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Una motivazione
DURANTE la prima settimana al campus, faccio una scoperta sconvolgente: una volta arrivati al terzo anno, è davvero più difficile trovare corsi frequentati da orde di studenti. Adoro gli auditorium e le lezioni che permettono di restare anonimi e, per quanto possa suonare ironico visti tutti i miei sforzi per evitare la gente, in certe situazioni ho imparato a considerare la folla come un’alleata.
Venerdì mattina, trascorro trentacinque minuti in segreteria a spulciare i vari corsi disponibili in cerca dei migliori in cui mimetizzarmi. Mi rifiuto di abbandonare quello che si chiama «Cento parole per la neve: linguaggio e natura», perché parla del modo in cui la lingua influisce sulla nostra visione del mondo, ed è un concetto che mi affascina molto. Principalmente si ascolta e prevede una partecipazione minima, cosa che mi sta benissimo. Rinuncio invece a «Culture del neoliberismo», dato che si svolgerà in una sala conferenze in biblioteca e non ho nessuna intenzione di parlare dell’«autonomia relativa della sfera economica» soltanto con altri sei studenti e un professore. Opto invece per «Psicologia sociale», che pare quotato. Con «Mangiare per cambiare? Cibo, media e ambiente nella cultura consumistica degli Stati Uniti» e «Probabilità e statistica matematica» dovrei aver raggiunto un perfetto equilibrio: evito troppe interazioni e seguo corsi che mi piacciono sul serio.
Una volta definito l’orario, le prime settimane scorrono lisce e mi creo una gradevole routine fatta di studio, visite in biblioteca e pasti in caffetteria in compagnia di un buon libro. Probabilmente passo per una secchiona, ma all’Andrews College non è considerato strano.
Un venerdì di fine settembre, attraverso la caffetteria affollata e vado in cortile, inspiegabilmente di buonumore. Per oggi mi resta soltanto il corso di psicologia e potrò sottrarmi alla pressione di dover stare con altre persone grazie al weekend in arrivo. Cammino sul prato illuminato dal sole fino a un posticino isolato sotto una grande quercia, aspirando con foga dalla cannuccia il mio squisito caffè freddo. Ho ancora mezz’ora prima della lezione, quindi mi appoggio al tronco nodoso ed estraggo dallo zaino un libro preso in prestito in biblioteca.
Probabilmente sono l’unica al mondo a preferire ancora i libri stampati agli ebook. In generale, devo ammettere che non sono una grande amante della tecnologia. Certo, uso le email e internet per le ricerche e per tenermi aggiornata, e ho un cellulare, ma la cosa finisce qui. Sono anni che Steffi mi tormenta perché mi faccia un profilo su Facebook e Twitter, però al solo pensiero mi viene la nausea. Lei non si capacita proprio del mio desiderio di evitare i social network, vista la sua fissazione con i gossip. Nonostante a Los Angeles non abbia nessun amico intimo, è molto ben inserita nella vita mondana della sua università ed esce in continuazione con persone che incontra alle feste.
Comincia a fare freschino e finalmente sembra autunno. Alzo lo sguardo verso le foglie mosse dal vento, che mi punteggiano il viso con disegni di luci e ombre. È tranquillo qui, e avverto un senso di pace.
Mi guardo intorno e, come sempre, ammiro gli stupendi edifici in pietra del campus. L’Andrews College ha il tipico aspetto di un’università e persino le costruzioni più recenti sono state progettate in modo da adattarsi armoniosamente a quelle più vecchie. Ci sono poi alberi, vialetti lastricati e lampioni in ferro battuto che creano ancora più atmosfera. Ispirata da questa magnifica giornata, mi riprometto di trascorrere più tempo all’aperto, prima dell’arrivo del brutale inverno del Maine. Restare rintanata nella mia stanza troppo a lungo non è saggio e, anche se sono in disparte sotto una quercia, almeno da qui posso osservare il mondo scorrermi davanti. Mi rendo conto solo ora che, se presto attenzione, posso udire un mucchio di rumori: le urla dei ragazzi che giocano a frisbee, le chiacchiere degli studenti che camminano sul vialetto qui accanto, le note di una chitarra sotto un altro albero poco lontano… Sono sbalordita dalla quantità di suoni da cui di solito mi isolo. Ottimo: un ulteriore indice di una salute mentale non buona.
Studio il tizio con la chitarra. È curato: i capelli sono corti e dal taglio impeccabile e indossa una camicia scozzese infilata nei jeans. Strimpella lo strumento, che tiene appoggiato sulle gambe, e canta per una ragazza lì vicino che lo fissa sdraiata sull’erba. Sembra uno studente di economia che si è messo a suonare per rimorchiare. E a quanto pare funziona, perché la tizia ne è affascinata.
Dovrebbe essere una scena dolce, invece il mio buonumore svanisce all’istante. Per un attimo, sono gelosa. Nessun ragazzo canterà mai per me, figuriamoci guardarmi come lui sta facendo con la sua bella. Eppure non dovrei essere invidiosa perché, stando alle statistiche, la loro storia finirà male. È così che va la vita.
