12
L’orsetto
LUNEDÌ mattina arriva troppo in fretta e, al tempo stesso, non abbastanza. Mi sveglio di soprassalto alle cinque e non mi riaddormento più. Oggi è un giorno cruciale, il giorno in cui rientrerò nella mia tana oppure introdurrò importanti cambiamenti nella mia vita. In entrambi i casi, sono terrorizzata, ma mi spaventa di più l’idea di battere in ritirata piuttosto che di farmi avanti. Ho promesso a Steffi di essere coraggiosa e devo riuscirci, non soltanto per lei. Il desiderio di avere di più è diventato ormai troppo forte per ignorarlo. C’era già ma, finalmente, ora sono in grado di ammettere con me stessa che i centottanta secondi con Esben mi hanno in qualche modo trascinato in un vortice.
O mi schianterò a terra o spiccherò il volo.
Tuttavia, so che quello che provo adesso non è colpa di Esben e non sono più arrabbiata con lui. Lui mi ha trovato in un pomeriggio in cui ero vulnerabile e non poteva certo immaginare che sarei stata così fragile e piena di paura.
Paura di lui, di tutto.
Il dolore, il senso di rifiuto e di vuoto hanno riempito la mia infanzia e mi hanno controllato talmente a lungo che non so se riuscirò a cancellarli.
Dio solo sa quanto lo vorrei, però.
Mi copro gli occhi con le braccia per scacciare le lacrime che minacciano di sgorgare.
Mi vergogno tantissimo di essere fredda, di avere soltanto un’amica, di aver vissuto in una bolla che sono stata io stessa a creare.
Sono coraggiosa. Sono coraggiosa. Sono coraggiosa.
Non trattengo le lacrime. «Non voglio continuare così», ripeto più volte a voce alta tra i singhiozzi. Piango per la persona che sono stata, per quella che sono e per quella che potrei essere. Tuttavia, avverto anche un briciolo di sollievo, perché sta per avvenire un cambiamento, ne sono sicura. Un cambiamento che potrebbe dissotterrarmi dai rottami della mia esistenza. Non so che aspetto avrà, ma devo correre il rischio.
Tornerò a sperare.
Sono coraggiosa. Sono coraggiosa. Sono coraggiosa.
Dopo un bel po’, recupero la calma. Mi alzo dal letto, prendo la macchina del caffè e me ne preparo uno bello forte. Lascio di proposito lo scatolone e l’imballaggio per terra, nel tentativo di attenuare il mio rigido bisogno di ordine. Vado a farmi una doccia e mi rinfresco con il forte getto d’acqua sulla pelle, ma ho gli occhi gonfissimi e, una volta tornata in stanza, ci metto del ghiaccio mentre bevo il caffè da una delle due tazze rosse. Asciugo i capelli e provo a ricreare i ricci che mi ha fatto Steffi l’altra sera. Mi infilo un lupetto bianco senza maniche, un cardigan beige, un paio di jeans e degli stivaletti marroni, poi mi trucco. Meno di quanto mi consiglierebbe Steffi, però più del solito. Voglio essere carina oggi, perché ho bisogno di tutto l’incoraggiamento possibile.
Apro un altro pacco di Simon e trovo un diario con la copertina di stoffa, tre tipi diversi di tè e un dosamiele, popcorn, due tavolette di cioccolato fondente e, che Dio lo benedica, una crema per ridurre le occhiaie. Me ne picchietto subito un po’ sulla pelle pregando che funzioni e tiro fuori l’ultimo oggetto della scatola.
Potrei scoppiare di nuovo a piangere.
Simon mi ha mandato un orsetto di peluche. Un soffice orsetto marrone, con le gambe lunghe e un fiocco a pois intorno al collo. Lo stringo forte e chiudo gli occhi. Nessuno mi ha mai regalato un peluche ed è una consapevolezza devastante, imperdonabile e insormontabile. Nessuna tra le mie famiglie affidatarie ha mai badato al fatto che non avessi un peluche. Una volta mi addormentavo abbracciata a un cuscino, oggi ho un orsetto. Con un sorriso sincero stampato in faccia, mi scatto un selfie con l’orso e lo invio a Simon, che mi risponde quasi all’istante.
Ogni bambino dovrebbe avere un orsetto. Tu sei troppo grande per queste cose e lo eri già quando ti ho conosciuto, ma… un padre deve regalare per forza un orsetto alla propria figlia, quindi meglio tardi che mai.
