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Maccheroni e video

IO e Steffi ci separiamo davanti al dormitorio di Esben e, seppur un po’ traballante, mi avvio su per le scale. Davanti alla sua stanza, busso senza la minima esitazione. Stasera faccio sul serio.

La porta si apre e, per un istante, resto spiazzata. Non riesco a ignorare il fatto di trovarci di nuovo a pochi centimetri l’uno dall’altra, né che lui abbia le spalle larghe, ma non troppo, e che io conosca bene la sensazione di stare premuta contro di lui, tra le sue braccia. Scuoto la testa e osservo il ragazzo stupito che mi sta di fronte. «Io e te dobbiamo parlare, caro mio!» Lo supero ed entro in una stanza singola, con spazio appena sufficiente per un letto, una scrivania e un cassettone. Il letto è sfatto, con il piumone blu accartocciato sopra le lenzuola scozzesi; ci sono vestiti sparpagliati ovunque e la scrivania è talmente ingombra che sta per venirmi un attacco di panico. «Sei proprio un casinista», commento ad alta voce.

Impiega un secondo prima di rispondermi. «Mi… mi dispiace. Ovviamente non immaginavo che saresti passata.» Segue una breve pausa, poi aggiunge: «Allison».

È la prima volta che gli sento pronunciare il mio nome e sono un po’ scossa. «Oddio, scusami. Non sei un casinista. Sono tremenda.» Mi lancio un’occhiata intorno. «Però non sei certo un maniaco dell’ordine. Non che ci sia qualcosa di male. È una scelta di stile. Molto rilassato.»

«Aspetta che…» In fretta e furia sistema le lenzuola e il piumone. «Ti va di sederti?» Senza guardarmi, accenna al letto.

«Va bene.» Mi accomodo e lui si siede alla scrivania. D’istinto, comincio a lisciare il piumone e a fissare le pieghe del tessuto sotto la mia mano. Poi mi concentro sulla stanza: il microonde appoggiato su una pila di cassette di legno si intravede appena, ricoperto com’è di indumenti, quaderni e dischi. Noto anche una videocamera su uno scaffale e distolgo subito lo sguardo.

Il silenzio si protrae più di quanto sia socialmente accettabile, eppure non è strano quanto dovrebbe. Mi accorgo che Esben aspetta che sia io a dettare i tempi, proprio come fa Simon.

«Devo farti diverse domande», sbotto. Il gin mi rende talmente diretta che è seccante. Non riesco a guardarlo in faccia, però, quindi mi concentro sulle mani.

«Okay.»

«Ti fai mai lo chignon?»

Scoppia a ridere. «No, non ho i capelli abbastanza lunghi ma, anche volendo, dubito che me lo farei.»

«Bene.»

«Prossima domanda.»

«Perché non hai un poster con un gattino appeso a un ramo, con qualche frase orrenda del tipo Tieni duro? O uno di Gandhi con una citazione brillante, e invece hai una foto in bianco e nero di Lenny Kravitz?»

«Sono allergico ai gatti e Gandhi era meno fotogenico di Lenny Kravitz.»

«Divertente», borbotto. Finalmente, alzo la testa. «Perché mi hai fatto una cosa simile?»

«Non capisco», risponde sottovoce.

«Perché mi hai messo su internet? Perché mi hai coinvolto in questa cosa? Che ti ho fatto di male?» Parlo a voce sempre più alta. «Me la cavavo bene, sai, poi per colpa tua tutti hanno cominciato a rompermi le scatole e a domandarmi di me e», gesticolo da perfetta ubriaca, «a twittare commenti e tutto il resto. Non l’ho mica chiesto io.»

«Mi dispiace tanto, Allison», replica gentile, ma sorpreso. «Io… Io… Hai firmato la liberatoria. Tu… Credevo che sapessi chi ero.»

«Oh, ma come sei modesto!»

