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Soltanto una

ALLE nove di sera sono a letto, intenta a lisciare le lenzuola inamidate perché la piega perfetta sul mio petto rimanga tale. Grazie a un piccolo ventilatore sulla scrivania, gira abbastanza aria per non soffocare in questa torrida serata. Il fracasso degli studenti che festeggiano il ritorno al campus mi ha fatto venire un nodo allo stomaco, quindi ho deciso di non aprire la finestrella della mia stanza. Il ronzio del ventilatore non basta a sovrastare il rumore, ma se non altro aiuta.

All’improvviso, con mio grande stupore, sento bussare alla porta e impiego un attimo per tenere a bada il panico prima di aprire, con una certa esitazione.

«Allison! Come sono andate le vacanze? Vieni alla festa di sopra?» Davanti a me c’è una ragazza piuttosto bassa con un bicchiere di plastica in mano e i capelli ossigenati che le ricadono sulle spalle. Ricordo che la vedevo ad alcuni corsi che ho seguito l’anno scorso. Becky? Bella? Brooke? Ha un nome che inizia con la B. Notando che indosso una canottiera e i pantaloni del pigiama, si corregge: «Oh, direi di no.»

Le sorrido. «Ciao! Che bello vederti. Oddio, sei uno schianto! Guarda che abbronzatura!» Riesco a fingere un tono talmente entusiasta da sorprendere me per prima. «Non ne posso più delle feste per la fine dell’estate.» Le rivolgo un’occhiata, come a lasciarle intendere che nelle ultime settimane mi sono dedicata a così tante attività sfrenate che adesso non ho più la forza di trascinarmi all’ennesimo party. Aggiungo pure un finto sbadiglio.

B., o comunque si chiami, solleva il bicchiere e annuisce con vigore. Una ciocca di capelli le finisce nel drink. «Ti capisco. Be’, riposati allora. Sarà per la prossima volta, okay?»

L’idea di dover passare altri due anni in questo posto, costretta a evitare ogni interazione sociale, è davvero scoraggiante. Se potessi andare a lezione avvolta nel mantello dell’invisibilità, non ci penserei due volte.

«Volentieri…» Commetto l’imperdonabile errore di lasciare la frase in sospeso, facendole intendere che non ho la più pallida idea di quale sia il suo nome.

«Carmen», precisa lei, infastidita. «Carmen. L’anno scorso stavo nella stanza accanto alla tua e abbiamo seguito insieme Letteratura e Storia della Gran Bretagna.»

«Ma certo, lo so come ti chiami!» Mi sforzo di trovare qualcosa da aggiungere. Anche se non mi va di partecipare a nessuna festa, di sicuro non desidero ferire i suoi sentimenti. È in momenti come questo che vorrei essere meno imbranata e strana. Nel tentativo di mostrarmi simpatica, le dico: «Stavo… stavo solo guardando i tuoi orecchini. Sono unici».

Si tocca un orecchio. «Sono dei semplici cerchi d’argento.»

«Ehm, in realtà non intendevo unici, intendevo che… che sono proprio della dimensione giusta, non troppo grandi né troppo piccoli, no?»

Carmen mi guarda, non proprio convinta. «Immagino di sì.»

«Sono bellissimi. Ne vorrei anch’io un paio uguale.»

«Me li ha presi mia madre. Posso chiederle dove li ha comprati, se vuoi.»

«Che pensiero carino. Grazie!» Così però sono un po’ troppo allegra, perciò mi do una calmata e fingo di sbadigliare di nuovo. «Comunque, scusa ma stasera non sono granché di compagnia. Beviti una birra per me però, okay?»

«Comincio subito!» Trangugia un lungo sorso e si incammina. Dopo qualche passo si volta. «È stato bello rivederti, Allison.»

«Anche per me, Carmen!»

Chiudo a chiave e spengo la luce. Fisso la porta della stanza vuota, ancora aperta. Non so che cosa fare. Se la chiudo, sembrerà che lì dentro ci sia una persona che dorme, studia, o che se la spassa con qualcuno e vuole un po’ di privacy… Come se ci fosse un’amica con cui ho instaurato un vero rapporto. Qualcosa. Se resta aperta, invece, mi ricorderà che è vuota.

Non riesco a decidermi e intanto i minuti passano.

A un certo punto, con uno scatto, afferro la maniglia e la chiudo. Quella camera non esiste.

