire la stanza, cambio le lenzuola, mi faccio la doccia e asciugo i capelli, infine preparo il caffè.

Poco dopo le undici, Esben rientra e si scuote la neve dalla testa.

Non appena mi vede, si illumina. «Ciao, piccola. Come sei bella.»

«Mi sono lavata e ho indossato qualcosa di diverso dai pantaloni della tuta.» Mi sforzo di sorridere. «Prima o poi doveva pur succedere.»

Appende il cappotto e mi abbraccia. «So che è un incubo.» Mi accarezza la schiena. «Ancora niente?»

Me lo domanda in continuazione, anche se sappiamo benissimo entrambi che Steffi non si farà sentire.

«No.»

La chiamo ogni giorno. Spero sempre che cambi idea, che si decida ad aprirsi, invece alle mie telefonate parte direttamente la segreteria. A volte le lascio un messaggio, altre no, perché finora le mie parole non sono servite a convincerla. Ho anche provato a farla chiamare da Esben e Simon, ma lei si è isolata dal resto del mondo. Ha chiuso i suoi account sui social e le email tornano sempre indietro.

«Penso sia giunta l’ora di smetterla. Lei vuole così e io devo accettarlo.»

«Già, lo credo anch’io», mi dice lui in tono gentile.

«Però mi domando se sta soffrendo, chi si sta prendendo cura di lei.» Fa male persino respirare mentre pronuncio queste frasi. «Mi chiedo quanto sia grave la situazione adesso, quanto…» Le parole mi si bloccano in gola. «Quanto le resta. Avrà paura? Si sentirà sola, triste, arrabbiata? Mi…»

Dio, non posso credere di dirlo a voce alta. Di dovermi preparare a questo.

«Secondo te mi chiameranno quando… quando non ci sarà più?»

«Sì. Steffi si assicurerà che qualcuno ti avvisi.»

«Steffi si è sempre comportata come una mamma altruista che farebbe di tutto pur di prendersi cura del proprio bambino. Mi ha sempre tenuta d’occhio, molto più di quanto mi abbia permesso di fare con lei. Sempre. E non è giusto. Sono riuscita a salvarla dal dolore una volta, il giorno in cui le ho strappato di dosso quel ragazzo, e adesso vorrei fare altrettanto. Vorrei strappare via il cancro dal suo corpo. Vorrei strappare via la sofferenza. Oh Esben, prenderei il suo posto senza pensarci nemmeno un attimo.»

«Lei è fatta così, e non puoi cambiare le cose, soprattutto non ora. Il modo in cui sta gestendo la situazione è una sua scelta. Se allontanarti le serve, allora devi lasciarglielo fare.»

Annuisco e mi sforzo di mantenere la calma. «Ho bisogno di una distrazione. Devo pensare a qualcosa di diverso. Almeno per un po’.»

«Okay. Che cosa vuoi fare?»

La sensazione di stare tra le sue braccia e la sicurezza ormai familiare che mi trasmette Esben mi fanno desiderare di più. Mi fanno desiderare lui. Lo bacio. «Questo. Voglio fare questo.» Sposto le mani sulla sua camicia, risalgo fino alle spalle e poi comincio a slacciare i bottoni.

Quando abbasso il palmo sui suoi pantaloni, Esben trattiene il fiato. «Allison, sei sicura? Non l’abbiamo più fatto da… da quella mattina.»

Lo bacio sul collo e, con un rapido movimento, lui mi solleva da terra. Gli cingo la vita con le gambe e mi lascio portare in camera. Le sue dita su di me, i gemiti che gli sfuggono, il modo in cui respira e mi fa sentire viva sono ciò di cui ho bisogno. Anziché perdermi in lui mentre facciamo l’amore, accade l’esatto contrario: ritrovo me stessa.

«Stai bene?» mi domanda Esben più tardi.