Gli strappo una risata. «Non intendevo quello. È solo che… faccio un sacco di esperimenti sociali simili e siamo in un campus relativamente piccolo…»

«Allora avresti dovuto sapere che mi piace essere lasciata in pace, cavolo! Che non voglio che la gente mi veda comportarmi come, come… Nessuno avrebbe dovuto vederlo perché non sarebbe dovuto accadere. Ti serviva forse qualcuno per il gran finale e così hai fatto scegliere a tua sorella la persona più introversa che avete trovato per vedere se saresti riuscito a… a farmi crollare?» lo accuso.

Esben pare davvero ferito e io mi sento in colpa. Scuote più volte la testa. «No, no. Dio, no…» Distoglie lo sguardo.

«Cos’è successo quel giorno? Devi dirmelo», lo imploro. «Perché io non lo capisco. Perché abbiamo… Forza, mi racconti tutto, signor Esben Baylor. Forse pensi che tutti ti conoscano, ma io non so niente di te, se non che sei un emerito idiota.» Mi scappa un singhiozzo ma, da bravo gentiluomo, lui non fa commenti a riguardo. «Parla!» Mi sto comportando come una pazza, però non sono in grado di interrompere il fiume di parole che mi esce dalla bocca.

«Okay.» Inspira a fondo. «Non so mai chi parteciperà ai miei progetti, te lo giuro. Anche se la settimana scorsa c’era una gran folla, abbiamo faticato a trovare dei volontari. La gente si innervosisce dopo avermi guardato per un po’. E poi, di solito è più interessante con chi non ha avuto il tempo di riflettere su quello che dovrà fare. Kerry ha detto che ti ha semplicemente scelto nel mucchio. Non c’era niente di programmato, te lo assicuro.» Abbassa gli occhi verso il pavimento e, per il nervoso, si passa le mani sulle cosce.

«Però è successo comunque», ribatto, in tono più gentile di quanto volessi. E più spaventato, forse. «È successo e io non volevo.»

«Se avessi saputo che non volevi partecipare… Non sapevo nulla di te, se non che un giorno avevi rovesciato il caffè.» Abbozza un mezzo sorriso. «Ho voluto provare quell’esperimento perché immaginavo sarebbe stato un bel modo di vedere come due estranei riescono a comunicare, a provare delle emozioni e magari anche a trovare dei punti in comune in silenzio. Per vedere come i pregiudizi sugli altri possono essere spazzati via, come in poco tempo si possa creare una sorta di legame. Non avevo idea di come sarebbe andata a finire.» È sincero, si vede. «Ho incluso nel video la parte con noi due perché si è verificato qualcosa di unico. Qualcosa per cui ero completamente impreparato e che mi ha toccato nel profondo. Vuoi che te lo spieghi? Non so se posso farlo. Io…» Ora è a disagio. «C’era qualcosa in te che mi ha subito attratto. Non mi ero mai sentito tanto rapito da nessun altro prima. È come se fossi entrata nella mia mente, per ascoltarmi, rivolgermi domande, darmi conforto e tendermi una mano.» Scoppia a ridere, incredulo, e lo capisco benissimo. Poi si ravvia i capelli e cambia posizione sulla sedia.

Scivolo con il sedere più indietro sul letto fino ad appoggiarmi a un cuscino. «Forse lo comprendo o forse no», ammetto. «Va’ pure avanti.» Desidero che continui a parlare perché l’alcol mi ha sciolto abbastanza e mi sto godendo lo spettacolo delle sue mani che si muovono e del suono della sua voce, un po’ roca ma non troppo profonda.

«Solo perché non c’è una spiegazione razionale per ciò che è accaduto tra noi, non significa che io non sappia apprezzare quei tre minuti o che non sia grato di averli vissuti. Quanto spesso ci capita di sentirci tanto coinvolti?» Mi lancia una timida occhiata. «Quel giorno ho instaurato altri bei legami. Come con quell’uomo che sarà stato alto due metri, con la bandana in testa, la giacca da motociclista piena di borchie e un’aria cattivissima. A dire il vero, appena si è seduto ho avuto un po’ paura. Reagisco anch’io in maniera ingiusta nei confronti della gente, proprio come tutti. Comunque, ho cercato di svuotare la mente e di non pensare che stavo per essere ucciso, dopodiché è successa una cosa fortissima. A un certo punto, lui si è messo a ridacchiare e io l’ho imitato, e così ci siamo ritrovati a ridere a crepapelle e ci siamo divertiti un sacco.»