Corro nella mia e sbatto la porta, anche se mi sembra comunque di metterci troppo a infilarmi nel letto.

In tutta fretta, mi tiro le lenzuola fino al mento, come in preda a un attacco isterico. Perché Carmen è passata a salutarmi? Non me lo spiego. Muovo freneticamente le dita dei piedi e per costringermi a tenerle ferme devo premere le piante l’una contro l’altra.

Mi faccio aria con le lenzuola e poi riprendo a lisciarle, per creare una nuova piega perfetta sul mio petto. Simon ha insistito per comprarmele e le ha addirittura lavate e stirate prima che partissi. Quando ho cercato di rifiutarle, mi è parso deluso. «Non puoi avere un solo paio di lenzuola! Ti prego, prendine un set in più, soltanto per quest’anno», mi ha supplicato. «Hanno un alto numero di fili.» E così l’ho ringraziato e ho accettato il regalo, con il suo alto numero di fili.

Non sono abituata alla sensazione del cotone più pesante, perché sono cresciuta dormendo tra lenzuola a buon mercato, quindi mi sento un po’ a disagio e sono tentata di recuperare quelle vecchie dall’armadio e rifare il letto. Per accontentare Simon, però, proverò a resistere. Sono anni ormai che cerca di farmi conoscere una nuova normalità.

Vorrei tanto permetterglielo, ma nel mio passato ci sono troppe ombre che lui non può cancellare.

Ho smesso di sperare in una vita stabile all’età di dieci anni. Se devo essere sincera, sono stata ottimista fin troppo a lungo, ma il giorno in cui ho compiuto dieci anni ho capito che non sarei mai stata adottata. Nessuno avrebbe voluto una ragazzina timida, noiosa e iperattiva che ormai non aveva più, nemmeno lontanamente, le sembianze di un grazioso bebè.

Chiudo gli occhi e continuo a lisciare le lenzuola, nel tentativo di placare l’ansia che mi assale quando ripenso al passato.

Ricordo un’assistente sociale particolarmente gentile che era venuta a prendermi alla casa in cui avevo abitato quando avevo all’incirca otto anni. Era il primo dell’anno, dal cielo cadeva un nevischio che si depositava sui cumuli di neve e lei si sarà sistemata la sciarpa di lana rosa almeno dieci volte al minuto tanto era nervosa. Che compito deprimente le era toccato. Riesco ancora a vedere i volti sorridenti dei genitori e dei loro due figli naturali mentre mi abbracciavano e mi salutavano con la mano, augurandomi il meglio e ringraziandomi per essere stata da loro. Ringraziavano me, come se fossi stata una studentessa in un programma di scambio che era lì per conoscere le abitudini di una benestante famiglia del Massachusetts. Come se mi avessero ospitata per divertimento. Se non altro, per sei mesi avevo mangiato bene, frequentato una buona scuola e preso lezioni di danza. Lezioni che comunque non avevano compensato il dolore di sentirsi dire che era giunto il momento di andarsene.

La mia infanzia è stata un continuo cambiare scuola, stanza, abitazione, quartiere, famiglia. Ripenso a tutti gli insegnanti e i compagni di classe che ho incontrato, a tutte le volte che ho dovuto ricominciare daccapo.

E poi i compleanni, festeggiati in maniera esagerata o completamente dimenticati.

Ho il respiro corto e stringo il lenzuolo tra le dita, ripetendomi che adesso ho molto più di quanto mi sarei mai aspettata. Dovrei sentirmi rassicurata. Ora ho Simon, che mi ha adottato. Ha firmato i documenti, grazie a Dio! Legalmente, non può abbandonarmi.

È costretto a restare con me.

Lo squillo del telefono mi riscuote dal flusso di pensieri.

Steffi. L’unica persona al mondo con cui ho voglia di parlare.

Mi asciugo il viso e mi schiarisco la voce. «Ma ciao!»

«Ciao!» strilla lei in tono allegro, dandomi un conforto istantaneo.

Avete presente la regola per cui il mondo è un posto instabile e inaffidabile? Ecco, Steffi è l’eccezione. Fin dal giorno in cui ci siamo incontrate, a quattordici anni, siamo diventate compagne di sopravvivenza. Abbiamo abitato nella stessa famiglia affidataria insieme ad altri quattro ragazzini per appena tre mesi, ma sono bastati per gettare le solide basi della nostra amicizia.