«Credo di sì. Per quanto sia possibile.» Mi sdraio sulla pancia e mi puntello sulle braccia. «Sto meglio rispetto a prima.»

«Mi piace vederti sorridere di nuovo.»

«Ci sto provando.» Gli do un bacio veloce. «Allora, dove sei stato stamattina?»

«Oh, già…» Scoppia a ridere e si allunga sopra di me per prendere il cellulare.

Mi mostra la home page del suo blog, che leggo per qualche minuto, con un sorriso sempre più ampio stampato in faccia. «Questo è il vecchietto che era alla caffetteria dove mi hai portato. Mi ricordo di lui. Gli hai preso un cucciolo?»

«Lo incontro ogni volta che ci vado ed è sempre così solo e triste che mi spiaceva vederlo in quelle condizioni. Allora ho iniziato a chiacchierare con lui e mi ha raccontato che non ha parenti in zona. Ha una figlia che sta dall’altro capo del Paese e che lo chiama appena una volta l’anno. Mi sembrava depresso e… non lo so. Cosa c’è di più divertente di un cagnolino? L’ho accompagnato al canile e gli ho fatto conoscere questo cucciolo di labrador nero. Carino, eh?»

Ingrandisco l’immagine. Il piccolo è un’adorabile palla di pelo, ma non è lui la cosa più importante. «Dio, l’espressione dell’uomo è bellissima! Guarda com’è felice!»

«Vero? E poi è in pensione, quindi è un padrone perfetto per un cucciolo.»

«È stato deprimente al canile? Con tutti quei cani che hanno bisogno di una casa?»

«Un po’ sì, non posso negarlo.»

«Mi dispiace un sacco per i cani più vecchi che non vuole nessuno. Tutti cercano un cucciolo o quantomeno un cane giovane, invece i più vecchi restano nei canili anche per anni. La mia versione canina», concludo, con una risata amara.

Esben mi accarezza la spalla nuda. «La gente non sa quello che si perde.»

«Un giorno adotterò un vecchio cane bruttissimo. Talmente brutto che sarò l’unica a trovarlo carino. Il cane meno adottabile che ci sia.»

«Mi piace l’idea. Un sacco.»

Forse Esben mi ha influenzato, perché gli ingranaggi nella mia mente si mettono in moto. Faccio qualche ricerca su Google sui cani brutti, vecchi e su quelli che nessuno vuole. Poi osservo il braccialetto con la fenice che ho al polso. «Mi è venuta… un’idea», annuncio.

Con un sorriso contagioso, Esben mi tira a cavalcioni su di sé e mi fa il solletico. «Aspettavo questo momento. Ci sto al cento per cento.»

«Non sai nemmeno di che si tratta!»

«Certo che lo so!»

«Per forza, hai inventato tu queste cose. Allora, mi aiuterai?»

«Assolutamente sì. Andiamo.»

«Adesso?»

«Adesso.»

Recupera i vestiti che poco fa ci siamo strappati di dosso e ci ritroviamo intrappolati in un groviglio di jeans e camicie.

Da quando ho ricevuto la telefonata, non sono mai stata così di buonumore e sono quasi in imbarazzo perché non smetto di sorridere. «Sono davvero elettrizzata.»

«Ecco la mia ragazza. Sono fiero di te.»

«Pensi che ce la faremo? Non dispiacerà a nessuno?»

«Saranno tutti entusiasti.»

Il mio telefono squilla facendomi trasalire. Ho sempre la speranza che sia Steffi.

«Ciao, Simon.» Sgrano gli occhi rivolta a Esben e cerco di coprirmi con la camicia che mi ha lanciato. Non posso parlare con mio padre mentre sono nuda!

«Okay, non arrabbiarti», esordisce lui. «Ma ero preoccupato per te. Molto. Quindi sto venendo a trovarti.»

«Non sono affatto arrabbiata, ma non ce n’era bisogno.» Scendo dal letto e inizio a vestirmi usando una mano sola. Esben ride, ma lo zittisco con un’occhiataccia. «Quando arrivi?»