«E a quanto pare non ti ha ucciso.»

«Infatti.»

Gli osservo il polso e i braccialetti di pelle e corda e, alla fine, risalgo con lo sguardo fino al suo viso dolce. «E poi sono arrivata io.»

Lui annuisce e si piega in avanti, con gli avambracci appoggiati alle gambe.

«Hai fatto cadere la sedia», aggiungo.

Sorride e, davanti alle sue iridi color ambra, è impossibile arrabbiarsi. «Già. Non sono riuscito a controllarmi.»

«E pure il tavolino.»

«Non sono riuscito a controllarmi neanche con quello.»

«Mi hai baciato.»

«Come avrei potuto non farlo?» I nostri occhi si incontrano. Di nuovo. «L’ho fatto solo io? Sono abbastanza sicuro che anche tu mi abbia baciato.»

Nella mente, conto i secondi. Sei, sette, otto, nove, dieci… Annuisco. Ha ragione.

«Non è stato bellissimo?» mi chiede. «Per me sì, ma forse per te no. In quel momento mi è sembrato troppo ed è per questo che sei scappata, e che poi non ti ho cercato.»

Lancio un’occhiata alla videocamera. «Lunedì non sei venuto al corso di Psicologia. Ti stavi nascondendo?»

«Non stavo bene.»

«Perfetto. Mi beccherò la mononucleosi? O l’aviaria?»

Scoppia a ridere. «No. Era solo un po’ di allergia di fine stagione.»

«Oh.» Giocherello con le dita, poi torno a guardarlo in faccia. «Mi dispiace.» Lo scruto finché non mi accorgo che sono trascorsi troppo secondi e che la situazione sta diventando strana. «Spero che tu sia in forma adesso.»

«Sì.» È calmo e con i nervi saldi. «E tu non eri a lezione mercoledì. E stamattina era ovvio che non fossi felice di vedermi.» Sospira, con una tenerissima aria di scuse. «Allison, mi dispiace davvero che questa storia ti abbia turbata. Posso rimuovere il video in due secondi.»

All’improvviso qualcosa attira la mia attenzione, quindi mi alzo e prendo un piccolo contenitore di maccheroni al formaggio da scaldare al microonde. Leggo le istruzioni. «‘Cuocere per tre minuti.’ Che ironia.» Sollevo il coperchio ed estraggo il sacchetto di alluminio con il condimento al formaggio fuso. «Hai dell’acqua?»

Davanti al sopracciglio inarcato di Esben, resto di sasso. «Oddio, scusami.» Fisso il contenitore aperto tra le mie mani. «È che, quando l’ho visto, mi è venuta una fame pazzesca. Che maleducata… ehm, adesso lo richiudo.» Faccio un tentativo, ma è impossibile sigillarlo di nuovo.

«Non c’è problema.» Recupera una bottiglietta dal frigo e versa l’acqua nel contenitore.

Torno al mio posto sul letto, decisamente mortificata. Il mio telefono emette un bip. È un messaggio di Steffi, con una foto della festa che la ritrae insieme a un bel ragazzo con una camicia scozzese e la scritta: MI SONO TROVATA UN GRAN FIGO!

Esben mi porge l’acqua. «Dovresti bere un po’.»

Oddio! «Perdonami. Sono un tantino ubriaca. O forse tanto e basta.»

«Stai… stai benissimo con i capelli così. Con i ricci.»

«Me li ha fatti Steffi.»

«È la tua compagna di stanza?»

«No, è un’amica che è venuta dalla California per darmi il tormento visto che non volevo parlarle di te.»

«Capisco.» Esben chiude gli occhi per un secondo. «Ti ripeto, mi dispiace un sacco che questa faccenda ti abbia turbata. Alcuni dei miei progetti richiedono molto da parte di chi partecipa. Bisogna essere aperti e… disposti a esporsi. A volte la gente non è pronta, oppure rimane sorpresa, ma di solito in positivo.» Fa una pausa. «Anche se all’inizio oppone resistenza, talvolta ne vale la pena.»