Quei due non hanno la minima idea di quanto sia ingenuo credere e fidarsi di qualcuno.
Mi sforzo di trattenere una smorfia quando lui posa la chitarra, le si avvicina e, ridendo, la spinge sulla schiena e si china su di lei. Dio, quanto sono gelosa. E triste. Sono triste perché a me non capiterà mai nulla di simile.
Rimetto il libro nello zaino senza nemmeno averlo aperto, chiudo la cerniera e mi avvio a grandi passi verso un cestino per buttare il caffè freddo, che ormai non mi va più. Lancio il bicchiere, che però rimbalza contro il bordo ed esplode, imbrattando il marciapiede.
«Bel tiro», commenta un tipo in tono scortese.
«Grazie tante!» gli grido di rimando.
Davanti al disastro che ho combinato, mi sfugge un sospiro. Non posso lasciare cubetti di ghiaccio sparsi per tutto il vialetto, quindi mi accovaccio e li raccolgo, imprecando sottovoce ogni volta che me ne scappa qualcuno tra le dita.
«Sono scivolosi, eh?» Proprio di fianco a me spuntano un paio di jeans strappati e di Converse rosse, a cui rivolgo una rapida occhiata.
Senza rispondere, continuo a ripulire quel casino. Ancora con lo sguardo basso, recupero alcuni tovaglioli di carta dallo zaino e tampono alla bell’e meglio la chiazza di caffè.
Il nuovo arrivato si china e, con destrezza, tira su tutti i cubetti che mi sono sfuggiti e li rovescia nel bicchiere che ho in mano. Ha gli avambracci abbronzati, muscolosi, con i polsi pieni di bracciali di pelle e corda sottile. Come i bracciali di un supereroe. Giro d’istinto la testa di qualche millimetro e, con la coda dell’occhio, noto un bicipite spuntare da una maglietta bianca. Distolgo subito lo sguardo. Quanto vorrei che questo ragazzo non si fosse fermato.
Quanto vorrei che la mia mente non si riempisse di colpo di pensieri sconci.
E quanto vorrei che non profumasse di biscotti e amore.
Non appena finisce di raccattare l’ultimo cubetto, butto il bicchiere nel cestino senza provocare ulteriori catastrofi. «Grazie per l’aiuto. Tra poco si materializzeranno nove milioni di formiche per il festival dello zucchero», borbotto.
Mister Profumo lava il marciapiede con l’acqua di una borraccia in acciaio. «Non preoccuparti.»
Lo so, dovrei ringraziare meglio questa persona che si sta dimostrando tanto gentile senza nessun motivo. Per quanto mi pesi, e me ne vergogno, mi costringo a sorridere e ad alzare la testa verso di lui. Be’, in realtà devo reclinarla per vederlo in faccia, dato che svetta di almeno quindici centimetri sul mio metro e sessanta.
Mi guarda a sua volta. Mi guarda davvero. Evito che i nostri occhi si incontrino e, anche se avrei voglia di voltarmi e andarmene, i capelli castani che gli incorniciano morbidi il viso mi convincono a restare. Sono un po’ troppo lunghi e, mentre le ciocche più corte mettono in risalto i lineamenti, quelle più lunghe gli ricadono sulle orecchie e gli arrivano quasi alle spalle. A quanto pare, non si rade da diversi giorni, ma quest’aria trasandata gli dona e mi ci vuole tutta la forza di volontà di cui dispongo per non perdermi nelle sue iridi color ambra che sembrano penetrare fin dentro di me. Questo ragazzo mi sconcerta e disorienta. Eppure… non posso non fissarlo. Soltanto per un attimo, una manciata di secondi, osservo il suo viso: le guance piene che vorrei costringerlo a radersi per poterle vedere bene.
È una pazzia. Sono impazzita. Devo essere in balìa di un sovraccarico ormonale psicotico e devo subito porre fine a questa stupidaggine. Subito, subito. Seriamente.
Distolgo lo sguardo e butto via un tovagliolo zuppo. «Grazie ancora. Devo andare a lezione.»
Sta per dire qualcosa, lo so, quindi mi giro di scatto e mi inserisco nel flusso di studenti diretti dall’altra parte del campus. Come se non fossi già abbastanza sottosopra, vedo venirmi incontro Carmen, che mi saluta con la mano. La imito in silenzio, anche se muoio dalla voglia di gridare per lo stato di totale confusione in cui mi ritrovo dopo aver rovesciato il caffè ed essere stata aiutata da uno sconosciuto sexy.
La lezione di Psicologia sociale si svolge in uno degli auditorium più grandi dell’università. Nonostante l’alto numero di frequentanti, ci sono ancora diversi posti vuoti e mi sistemo subito al mio solito, all’estremità di una fila centrale. Apro il raccoglitore e fingo di ripassare gli appunti della scorsa volta. La maggior parte degli studenti li prende al computer, ma Steffi ha letto da qualche parte che scrivere a mano aiuta a imparare meglio. Mi infilo le cuffie e faccio partire la mia app di rumore bianco, in modo da essere sicura di non venire interrotta a mano a mano che la stanza si riempie.