Si schiarisce la voce. «Più o meno tra sei minuti.»

«Sei minuti!»

Esben balza fuori dal letto e si infila di corsa boxer e jeans.

«Wow, okay.» Ho i capelli arruffati, quindi provo a spazzolarli intanto che Esben mi allaccia il reggiseno. «Ti va di venire con me ed Esben? Stiamo organizzando una cosa.»

«Certo. Vi aspetto dove ho parcheggiato quando ti ho accompagnato in autunno.»

Dio, sembrano passati anni. «Ci vediamo tra un minuto.»

Ci ricomponiamo in fretta e corriamo fuori. Controllo la strada in cerca dell’auto, ma a quanto pare non è ancora arrivato. In piedi in attesa sui gradini, Esben mi dà un bacio sensuale. Proprio quando sto cominciando a riscaldarmi, sobbalzo per un forte colpo di clacson. Mi guardo intorno, ma Simon non c’è ancora. Sono pronta per un secondo bacio, quando il clacson suona più energico. Mi stacco da Esben.

«Aspetta un attimo. Ma quello è Simon?» Scendo di qualche gradino e sbircio la macchina grigia tutta tirata a lucido. «Oddio, è lui.» Corro dal lato del passeggero e vedo che mi saluta con una mano, raggiante.

Abbassa il finestrino. «Ciao, ragazzi!»

«Bella macchina!» esclama Esben.

«Quando diamine ti sei comprato una Porsche? È una follia!»

«La vecchia macchina aveva fatto più di trecentomila chilometri», risponde lui, con un’alzata di spalle. «Mi sono detto, perché no? Dài, salite. Sarete congelati. Vuoi provare a guidarla?»

«Neanche per sogno. Avrei troppa paura di distruggerla.»

Simon mi fa una linguaccia. «Esben?»

«Sul serio? Certo! Ne è sicuro?»

Simon scende e va dal lato del passeggero.

«Wow!» Esben si fionda subito al volante.

Simon mi abbraccia e mi sento sopraffare dall’emozione.

«Sono davvero felice che tu sia qui», mormoro. «Grazie.»

«Ci sarò sempre. Riuscirai a superare questa storia.»

Venti minuti dopo, avanziamo per il lungo corridoio del canile, costeggiato da gabbie di metallo piene di bestiole. Abbiamo spiegato a Simon il nostro piano e lui è ancora più contento di essere venuto proprio oggi. Faith, che questa mattina ha aiutato Esben con il cucciolo, ha subito approvato la mia idea e ogni tanto si ferma a raccontarci di qualche cane. Scatteremo delle foto e le pubblicheremo online, insieme alle informazioni sul perché ognuno di loro è speciale, nella speranza che serva da incoraggiamento a adottarli. L’obiettivo è spingere la gente a guardare al di là delle apparenze.

Mi fermo davanti a un cane enorme con il pelo grigio arruffato. Ha le gambe troppo lunghe, è di un colore strano e ha il muso troppo allungato e sproporzionato rispetto alla testa. Non è affatto un cane attraente, e lo adoro all’istante. Se ne sta seduto in un angolo e, dietro ai ciuffi di pelo, scorgo i suoi occhi scuri e tristi. Vedo il suo sconforto. Quando mi chino e lo chiamo, non si avvicina neanche. Anzi, peggio: distoglie lo sguardo. Leggo il foglio appeso alla rete metallica.

«Esben. Questo qui. Cominciamo con lui.»