«Come nel mio caso?»

«Come nel nostro caso», mi corregge lui. «Perché hai firmato la liberatoria?»

«Non ci ho prestato attenzione. Ero… giù di corda. Non sapevo quello che facevo.» Mi scappa ancora un singhiozzo. «Un muro… Sai, quelle persone che innalzano un muro dietro cui nascondersi. Ecco, sono io.»

«E non ami che quel muro venga abbattuto.»

«No.»

«Perché no?»

«Tu non puoi capire. A te piace la gente, è ovvio. Sei curioso, vuoi andare a fondo, immergerti nella feccia e quant’altro, giusto?»

«Mi sembra un bel modo di vederla.» Trattenendo un sorrisetto, ruota la sedia per prendere i maccheroni e un cucchiaio di plastica, che mi passa.

«Be’, io non sono così. Non mi interessano le persone. Perché fanno schifo.» Questi maccheroni sono la cosa più buona che abbia mai mangiato. Tra un boccone e l’altro, punto il cucchiaio contro Esben. «Sono inaffidabili, egoiste e bugiarde.»

«Mi pare una visione piuttosto negativa.»

«Adesso sì che ci sei arrivato!» strillo, contenta. «Quindi non capisco i tuoi esperimenti. Non li capisco proprio. Non riesco nemmeno a guardare questa cosa del contatto visivo che hai fatto. Che abbiamo fatto.»

«Aspetta un attimo. Non hai visto il video?»

«Solo qualche spezzone.»

«Okay. Ti va di guardarlo e poi di dirmi che cosa ne pensi? Poi, se vorrai, lo rimuoverò, Allison.»

«Okay.» Scatto in piedi e, in preda ai fumi del gin, lo faccio alzare dalla sedia. Lui mi asseconda gentilmente, anche se noto che alza gli occhi al cielo, e me lo merito.

«Oh, stupendo. Hai uno schermo gigante, così sarà tutto enorme e ancora più traumatico!» grido.

«Non sarà affatto traumatico.» Scoppia a ridere e si sporge oltre la mia spalla per muovere il mouse. Sono fin troppo consapevole della sua vicinanza e non so come interpretare le istantanee farfalle nello stomaco. «Allora, Steffi è una tua amica d’infanzia?»

«Te l’ho detto. Vive in California, a Los Angeles.»

«È da lì che vieni?»

«Dal Massachusetts», mormoro mentre il video si carica. «Sono cresciuta in affido.»

Prima ancora che parta, Esben lo mette in pausa. «Ah sì? Wow. Per quanto tempo?» La sua domanda non trasuda falsa compassione né è dettata dal desiderio di ascoltare dettagli morbosi. È soltanto curioso.

«In affido? Per un’eternità. Be’, fino al terzo anno del liceo. Anche Steffi. Da piccola era malata, e probabilmente la cosa spaventava i potenziali genitori. Io non lo ero, però non mi ha comunque voluto nessuno. Eravamo due disastri. Abbiamo vissuto insieme per un po’ e lei mi ha salvato. Per quanto potessi essere salvata.» Raccontare la verità mi viene facile come respirare. «La mia madre naturale mi ha abbandonato in un ospedale a Boston e non so altro. Forse era giovane o al verde. O era una criminale. Forse era l’amante di un senatore da cui ha avuto una figlia segreta illegittima. Sarebbe figo, eh?»

«Di certo renderebbe la tua storia più scandalosa», risponde lui, con un sorriso.

«È improbabile, ma è l’opzione più affascinante. In fin dei conti non importa. Il punto è che nessuno mi ha voluto. Ho vissuto con diciassette famiglie. Tante, vero? Certe almeno erano a posto. So che cosa è toccato ad altri bambini e io non me la sono mai passata troppo male, però a volte non disfavo nemmeno la valigia. Avevo troppa paura. E poi era inutile.»

«Ecco spiegato perché ti sei costruita un muro intorno», commenta lui.