Abbasso le palpebre e, stretta al peluche inspiro a fondo. Meglio tardi che mai, davvero.
Mezz’ora dopo, sono davanti all’auditorium per la lezione di Psicologia sociale. Nel varcare la soglia, mi sembra di vivere un momento fondamentale, però rimango tranquilla, mi sistemo al solito posto e appoggio lo zaino sulla sedia accanto alla mia. Sono arrivata apposta per prima e tengo gli occhi incollati alla porta, in attesa di vederlo. Non mi metto le cuffie e non fingo di leggere o di prendere appunti.
Oggi lo aspetto e basta.
Quando la sala è ormai piena per tre quarti, eccolo.
Raddrizzo la schiena.
Esben sembra indeciso se guardarsi intorno oppure no e dentro di me prego che lanci un’occhiata nella mia direzione. Comincia a salire le scale alla mia destra e, proprio quando penso che voglia sedersi in una fila davanti, lo vedo bloccarsi e sollevare piano la testa. È nervoso e, probabilmente, aspetta di capire come reagirò.
Non posso dargli torto. Finora il mio comportamento non si può certo definire prevedibile.
Gli rivolgo un sorriso e la sua espressione si fa più rilassata. Continua ad arrivare gente e sono sicura che ci stiano osservando tutti, ma non mi interessa. Tolgo lo zaino dalla sedia e inclino il capo, per invitarlo a sedersi accanto a me. Insieme ad altri studenti in cerca di un posto, comincia a salire i gradini rimasti quasi saltellando, ed è adorabile. Oggi non risponde ai saluti e resta impassibile al coretto che strilla il suo nome qualche fila più in alto. Avanza verso di me come se nell’auditorium non ci fosse nessun altro.
Sedendosi, mi sfiora con un braccio. «Ciao», sussurra.
«Ciao.»
«Com’è stato il resto del fine settimana?» mi domanda, con un luccichio negli occhi.
«Meno ubriaco.»
«Sei carina da sbronza», commenta, nel tono più dolce che abbia mai udito.
Mi mordo il labbro per impedirmi di sorridere troppo e, con mia grande gioia, le luci si spengono di colpo e il professore fa partire una presentazione PowerPoint. Per il resto della lezione, non parliamo né ci guardiamo e, appena le luci si riaccendono, perdo apposta un sacco di tempo a sistemare le mie cose.
Esben si alza. «Be’… ci vediamo mercoledì allora, giusto?»
Si volta per andarsene e il mio cuore prende a battere a mille.
«Esben, aspetta.» Sono disperata e in preda al panico. Se non lo faccio adesso, non lo farò mai più.
È venuto il momento di battermi o scappare.
«Ti…», deglutisco a fatica, «ti andrebbe di prendere un caffè? O qualcos’altro? Magari odi il caffè, quindi non dobbiamo per forza berne uno. Possiamo fare qualsiasi altra cosa.»
Nonostante la sua espressione super affascinante, resta in silenzio.
«Però, se ti va, io adoro il caffè», proseguo. «Tantissimo, forse troppo. Possiamo andare alla caffetteria del campus. Non è un posto da intenditori, ma… ehm…»
Mi toglie lo zaino di mano. «C’è una caffetteria un po’ particolare non lontano da qui, piena di divani e poltrone imbottite. E il caffè è molto meglio rispetto a quello del campus.»
«Certo. Sì. Sembra carina.» Mi sforzo di mostrarmi disinvolta anche se sto per svenire, poi però rimango nuovamente colpita da quanto sia gentile e da quanto sia facile parlare con lui. Solo perché non ho più gin in corpo, non significa che debba scordarmelo. Vorrei tanto avere con me l’orsetto a cui aggrapparmi.
«Ho parcheggiato qui dietro.»
«Okay.» Fatico a muovermi.
Esben mi porge una mano. «Ti sfido a non apprezzare il loro cappuccino gigante con aggiunta di cacao», mi dice con un sorriso rassicurante.
Tenendoci per mano, attraversiamo il corridoio affollato, diretti verso l’uscita sul retro. Controllare il tremito alle ginocchia è una vera fatica. Quando Esben si stacca da me per aprire la porta, il mio palmo mi sembra troppo vuoto.
Mi guarda. «Devo avvisarti di una cosa.»
«Non sei simpatico come sembri e hai intenzione di infilarmi nel bagagliaio e buttarmi giù da una scogliera?»