«Com’è la California?» le chiedo.

«Piena di sole e stupenda da fare schifo, proprio come me.» Udendo la sua risata roca, me la immagino mentre si ravvia i lunghi capelli biondi. «Sono nata per stare a Los Angeles, lo sai. E anche tu. Te ne accorgerai una volta che ti sarai laureata e porterai qui il culo.»

Sorrido. «L’idea è quella.» Sento della musica in sottofondo e il rumore di appendini spostati nell’armadio. «Stai uscendo?»

«Ci puoi scommettere. Ti ho messo in vivavoce intanto che mi vesto, okay? Allora, come va dalle tue parti? Com’è stato salutare papino?»

«Va tutto bene. Siamo andati a pranzo insieme.»

«Simon è figo come al solito?»

«Dio, Steffi! Non essere volgare!» Però non riesco a trattenere una risata.

«Non è mica il mio papino», ribatte lei in tono sexy, al limite del raccapricciante. «Se fosse per me, potrei diventare la signora Dennis, e così sarei tua mamma!»

«Piantala! E poi lui è gay», le ricordo. «Non sei il suo tipo.»

«Già», commenta, con un sospiro esagerato. «Che cavolo! Indossa ancora quegli adorabili occhiali a goccia? No, non dirmelo. Perché l’amore è così ingiusto?»

«Sono sicura che sopravvivrai anche senza far breccia nel cuore di Simon.»

«Okay. Ho intenzione di affogare il dispiacere in un mucchio di drink alla vodka e di rimorchiare il più bel culo che mi passa davanti. E tu? Ti darai da fare con qualche universitario in questa bella serata?»

Evito di mettermi a ridere. «I corsi cominciano domani, quindi stasera… me la prendo comoda.» Per qualche motivo, incespico sulle parole e a Steffi non serve altro per intuire che qualcosa non va.

«Che succede, Allison?»

«Sto bene.»

«È una serata difficile?»

Sarebbe inutile mentirle. «Sì. Un po’. Non so perché.»

La musica in sottofondo si zittisce. Che mi piaccia o no, adesso ho tutta la sua attenzione. «Vuoi che ripetiamo la storia un’altra volta?» mi chiede.

Non sono in grado di parlare, ma lei mi conosce abbastanza bene per capire che sto annuendo.

Comincia a elencarmi una serie di cose che già so o, meglio, che dovrei sapere, ma che invece è costretta a ricordarmi fin troppo spesso. «Noi non siamo delle statistiche. Abbiamo sconfitto il sistema. Nessuno ci ha volute per anni? Bene, noi abbiamo distrutto il sistema. Siamo cresciute da sole, siamo state rifiutate e respinte, però abbiamo fregato tutti. Abbiamo terminato il liceo e adesso studiamo all’università. Non siamo mai state in prigione, non usiamo droghe, non siamo mai scappate, né finite per strada a fare Dio solo sa cosa. Noi non siamo delle statistiche», ripete con maggiore enfasi. «Siamo state presso famiglie orrende e altre fantastiche. I dettagli non contano. Mi senti? I dettagli non contano. Io non voglio vivere nel passato, e nemmeno tu. Non ci torneremo. È una faccenda chiusa. Noi non siamo delle statistiche del cavolo, né mai lo saremo. Noi siamo l’eccezione, e siamo eccezionali. Chiaro?»

«Giusto.» Mi ero rinchiusa nel mio guscio, finché non è arrivata Steffi e mi ha riportato in vita. Almeno in un certo senso.

«E quindi?» mi incalza. «Che cosa facciamo? Ogni singolo giorno?»

Mi giro su un lato e spengo la lampada sulla scrivania. «Ci concentriamo sul futuro e non ci guardiamo indietro.»

«Sul nostro grande futuro», mi corregge. «E perché ci aspetta un grande futuro?»

«Perché tu hai fatto in modo che studiassimo. Perché sapevi che l’istruzione era la cosa più importante e che ci avrebbe salvate.»

Non vuole che lo dica per vantarsi, ma semplicemente per spingermi a riconoscere ciò che siamo riuscite a fare. Gran parte del merito però spetterebbe a lei perché, ogni volta che mi trasferivano, minacciava, persuadeva e corrompeva gli assistenti sociali pur di scoprire dove ero andata a finire. Anche quando ci hanno separate, lei ha sempre fatto il possibile affinché restassimo unite. Steffi è l’unico motivo per cui mi sono buttata nello studio: è stata lei a inculcarmi l’importanza dell’istruzione per sopravvivere.