«Già», confermo.

«Però l’hai abbassato, anche se solo per poco. Quindi forse vorresti abbatterlo», mi dice con la bocca a pochi centimetri dal mio orecchio.

«Sì, forse. È stancante tenerlo sempre in piedi, però non ho idea di cosa accadrebbe se lo lasciassi crollare. È da tantissimo che non provo a vivere senza. Forse da sempre.»

«Capisco. È un onore per me che tu mi abbia permesso di sbirciare dietro quel muro, perché non ho mai provato nulla di simile. Guarda adesso.» Preme Play. «Questo è il filmato originale. I siti che l’hanno ripreso gli hanno appioppato dei titoli disgustosi per attirare visitatori, ma non posso farci niente…»

Non appena parte la musica, mi irrigidisco, però questa volta non distolgo lo sguardo. Esben ha ragione: devo guardare il video perché devo avere tutte le informazioni. Devo sapere che cosa contiene su di me.

Sullo sfondo nero compare il titolo, Bastano solo 180 secondi.

Le immagini e le parole cominciano a scorrere, con sequenze dei primi secondi in cui la gente si siede davanti a Esben intervallate a momenti successivi con persone diverse.

Ecco l’anziano che ho visto quando Steffi mi ha mandato il link. Tiene il bastone accanto a sé e sorride con aria pacifica per tutto il tempo. Emana una gentilezza e una cordialità che mi commuovono. Come il nonno che non avrò mai.

La didascalia dice:

Alcune persone riescono a condividere così facilmente la propria felicità e la propria gioia con il mondo da essere contagiose.

Poi è il turno di una donna con un tailleur elegante e un’espressione esausta. La vedo concentrarsi per il contatto visivo, ammorbidire i lineamenti e, infine, rilassarsi.

Una donna con quattro figli sotto i cinque anni. Di giorno lavora come responsabile di un grande magazzino e non ha mai un weekend libero. Tre volte a settimana la sera lavora in un locale per riuscire a pagare le bollette. Visto che anche il marito lavora di notte, si vedono soltanto poche ore a settimana, ma per lei è abbastanza, perché l’amore vince sempre. O almeno, è quello che spera.

Compare un vigile del fuoco con l’uniforme coperta di fuliggine e uno sguardo duro e sconfitto, davvero deprimente.

Quest’uomo ha appena finito un turno di quindici ore in cui ha salvato tre persone da un palazzo avvolto dalle fiamme. Ne va fiero, ma è anche seccato perché non era presente al compleanno della figlia di sei anni e teme che lei se lo ricorderà per sempre.

Poi tocca a una donna di mezza età con delle bellissime treccine e la pelle color caffè. Per tutta la sequenza il suo viso è assente e di tanto in tanto le si inumidiscono gli occhi.

Questa donna ha perso il marito questo stesso giorno un anno fa. Dice che, anche se appena per pochi minuti, oggi è la prima volta che riesce a sfuggire al dolore.

Mentre osservo le sequenze successive, compresa quella con Esben e il tizio con la giacca da motociclista, mi ritrovo ad aspettare con ansia e, al contempo, a temere la mia comparsa.

Esben mi ha tenuto per ultima.

Prendo il mouse e clicco Pausa, sfiorandogli le dita, e mi giro verso di lui. «Significhi molto per queste persone», commento. Sto cominciando a capire.

«E loro significano altrettanto per me.» Nei suoi occhi leggo un tale calore e una sincerità così genuina che a malapena reggo il suo sguardo. «Io ho solo dato loro la possibilità di lasciar fermare il mondo. Quello che ne hanno fatto poi è fuori dal mio controllo.»

Capisco cosa intende. L’ho vissuto anch’io.

«Continua a guardare», sussurra, in tono nervoso ma anche speranzoso.

Esito: non riesco a far ripartire il video perché temo che il mondo, il mio mondo, andrebbe in frantumi. Sotto il mio palmo, il mouse mi sembra duro e minaccioso.

Esben appoggia una mano sopra la mia. «È tutto a posto.»

E, insieme, premiamo Play.