«Non ci sono scogliere in zona.» Mi dà una pacca scherzosa sul braccio.
«Lo spero, perché altrimenti sto commettendo un enorme errore.»
«No.» Sfoggia un sorriso perfetto. «Be’ se pensavi che la mia stanza fosse un casino, preparati per la mia macchina.»
Mi ero dimenticata di avergli dato del casinista. «Oddio, mi dispiace per quello che ho detto.»
«Non devi. Hai ragione.»
Raggiungiamo una vecchia berlina grigio metallizzato e lui spalanca la portiera dal lato del passeggero. «Vedi? Non devi salire nel bagagliaio!»
Scoppio a ridere. «Sei un vero gentiluomo.»
Mi fa un inchino. «Sono qui per servirla.»
Quando accende il motore, parte anche la radio. «Non è lontano, ma non abbastanza vicino da andarci a piedi.»
«Per fortuna hai un’auto.» Mi guardo intorno. «Nonostante i bicchieri vuoti, le cartacce, i libri e… quaranta paia di occhiali da sole.» Sorrido, per fargli capire che lo sto prendendo in giro.
«Ah! È vero, ho un problema con gli occhiali da sole. Penso sempre di averli persi, allora me ne compro un paio da quattro soldi e poi ritrovo quelli vecchi. È un circolo vizioso.»
«Non è un problema. Sei un collezionista.»
«Vedi le cose da un’ottica diversa. Mi piace. Sei intelligente.»
«‘Un’ottica diversa’… Bella battuta visto che stiamo parlando di occhiali, anche se da sole.»
«E non mi sono neanche impegnato. Aspetta di vedere quando mi metto in testa di fare qualcosa di divertente!»
Si immette sulla strada principale e io guardo fuori dal finestrino, incerta su cosa dire ora che siamo ufficialmente intrappolati tra quattro lamiere. Restiamo zitti per tutto il tragitto e sono contenta che ci sia la musica a colmare il silenzio. A essere sincera, non è poi così strano. È come se Esben mi stesse lasciando un po’ di spazio. Sebbene l’ansia minacci di paralizzarmi, lui riesce a darmi conforto in maniera speciale e meravigliosa, e il mio desiderio di correre qualche rischio oggi è più forte che mai.
Combatterò per me stessa, sul serio.
Faccio a malapena in tempo a slacciare la cintura che lui mi sta aprendo la portiera. «Ecco la caffetteria.» Indica una tenda da sole viola scuro e una vetrina incorniciata da travi di legno. Comincia a incamminarsi, ma io lo chiamo costringendolo a voltarsi.
«Sì?»
Per fortuna ho il sole in faccia, perché non voglio guardarlo negli occhi mentre glielo dico. «Sono molto nervosa e ho pensato di avvisarti.»
«Anch’io sono un pochino nervoso.»
«Non è vero.»
«Certo che lo sono.»
«E come mai saresti nervoso, tu? Sono io quella incasinata.»
«Allison.» Fa un passo di lato per ripararmi dai raggi. «Stai scherzando? Sono nervosissimo.»
Mi concentro sui bottoni della sua camicia. «Perché?»
«Perché tu mi piaci», spiega. «Perché penso che ci sia qualcosa tra noi e ho una paura folle di fare di nuovo una mossa sbagliata che ti farà correre via. E non voglio. Se proprio devi correre da qualche parte, preferirei che corressi da me. Lo so che non ci conosciamo, non bene, ma… mi piacerebbe soltanto prendere un caffè insieme a te.»
«Sono io che ho paura di sbagliare ancora. E forse ho paura che, quando berrai il caffè, ti verrà uno choc anafilattico, andremo al pronto soccorso e tu morirai perché sei allergico al lattosio. E sarebbe la fine di tutto, letteralmente, e quindi sto facendo uno sforzo incredibile per essere qui, dato che questo dovrebbe essere l’inizio, non la fine.» Rabbrividisco per il vento che mi scompiglia i capelli. «Scusa, sto blaterando.»
Esben solleva una mano e mi sistema una ciocca dietro l’orecchio. «Non sono allergico al lattosio, ma berrò qualsiasi cosa tu voglia offrirmi, perché per te vale la pena di andare al pronto soccorso.» Mi strizza l’occhio.
«Allora beviamoci questo caffè, e cercherò di non fare nulla che possa ucciderti.»