«E sei stata ammessa all’università. E pure in una buona.»

«E tu hai ottenuto una borsa di studio completa all’UCLA. Non ci riesce nessuno. Nessuno», ripeto, quasi per ricordare a me stessa fin dove è stata capace di arrivare. Alla fine, il duro lavoro e l’enorme determinazione di Steffi hanno dato i loro frutti. È lei, molto più di me, l’eccezione alla regola tra i ragazzi in affido.

«Siamo arrivate dove siamo», prosegue lei, «perché siamo rimaste concentrate.»

Fisso il soffitto. «E perché tu ti sei presa cura di me.»

«Ci siamo occupate l’una dell’altra.» Si interrompe un attimo. «Hai presente quello che hai fatto per me?»

«Non mi va di parlarne.»

«Okay, però anche tu ti sei presa cura di me.»

«Perché adesso non me lo permetti più?»

«Perché sono una tipa tosta.»

Mi scappa una risata. «Puoi dirlo forte, ma voglio solo che tu sappia che io ci sono. Che farei qualsiasi cosa per te.»

«Certo che lo faresti! Allison?»

«Sì?»

«Ne sei uscita bene, okay? Hai Simon, non dimenticarlo. Anche quando pensavamo che non ci fossero possibilità, anche quando sembrava che non ci importasse più, tu hai trovato un padre e ora hai un posto che puoi chiamare casa, dove tornare durante le vacanze e per l’estate. Il fatto che sia arrivato tardi non significa che non conti. Contro ogni pronostico, sei riuscita a farti adottare al liceo.»

«Non è giusto.» Non sopporto quando Steffi dice queste cose, perché provo un senso di colpa insostenibile. Mi copro la bocca con una mano per trattenere i singhiozzi e mi ci vuole un secondo per reprimere l’emozione e parlare in tono normale, neutro. «Tu invece non sei stata adottata.»

«Non ne avevo bisogno. Ero malata, Allison. Nessuno voleva una bambina con il cancro. E poi, a distanza di anni, nonostante stessi meglio, non avevo comunque bisogno di loroLoro sono Joan e Cal Kantor. Steffi si era trasferita da loro più o meno nel periodo in cui io mi ero stabilita da Simon. Lui però mi ha adottato, mentre Joan e Cal, appena lei ha compiuto diciotto anni, l’hanno lasciata andare per la sua strada. Senza un sostegno, una famiglia, un rifugio sicuro.

Per quanto fosse ormai temprata e indipendente, persino Steffi è rimasta scossa il giorno in cui le hanno gentilmente detto che non sarebbero più stati i suoi genitori affidatari. Non è stato certo un bel modo di festeggiare il diploma.

Non li perdonerò mai.

Non so che cosa dire di loro e del fatto che abbiano rifiutato la ragazza migliore che esista. Una possibile figlia.

Come sempre, Steffi riempie il vuoto che ho creato. «Ascoltami, Allison, io ero un vero disastro, okay? Un rischio. E poi, perché dovrei volermi sistemare con una bella famiglia e tre cani se ho te?»

«Giusto.» Ma non ne sono del tutto convinta.

«Ehi! Riprenditi!» mi ordina. «Ci sono qua io per te! Che cosa ti ripeto sempre?»

«Non lo so…»

«Tieniti stretta la tua persona. Ricordi? Io ho te e tu hai me. E quando, in questa vita crudele, sei così fortunata da imbatterti in una persona, una soltanto, che ami e di cui ti fidi e per cui uccideresti, allora tienitela stretta, che cavolo, perché probabilmente non ne troverai altre. Noi l’abbiamo trovata», mi spiega Steffi, convinta.

«Okay.»

«Prima o poi smetterà di bruciare.»

«Okay.»

«Dillo anche tu.»

«Prima o poi smetterà di bruciare», ripeto, senza essere sicura di crederci davvero. Non sono forte come Steffi, e il passato mi brucia ancora. Anche se il peggio dovrebbe essere lontano, mi brucia ancora, con una forza che non riesco a sopportare.

Forse ormai sono andata in frantumi. Troppi.

«Steffi? Non sei un disastro. Non lo sei mai stata. Sei solo troppo perfetta per qualsiasi genitore, ecco tutto.»