Sento un colpetto sulla spalla e faccio un salto sulla sedia: è soltanto una ragazza che vuole passare. Annuisco e mi alzo ed è allora che, nonostante le cuffie, mi giungono alcune voci. Sollevo lo sguardo: il tipo del ghiaccio è appena entrato nell’auditorium. Ho un nodo allo stomaco. Fermo sui gradini, è circondato di gente che gli si rivolge in maniera vivace ed espansiva e lo ricopre di attenzioni.
Senza pensarci due volte, spengo la app e mi risiedo.
Lo sconosciuto sorride a qualcuno che lo saluta con una pacca sulla schiena e, allo scroscio di applausi di un’intera fila, solleva il capo. Chi è questo ragazzo?
Gli studenti cominciano a scandire il suo nome. «Esben! Esben! Esben! Hashtag spacchi anche tu! Hashtag spacchi anche tu!»
Dunque si chiama Esben. Be’, chissenefrega.
Confusa, mi faccio piccola piccola al mio posto. Non capisco cosa stia succedendo, però sono terribilmente agitata. Esben ride e cerca di sottrarsi all’attenzione, ma una ragazza lo chiama a voce abbastanza alta da sovrastare il coretto sempre più forte e gli indica una sedia libera accanto a sé. Dev’essere un idolo strapopolare qui nel campus.
Lo ignorerò. Non sarà difficile. Io e lui non abbiamo niente in comune.
Eppure, per tutta l’ora e mezzo seguente, gli fisso la nuca e devo fare uno sforzo immane per prendere appunti. Mio malgrado, sono incuriosita quando il professore introduce il concetto di leadership carismatica e accenna a Esben, strappando una risata e un applauso all’intero auditorium. Al termine della lezione, ho il cuore a mille e, non appena il professore ci assegna i brani da leggere per la prossima volta, scatto in piedi. Raggiungo la porta nel giro di pochi secondi e mi faccio largo tra gli studenti per uscire.
Dio, ho bisogno di aria. Ho bisogno di aria.
Supero la folla a passo sempre più spedito e mi fiondo nella mia stanza a tempo di record. Mollo lo zaino sul divano nel salottino e, per tranquillizzarmi, mi guardo allo specchio. La frangetta è ancora in ordine, la lunga coda a posto e il mascara non è colato né si è accumulato in disgustosi grumi agli angoli degli occhi. Inspiro a fondo, finché inizio a calmarmi.
Solo allora noto la macchia di caffè di dimensioni non indifferenti sulla maglia gialla che indosso.
Merda.
Con mano tremante, me la sfilo e ne cerco una pulita nell’armadio. È una reazione esagerata per una semplice macchia, lo so, però ho i miei buoni motivi.
A undici anni, ho vissuto con una madre affidataria ossessionata dall’idea che mi sporcassi. Una macchiolina sulle scarpe era una catastrofe e così avevo cominciato a camminare in modo strano, sollevando bene i piedi. Una patacca in bella vista sulla maglietta era causa di ansia e quindi avevo imparato a stare sempre all’erta per non indurre quella donna a depennarmi dalla sua lista di bambini adottabili. Con una smorfia, lei mi indicava sempre ogni minima macchia sui vestiti e, con parole gentili, mi suggeriva di cambiarmi. Ancora oggi sono convinta che mi abbia rimandato indietro perché non ero capace di essere immacolata.
Frugo disperatamente nell’armadio alla ricerca della T-shirt più candida che ho. Sapere come mai sto perdendo la testa non mi aiuta affatto. Questa folle reazione rientra nel milione di atteggiamenti disfunzionali che ho perfezionato nel corso degli anni.
Sono proprio irrecuperabile, che cavolo.
Vado nel bagno in fondo al corridoio con la maglietta sporca di caffè e la metto sotto l’acqua. Mentre la sciacquo, noto qualcosa di scuro vicino all’orlo inferiore e mi scappa un gemito. Grandioso, e questa che razza di macchia è?
Sotto le dita, sento un oggetto di plastica. È una spilla azzurra con una scritta bianca. NON RAGGIUNGERAI MAI CIÒ CHE HAI DAVANTI SE NON TI LIBERERAI DI CIÒ CHE TI STA ALLE SPALLE.
La fisso, incredula. Perché ho una spilla con una frase motivazionale sulla maglia?
NON RAGGIUNGERAI MAI CIÒ CHE HAI DAVANTI SE NON TI LIBERERAI DI CIÒ CHE TI STA ALLE SPALLE.
Che cavolata. Certa gente non sarà mai in grado di liberarsi del bagaglio che si porta appresso.
NON RAGGIUNGERAI MAI CIÒ CHE HAI DAVANTI SE NON TI LIBERERAI DI CIÒ CHE TI STA ALLE SPALLE.
Mi sembra quasi di udire queste parole. Mio malgrado, abbozzo un sorriso.
È strano, una spilla compare all’improvviso sulla mia maglia. Eppure, devo ammettere che, in un certo senso, è anche meraviglioso. È un bel pensiero e magari dovrei prenderlo sul serio.
Forse questa spilla è più furba di me.