Lui annuisce e Faith ci raggiunge con un guinzaglio. «Potete portarli fuori se volete. Probabilmente c’è una luce migliore. Allora, questo è Bruce Wayne», ce lo presenta, con un’occhiata malinconica. «Diamo ai cani dei nomi divertenti nella speranza di attirare le famiglie. Sembrerà stupido, ma aiuta. Lui è molto timido. È con noi da due anni e, prima, ne ha passati quattro in un altro canile. Ormai ha nove anni e…» Si interrompe per un secondo. «Nessuno ha mai chiesto di vederlo fuori dalla gabbia. Mi piange il cuore. Lo adoro e, se potessi, lo prenderei io, ma a casa ho già cinque cani.»

«Posso farlo uscire?» chiedo.

«Certo. È piuttosto nervoso, quindi lasciagli qualche minuto. Però è buono.»

«Sai come fare. Ne sono sicuro» mi incoraggia Esben.

Ha ragione. Capisco fin troppo bene questo cane. Talmente bene che è quasi straziante.

Con la coda dell’occhio, noto Esben che solleva il telefono per immortalare qualsiasi cosa accadrà.

Una volta aperta la porta della gabbia, mi piego con calma ed entro appena di qualche centimetro, restando vicina all’ingresso. «Ciao, Bruce», dico sottovoce. «Ciao, bello.» Lui non reagisce, perciò mi siedo e mi appoggio alla parete. «Va tutto bene. Ti aspetto.»

E così faccio. Dopo pochi minuti, Bruce mi scruta per un istante e poi distoglie lo sguardo. Ogni volta, però, io mi avvicino un pochino di più, gli sussurro qualche parola dolce e attendo. Andrò avanti tutto il giorno se sarà necessario. Quando tra noi resta meno di un metro, finalmente Bruce si gira verso di me e, di punto in bianco, fa uno scatto in avanti. Per un attimo, ho il terrore che questo gigante voglia staccarmi la faccia a morsi, invece cerca di salirmi sulle gambe. È così grosso che ci sta a malapena, ma faccio il possibile per lasciarlo accoccolare. Bruce si appoggia a me e io rido e lo accarezzo. Puzza, è sgraziato e dolcissimo. Avvicino il viso al suo pelo nel tentativo di fargli capire che qualcuno lo ama, che non è affatto inutile, e lui agita la coda.

«Non posso crederci», interviene Faith che, piano piano, entra nella gabbia e mi passa il guinzaglio. «Da quando è qui, non ha mai scodinzolato, nemmeno una volta. Hai un tocco magico.»

Accarezzo le orecchie al cane e gli sistemo il guinzaglio intorno al collo. Guardo Simon, e sul suo volto leggo la mia stessa incredulità. «Bene, andiamo a fare una passeggiata, che ne dite?» propone.

Praticamente trascinata da Bruce lungo il corridoio, seguo Faith fino all’ampio giardino recintato dove il cane saltella in giro felice. Lo accarezzo e lui si sdraia sulla schiena per farsi grattare la pancia. È davvero strano, questo parallelo tra la triste vita di Bruce e la mia. Anche se non credo di non essere stata adottata da piccola per via del mio aspetto, io e questo animale abbiamo qualcosa in comune: nessuno ci ha voluto. Nessuno ci ha voluto sul serio, e per nessun buon motivo. Entrambi all’inizio eravamo entusiasti ma, con il passare degli anni, abbiamo ceduto sempre più allo sconforto. Per la gente è stato difficile guardare oltre, e ora l’ho capito.

Dietro l’apparenza poco attraente, Bruce ha un cuore.

«Simon? È dolce, eh? La maggior parte della gente non lo degnerebbe di uno sguardo, invece è un cane speciale, vero?»

Simon si inginocchia. «Eccome. Ma guardatelo. C’era un cucciolo felice nascosto qui dentro, eh? Quanto sei dolce? Sei solo un cagnolone un po’ triste, eh? Adesso stai meglio? Sì?» Gli parla come a un bambino e gli gratta la pancia. «Allison ti ha ricordato che anche tu puoi ricevere un po’ di amore, proprio come chiunque, vero?»

Passiamo dieci minuti a giocare con Bruce, e con Simon ci mettiamo in posa per le foto, per far capire ai follower di Esben che è un cane meraviglioso.

«Postato!» annuncia Esben contento. «Tra il video e le foto, questo cane verrà adottato in un batter d’occhio. Ho aggiunto anche uno scatto del foglio con i suoi dati. Okay, ci resta ancora una tonnellata di cani da immortalare, quindi volete…»

«Esben?» interviene Simon. «Penso che tu debba correggere il post.»

«Perché?» gli chiedo.

In quell’istante, capisco e scuoto la testa: Simon è fantastico.

«Perché», spiega lui rialzandosi con aria fiera, senza staccare gli occhi dal cane, «il signor Bruce Wayne è già stato adottato. Sempre che io riceva l’approvazione del canile, s’intende.»

Faith sorride. «Comincio a preparare i documenti.»

Mi inginocchio e accarezzo Bruce. «Ne sei sicuro, Simon? Non sei obbligato. Vuoi davvero prendere un vecchio cagnone? E portarlo a casa sulla tua nuova Porsche?»

«Certo. Dopo quello che ho visto, non potrei mai lasciarlo qui. Farà un figurone sul sedile accanto a me. E poi chissà, magari scoprirò che è una calamita per gli uomini e avrò una marea di appuntamenti.» Mi appoggia una mano sulla spalla. «E poi ci serve un po’ di allegria. È un brutto momento destinato a peggiorare.»

Ha ragione. Anche lui sta soffrendo per Steffi.

«La nostra famiglia si è solo allargata un po’.» Mi rassicura con un sorriso. «L’unione fa la forza.»

Simon si mette in posa per una foto con Bruce che sbava a profusione ed Esben la mette subito online: #brucevaacasa #ilpapàdellamiaragazzaallison #dolcevittoria

Più tardi, con in braccio un rat terrier più simile a un topo che a un cane, mi faccio fotografare con una smorfia stupida da Esben, che poi controlla i commenti. «La gente adora quest’idea!»

«Ah sì?» Simon lancia una palla a Bruce, che però non si mostra minimamente interessato a rincorrerla.

«Ehm, Simon?» Esben ridacchia. «A quanto pare è nato un suo fan club.»

«Davvero?»

«Controlli Facebook.»

«Ho cinquantotto richieste di amicizia! E… ben dieci messaggi.»

«Tantissima gente l’ha taggata come #quelgranficodipapà», aggiunge Esben.

«Bene. Saranno soprattutto donne, immagino.» Simon finge di mettere il muso.

«Ehm… non credo. Ci sono un sacco di commenti da parte di uomini. E alcuni sono pure carini.»

«Sul serio? Dovrò fare qualche indagine, allora.»

Mi siedo con molti più cani di quanti possa contarne e sono sopraffatta dalla sensazione di poter fare del bene per questi animali che se lo meritano tanto. E, nel frattempo, riesco a capire Esben ancora meglio. Aiutare gli altri può aiutarmi a guarire.

Intanto che Esben carica l’ultima foto di me con una fantastica femmina di labrador color miele mi appoggio a lui. «Questa cagnolina è dolcissima. Odio l’idea che stia qui, che si senta sola. Però so che le troveremo una famiglia. Qualcuno la amerà e si scorderà del passato. Ne sono convinta.» Inspiro a fondo. «Sto molto meglio. Grazie.»

«È stata opera tua, tesoro.» Mi cinge con un braccio e mi stringe a sé.

«Bene. Un giorno è andato», annuncio, con tutto l’orgoglio e il coraggio di cui dispongo. «Ora devo soltanto superare gli altri.»

«Possiamo rifarlo ogni giorno se vuoi», mi promette Esben. «Finché ne avrai bisogno.»

Forse ci toccherà davvero, perché non riesco proprio a immaginare come sopravvivrò ai giorni che restano fino alla telefonata.

La telefonata in cui mi diranno che Steffi è morta.